N. 6 - Giugno 2008
(XXXVII)
LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI
I
RUGGENTI ANNI '20
- Parte IX
di Cristiano Zepponi
In
tutte le epoche storiche – escludendo gli ultimi due
secoli e mezzo – l’umanità ha affrontato tre grandi
piaghe, che possiamo (cinicamente) definire dei
salassi necessari, data la scarsa capacità di
ottenere i mezzi sufficienti ad una crescita della
popolazione: carestie, epidemie e guerre, i “tre
cavalieri dell’apocalisse”, che, a turno o
simultaneamente, riportavano ciclicamente la
popolazione ad un livello “sostenibile”, e
compatibile con le (magre) risorse disponibili.
Attorno al 1750, comunque, i demografi evidenziano per
l’Europa un punto di svolta, che coincide con la
crescita della produttività agricola,
l’industrializzazione, l’ampliamento del mercato, la
diffusione di una pur primitiva crescita dell’igiene
pubblica, del consumo alimentare. La morte,
precedentemente cronica ed epidemica, viene
rivoluzionata: scomparvero allora le tradizionali “crisi
di mortalità”, e si abbassa notevolmente il tasso medio,
specie infantile.
Le guerre, combattute prevalentemente sui mari e sulle
colonie, cominciarono a pesare meno sulle popolazioni
europee, e divennero assai meno distruttive. La “nuova
demografia” emetteva allora i suoi primi vagìti.
Come detto, la guerra tornò a mietere vittime in quantità
nei quattro anni dell’”inutile strage”, sui valichi
alpini, le pianure alsaziane e la steppa russa. Idem per
la fame, che si ripropose puntualmente una volta posto
il blocco ai commerci degli avversari, ovvero una volta
scomparso il mercato.
Lo stesso accadde per il terzo cavaliere, l’epidemia. Come
si ricorderà, la Spagna non era stata coinvolta nella
prima guerra mondiale: di conseguenza, la sua stampa non
era soggetta alla censura di guerra.
Per questo motivo la rapida diffusione di un’influenza
portata in Europa dalle truppe statunitensi fu taciuta
negli altri Paesi, che presero a raccontarne
l’evoluzione limitatamente al territorio spagnolo; per
questo motivo, soprattutto, fu chiamata “spagnola”
(H1N1).
Non fu possibile contare i cadaveri, che dovevano aggirarsi
però sui cinquanta milioni di morti, con tassi di
mortalità capaci di raggiungere il 70%; l’Europa, già
sfinita, subì quindi un ulteriore salasso.
Dopo la firma dei trattati di pace, d’improvviso, i
problemi economici s’imposero agli occhi degli statisti,
affondando le radici nel nodo delle riparazioni.
La Gran Bretagna aveva prestato agli alleati, fino al 1917,
circa 4 miliardi di dollari; quell’anno, era stata
sostituita dagli Usa nel ruolo di principale
finanziatore.
Alla fine del conflitto i debiti di guerra interalleati
assommavano a 20 miliardi di dollari, metà dei quali
piovuti d’oltreoceano: e tutti si aspettavano che
sarebbero stati cancellati, che si trattasse insomma di
prestiti nominali, visto e considerato lo scarso
contributo in termini di caduti (la cartina di tornasole
dello sforzo bellico) versato dagli USA.
Per gli alleati d’oltreoceano, invece, i prestiti erano
un’iniziativa commerciale, e ne pretesero la
restituzione; Francia e Gran Bretagna, dal canto loro,
ingiunsero alla Germania di pagare – oltre ai danni
arrecati ai civili – anche le spese sostenute dai
governi per proseguire la guerra: intendevano, in questo
modo, addossare agli sconfitti le spese del loro ritardo
tecnologico.
Lloyd George, il premier britannico, provò a proporre la
cancellazione integrale; ma ottenne una risposta netta,
e riassumibile con la battuta del presidente americano
Coolidge: “I soldi li hanno presi, o no?”
I soldi li avevano presi, in effetti, ma non sarebbero mai
stati in grado di restituirli se l’economia mondiale non
si fosse rimessa in moto. I tedeschi provarono a pagare
in contanti ed in natura (carbone, macchine industriali,
prodotti chimici) già dall’agosto del 1919, ma
l’enormità della somma da restituire (che l’apposita
commissione aveva stimato in 132 miliardi di marchi oro)
li obbligava a riprendere il flusso di esportazione
verso l’estero.
Quattro anni d’interruzione dei traffici, però, non si
potevano superare d’un colpo; e nuovi Paesi, come Stati
Uniti, Giappone, Argentina, Brasile, canada, Sud Africa
e Australia, avevano occupato la quota di mercato
mondiale precedentemente riservata all’Europa.
Recuperare i perduti livelli di competitività, quindi, si
rivelò estremamente difficile; la riconversione
all’economia di pace, il reinserimento dei reduci, i
fermenti sociali post-bellici (il ‘biennio rosso’,
che vide l’avanzata politica dei movimenti operai del
continente, e la minaccia portata dai tentativi
rivoluzionari d’estrema destra) resero poi l’impresa
quasi impossibile.
Nonostante gli appelli di Wilson, il ritorno alla pace non
garantì infatti la ripresa di normali relazioni
commerciali, ma evidenziò anzi una ripresa del
nazionalismo economico e del protezionismo doganale,
faticosamente sconfitti nel corso del secolo precedente.
Nei singoli Paesi, inoltre, si dimostrò impossibile un
immediato ritorno all’economia di mercato, e i governi
dovettero mantenere i blocchi sui prezzi dei generi di
prima necessità e sui canoni d’affitto.
Il sostegno dei poteri pubblici era richiesto un po’ da
tutti, ed in special modo dagli industriali alle prese
con il difficile processo di riconversione all’economia
di pace. Grazie a questo appoggio, i livelli produttivi
degli anni di guerra si mantennero più o meno inalterati
fino alla fine degli anni ’20, quando s’innescò una
temporanea fase depressiva.
La Germania, soprattutto, cadde ben presto sotto un’ondata
inflazionistica, dovuta al forte squilibrio della
bilancia dei pagamenti e ad iniziative speculative; il
marco tedesco crollò, obbligando la neonata Repubblica
di Weimar – che aveva già dovuto subire le tensioni
legate al moto spartachista, all’insurrezione della
‘Repubblica dei Consigli’ in Baviera ed ai militari
smobilitati e inquadrati nei ‘corpi franchi’,
paramilitari e anticomunisti - a sospendere i pagamenti.
Per ritorsione, nel gennaio 1923 truppe francesi e belghe
occuparono il bacino della Ruhr, il cuore
dell’industrializzazione germanica, e ne assunsero il
controllo. I tedeschi risposero con una resistenza
passiva, mentre il governo stampava quantità enormi di
cartamoneta destinata agli operai ed agli imprenditori
della regione, scatenando un’ondata di iperinflazione
incontrollata.
Nel 1914 il marco tedesco era scambiato a 4,2 contro un
dollaro; nel 1918, a 14 per dollaro. Nel luglio del ’22
era sceso a 493, nel gennaio del ’23 a 17.792, fino al
picco del 15 novembre dello stesso anno:
4.200.000.000.000 marchi per dollaro. Una magra spesa
obbligava l‘uso di una carriola, per trasportare il
denaro, che arrivò a costare letteralmente meno della
carta su cui era stampato.
Nonostante il governo tedesco (presieduto, dall’agosto
1923, da Gustav Stresemann, leader del partito
tedesco-popolare) reagisse sostituendo la moneta con una
nuova unità monetaria, la Rentenmark (equivalente
a mille miliardi di vecchi marchi, e garantito dal
patrimonio agricolo e industriale del Paese), l’epidemia
si estese agli stati dell’ex-impero asburgico, alla
Bulgaria, alla Grecia, alla Polonia, fino alla Francia –
che alla fine decise di ritirarsi dalla Ruhr, alla fine
dell’anno.
Fu subito studiato un sistema per ovviare alla grave crisi
della finanza internazionale: un’apposita commissione
elaborò allora un progetto (che dal presidente prese il
nome di Piano Dawes) che raccomandava una
graduale diminuzione de pagamenti annuali, un prestito
internazionale (di 800 milioni di marchi) e la
riorganizzazione della Reichsbank, per dare respiro
all’economia tedesca (allora, come oggi, centro
nevralgico di quella europea).
Un ulteriore afflusso di capitali esteri permise alla
Germania di tornare alla parità aurea (nel 1924); i
prestiti privati, poi, permisero di riorganizzare
l’apparato industriale del Paese, ormai obsoleto.
La “razionalizzazione” del sistema consentì di limitare gli
sprechi, puntando sui vantaggi derivanti dal sistema
dell’economia di scala: grandi concentrazioni, capaci di
produrre ad un costo minore.
La Gran Bretagna, invece, che già da tempo stava perdendo
terreno, uscì dal conflitto privata di mercati,
investimenti, bastimenti mercantili. La disoccupazione
raggiunse livelli preoccupanti (tra il 10% ed il 25% in
tutto il decennio), mentre i provvedimenti governativi,
timidi e tardivi, palesavano la loro inefficacia. Si
cercò solo – o quasi – di ridurre le spese e gli
investimenti, rimandando gli interventi necessari sul
piano industriale ed infrastrutturale.
Quando ci si mosse, poi, si combinarono disastri
memorabili. La Gran Bretagna, come ovvio, era uscita dal
gold standard (il sistema di parità aurea) nel
1914.
Nel 1925 il Cancelliere dello scacchiere, Winston Churchill,
decise di tornare alla parità d’anteguerra, ignorando
che così facendo avrebbe svantaggiato le già pericolanti
manifatture britanniche, che d’un giorno all’altro
videro quasi raddoppiare i prezzi dei prodotti destinati
al mercato estero, perdendo in competitività. Nel
sistema prebellico, infatti, la sterlina equivaleva a
4,86 dollari, ma gli USA non avevano abbandonato il
gold standard; motivi di prestigio, di rispetto
delle tradizioni e della grandezza imperiale del Paese
offuscarono la vista del Cancelliere. Ma l’Inghilterra
non era più quella di una volta, come dimostrato
dall’immediata compressione dei salari dei lavoratori,
dalla crisi del settore minerario (capace di mobilitarsi
per uno sciopero generale di dieci giorni, indetto per
combattere il provvedimento) e dalla redistribuzione del
reddito in favore dei possessori di rendite.
Gli Stati Uniti, primo Paese produttore, superarono
abbastanza agevolmente la depressione del ’20-’21, ed
inaugurarono un periodo di grande prosperità, dovuto
anche alla diffusione dei principi del taylorismo;
la produzione oraria per operaio nel settore
manifatturiero crebbe, tra il ’19 ed il ’29, del 72%, la
produzione industriale, fra il ’23 ed il ’29, del 30% ed
il reddito nazionale, nello stesso periodo, di quasi il
25%.
L’automobile si diffuse raggiungendo il livello di una ogni
cinque abitanti (in Europa rimaneva di 1:83), gli
elettrodomestici – radio, frigoriferi, aspirapolvere –
approfittarono del sistema di vendita rateale per
comparire numerosi nelle case della “middle class” in
crescita. Il conservatorismo ideologico che investì le
minoranze nazionali e razziali, la sperequazione
evidente nella distribuzione dei redditi, il basso
livello di crescita dei salari e le pessime condizioni
di vita e di lavoro degli operai - nel corso di questi
anni di “boom” - passarono sotto silenzio, tanta era la
fiducia nel futuro, alimentata dall’ininterrotta
leadership repubblicana per tutti gli anni ‘20.
Negli anni che chiusero il decennio, per di più, una
ventata d’ottimismo giunse dal piano diplomatico; tra
Francia e Germania, ex-nemici, si inaugurò infatti una
fase di distensione e collaborazione che vide come
protagonisti Gustav Stresemann (ministro degli Esteri
dal ’23, in carica anche sotto i successivi governi di
centro e centro-destra) ed il ministro degli Esteri
transalpino Aristide Briand.
Il risultato più importante fu rappresentato dagli
accordi di Locarno (ottobre 1925), che consistevano
nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e
Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e
nell’impegno come garanti di G.B. ed Italia.
Un anno dopo, la Germania fu ammessa alla Società delle
nazioni.
Il nuovo clima di distensione fu confermato prima dalla
firma di un patto in cui quindici Stati, riuniti a
Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato
americano Kellogg – Germania ed URSS inclusi - si
impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per
risolvere le controversie (Patto di Parigi, o
Briand-Kellogg); e poi, nel giugno del ’29, dal
nuovo piano (elaborato dal finanziere americano Owen
D.Young) che ridusse ulteriormente le riparazioni
tedesche, spalmandole in sessant’anni.
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