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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

Il muro, I NUOVI AUTORI E la guerra lunga: il 1915 - Parte IV
di Cristiano Zepponi

 

I Paesi belligeranti non tardarono ad accorgersi dello stallo che si era imposto tra i due schieramenti, già prima della fine del 1914. Variarono però le proposte, e le soluzioni per uscirne.

Dalla parte francese, l’unico obiettivo rimaneva quello di riconquistare i territori perduti, concentrando tutto lo sforzo e l’attenzione sul fronte tedesco, pur senza possedere alcuno strumento valido per forzarlo, come dimostrato dagli attacchi invernali nell’Artois, sull’Aisne, nello Champagne e nel Woevre.

Joffre, alla guida delle forze francesi, preferì “rosicchiare” il nemico, macellando i suoi soldati e subendo un passivo ben superiore ai guadagni.

Gli inglesi, al contrario, sembrarono rendersi conto che la soluzione della guerra andava cercata altrove, su due piani diversi. Dal punto di vista tecnologico, memori delle lezioni del primo anno di guerra, avviarono lo sviluppo di una macchina corazzata, invulnerabile allo strapotere delle nuove armi difensive, in grado di scavalcare le trincee; ideata dal colonnello Swinton, e difesa da Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, divenne presto nota come “tank” (serbatoio), per celarne la funzione.

Dal punto di vista propriamente bellico, invece, si andò affermando una linea di pensiero (definita “orientalista”) che, considerando le potenze centrali un blocco compatto e sfruttando le possibilità dei nuovi mezzi di trasporto, proponeva un attacco in altri settori.

Questo progetto fu rinforzato dall’entrata in guerra della Turchia, che già dal 29 ottobre del 1914 aveva commesso precisi atti di guerra, contro la Russia ad Odessa e contro la G.B. nel Sinai.

Per quanto entrambe le operazioni mancassero i loro obiettivi (a Sarikamisk, nel Caucaso, i russi raccolsero un grande successo; ad Ismailia ed El Kantara, nel Sinai, lo stesso fecero gli inglesi), il successo diplomatico tedesco nel trascinare in guerra il Paese (governato dal 1909 dai Giovani Turchi) consentì di sbarrare la via della Russia, bloccandone i rifornimenti di munizioni, e di obbligare l’Intesa a distrarre forze militari da impiegare nel settore.

Già nel gennaio del nuovo anno, quindi, Lord Kitchener si fece sostenitore di un piano di sbarco nel Golfo di Alessandretta: “Le linee tedesche in Francia”, scriveva il 2 gennaio a Lord French, “devono essere considerate una fortezza che non si può conquistare d’assalto e non può nemmeno essere investita nella sua interezza, col risultato che le linee possono essere tenute da una forza assediante, mentre le operazioni si svolgono altrove”.

Lo stesso giorno, Kitchener ricevette un messaggio in cui il granduca Nicola, comandante delle forze russe, lo sollecitava ad effettuare una diversione per alleggerire la pressione turca sul Caucaso; ed anche il governo cominciò a premere, affinché l’Inghilterra riscoprisse la vecchia vocazione anfibia per aiutare la Russia, sulle cui capacità di tenuta non tutti erano più pronti a scommettere.

Non potendo inviare truppe di terra, Kitchener optò, dietro consiglio di Churchill, per forzare lo stretto dei Dardanelli con una vecchia squadra navale; ma dopo esservi penetrate, il 18 marzo, alcune mine vaganti colarono a picco una parte della flotta, ed il tentativo fu sospeso.

Il Consiglio di Guerra, come desiderato dal nuovo ammiraglio di zone, de Robeck, decise allora di inviare un corpo di spedizione, sotto la guida di Sir Hamilton.

Il tempo che si riuscì a perdere in questa fase andò tutto a danno degli attaccanti; contrattempi, incertezze, ritardi ed anche una redistribuzione dei soldati sulle navi fecero sì che, mentre a febbraio si trovavano sullo stretto solo due divisioni turche, allora se ne contavano sei, pronte allo scontro.

Il 25 aprile, comunque, cinque divisioni (quattro inglesi e una francese) co,poste da 75.000 uomini sbarcarono sulla penisola di Gallipoli; in parte presso Capo Helles, in parte (il corpo di spedizione formato da australiani e neozelandesi, l’ANZAC) in prossimità di Gaba Tepe, 25 km più a nord, mentre i francesi prendevano terra, come mossa di diversione, a Kum Kale, nella parte asiatica.

Ripresisi dalla sorpresa, i turchi, appostati sulle alture, poterono facilmente contenere le due teste di ponte. Nel settore dell’ANZAC, in particolare, si segnalò la guida di un ufficiale sconosciuto, ma destinato ad un futuro radioso: Mustafà Kemal (per quanto riguarda la sua vita si rimanda all’apposito articolo pubblicato tempo fa sulla rivista).

Prive di rifornimenti, e inchiodate dalla impellente necessità di difendere il prestigio nazionale, le truppe britanniche finirono per trincerarsi nelle sottili strisce di territorio che erano riuscite a conquistare, finchè la rimozione di Hamilton, ed il conseguente arrivo di sir Charles Monro non portò ad una evacuazione totale.

Entro fine anno il piano era fallito: come ebbe a dire Churchill, Monro “Venne, vide, capitolò”.

Nello stesso periodo i russi cominciarono a soffrire pesantemente del blocco ai rifornimenti di munizioni; le possibilità di successo dei tedeschi, come suggerito da Hoffmann, dipendevano proprio dalla possibilità di “mantenere i Dardanelli saldamente sbarrati”.

Fiaccati da pesanti carenze di mezzi, i russi tentarono ugualmente di assicurarsi il controllo dei Carpazi, e riuscirono, il 22 marzo, a conquistare la fortezza di Przemysl Ma nel frattempo, e per la precisione a partire dal 7 febbraio, subirono una dura sconfitta nelle foreste di Augustovo, presso i laghi Masuri, dove gli austro-tedeschi accerchiarono e catturarono quattro divisioni.

Mentre Benedetto XV, sulla base del bagaglio culturale degli intransigenti, individuava le ragioni del conflitto, fin dai primi interventi, “nel castigo divino inviato ad una società moderna che aveva rifiutato di conformarsi al cristianesimo” (Filoramo&Menozzi, “Storia del cristianesimo – l’età contemporanea”, pag. 193), ed indicava perciò come unica via per la pace il ritorno del consorzio umano al rispetto dell’insieme di norme e precetti elargito dalla Chiesa,il Vaticano dispiegò una variegata opera di conciliazione, richiamando i belligeranti ad una tregua per il natale 1914 e durante il 1915, e definendo il conflitto “orrenda carneficina”, “inutile strage”. Al fondo, però, si registrava sempre “la rivendicazione del papato dell’autorità di dirimere le controversie tra gli stati nella reminescenza di quella ierocratica cristianità medievale in cui si vedeva il modello ideale di organizzazione della vita collettiva […] persino l’attività umanitaria ed assistenziale verso le vittime della guerra, che con indubbia efficacia, senza distinzioni di religione e razza, Roma organizzò direttamente oppure promosse attraverso le strutture ecclesiastiche esistenti nei vari Paesi, veniva collocata in quest’ottica” (ibid.).

E soprattutto, alcuni cattolici dei Paesi dell’Intesa, come il primate del Belgio, card. D.Mercier (1851-1926), e l’arcivescovo di Parigi, card. L.A. Amette (1850-1920), “scorsero nell’azione vaticana un oggettivo appoggio al campo avverso che si sarebbe via via manifestato negli sforzi compiuti per evitare l’entrata in guerra dell’Italia in cambio di cessioni territoriali; nella mancanza di un’esplicita condanna delle atrocità tedesche in Belgio […]” (ibid., pag. 195).

Sordi gli appelli, guidati da un irrefrenabile fremito attivistico e stimolati dal nuovo esercito nazionale in via di formazione, gli inglesi ricominciarono subito ad attaccare in Francia, presso Neuve-Chapelle, il 10 marzo. Dopo 35 minuti di bombardamento d’artiglieria, furono presi d’assalto due km di fronte, prima che le incertezze, e le riserve germaniche, provvedessero a chiudere il varco, nonostante Haig, comandante della Prima armata inglese, raccomandasse di continuare l’attacco “indipendentemente dalle perdite”; ed in effetti, solo le perdite riuscì ad ottenere.

La scarsità di munizioni (in patria, una feroce campagna di stampa, imperniata sul Times, riuscì al contempo ad ottenere la creazione di un omonimo Ministero), e la mancanza di riserve, condannarono il tentativo. Ma, invece di farne tesoro, gli alti gradi dimenticarono allora l’importanza del fattore sorpresa, e lo regalarono ai tedeschi, ritornando alla tattica del bombardamento giornaliero, o settimanale, di modo che l’avversario intendesse con esattezza dove si voleva colpire.

Al contempo, anche i tedeschi avevano sviluppato alcune tecniche per uscire dallo stallo. La principale fu costituita dall’invenzione del gas di cloro, testato, con scarso successo, prima nel settore di Neuve-Chapelle, il 27 ottobre 1914, e poi in Polonia, l’ultimo giorno del gennaio seguente.

Entrambi gli esperimenti, però, andarono a vuoto, al punto che solo le rivelazioni post-belliche dei germanici stessi misero in luce il primo episodio: i francesi non se ne erano neanche accorti.

Frustrati dai primi tentativi, i comandanti del Reich distolsero la loro attenzione dall’arma, su cui ormai aleggiava lo scetticismo. Senza farvi affidamento, decisero comunque di impiegarla sul piccolo borgo di Ypres, il 22 aprile dello stesso anno.

Alle 17, pesanti salve d’artiglieria riversarono sulla zona una nebbiolina giallo-verdastra, che si fece azzurra al passaggio sul settore di fronte affidato a due divisioni francesi, una territoriale ed una algerina.

Una marea di uomini, in preda al terrore, cominciò allora a rifluire indietro, tossendo, ed indicandosi la gola; alle 19, l’artiglieria francese tacque.

Nonostante precedenti avvertimenti (prigionieri e disertori), le due divisioni in linea scomparvero letteralmente, spalancando un varco di sei km. Tuttavia, come detto, in molti avevano da tempo perso fiducia nella novità: grazie all’assenza di riserve tedesche, la resistenza dei canadesi sui fianchi della breccia e l’arrivo dei rinforzi anglo-indiani ripristinarono le difese.

Oltretutto, poiché il mondo “perdona gli abusi ma detesta le innovazioni”, la Germania si guadagnò la riprovazione morale per aver usato quest’arma atroce, senza trarne alcun vantaggio.

Gli assalti dell’ Intesa ripresero in fretta, senza neanche attendere una riorganizzazione: il 9 maggio i francesi attaccarono tra Lens ed Arras, e continuarono a farlo fino al 18 giugno subendo perdite assurde in termini di vite umane, con guadagni territoriali quasi nulli (102.500 morti, per guadagnare al massimo tre km).

Contemporaneamente, la Prima armata inglese attuò un tentativo ai lati di Neuve-Chapelle che si protrasse fino al 27 maggio.

Il nuovo capo dello Stato Maggiore tedesco, Falkenhayn (nominato subito dopo la Marna), trasse da questi episodi la certezza che nulla potesse accadere in Occidente, dove il muro eretto dai due schieramenti (trincee, camminamenti, mitragliatrici, artiglierie, mortai, filo spinato, fortificazioni varie) reggeva solidamente. Si volse perciò ad Est, dove i russi stavano esercitando una certa pressione sugli alleati asburgici.

Dietro consiglio di Conrad, comandante dell’esercito austriaco, venne prescelto il settore di Dunajec, tra l’alto corso della Vistola ed i Carpazi.

Guidata da Mackensen, l’offensiva dell’Undicesima armata tedesca e della Quarta armata austro-ungarica si aprì il 2 maggio, dopo quattro ore di intenso bombardamento effettuato da 1500 cannoni e l’impiego di gas tossici.

Tutta la linea russa lungo i Carpazi fu travolta, nonostante un estremo tentativo di resistenza presso Wisloka.

In due settimane gli attaccanti percorsero 130 km, fino a raggiungere il San, ma qui dovettero attendere rinforzi, per riprendere slancio. E quando l’attacco riprese continuò ad affondare nel burro: il 3 giugno fu ripresa Przemysl ed il 22 dello stesso mese Lemberg.

Neanche allora fu arrestata la penetrazione, visto anche che i russi erano riusciti a compensare velocemente le ingenti perdite (400.000 morti); i tedeschi piegarono allora verso nord, risalendo il corridoio tra il Bug e la Vistola, mentre altre forze attaccarono dalla Prussia orientale verso sud-est.

Entro la metà di agosto i tedeschi avevano occupato l’intera Polonia, nonostante fosse fallita l’operazione di accerchiamento delle forze russe. Raggiunto il traguardo di 750.000 prigionieri, Falkenhayn sospese l’offensiva, anche perché, a sud, la situazione era mutata. La Russia, mutilata, sopravvisse a stento, arrestando definitivamente la ritirata lungo la linea da Riga sul Baltico a Czernowitz sulla frontiera rumena, e si trascinò per altri due anni.

I suoi alleati, per salvarla, non avevano quasi mosso dito, a parte timidi tentativi di alleggerimento nello Champagne e nell’Artois: timidi solo sul piano dei risultati, però, dato che in quei giorni si unirono alla lisa dei morti altri 242.000 anglo-francesi e 141.000 tedeschi.

Nonostante la prova del nuovo esercito regolare inglese, temprato sul campo di Loos in quei giorni (15 settembre), fosse considerata positiva dai suoi fondatori, non egualmente apprezzata fu quella del comandante in capo, sir John French, che lasciò il posto a sir Douglas Haig, così come in Russia, ai primi di settembre, lo zar (ma di fatto il gen. Alexeiev) aveva rilevato il granduca Nicola, gravato da troppe sconfitte.

A sud, come detto, l’andamento del conflitto fu stravolto dall’entrata in guerra dell’Italia (il 24 maggio di quello stesso 1915), soprattutto a causa dell’appoggio del re, delle grandi manifestazioni degli interventisti, della passività dei neutralisti (“né aderire né sabotare”, inneggiavano i socialisti) e della massiccia campagna di stampa capeggiata dal “Corriere della Sera” di Luigi Alberini. Il Paese aveva già scelto i suoi alleati il 26 aprile, data dell’elaborazione del Patto di Londra, secondo il quale si impegnava a scendere in campo entro un mese in cambio di determinati acquisti territoriali (Trento e Trieste, il Tirolo meridionale, la maggior parte della Dalmazia, l’Albania ed il Dodecaneso), di vaghe promesse di compensi coloniali e di un prestito di modesta entità (la guerra sarebbe durata poco solo nelle menti degli statisti).

Inizialmente, il Regio Esercito tentò solo limitate avanzate nel Trentino; il primo, vero assalto, iniziato il 23 giugno, si spense il 7 luglio con scarsi risultati, e divenne noto come prima battaglia dell’Isonzo. Altri tentativi si scontrarono con le sfavorevoli caratteristiche della frontiera e lo scarso armamento dei soldati, che tornarono però a caricare ad ottobre, per due mesi interi, finchè a dicembre fu arrestata, dopo che le perdite del primo anno di guerra erano già ascese a 280.000 uomini.

La guerra, come si è visto, era esplosa in un settore, per poi spostarsi in altre regioni.

Contenute le prime velleità dell’esercito italiano, e sconvolto per lungo tempo l’esercito russo, gli austro-ungarici pensarono allora di poter finalmente liquidare il nemico storico: la Serbia.

L’impazienza austriaca, aggravata da tre tentativi falliti nel 1914 (ad agosto, settembre e novembre), venne a coincidere con l’entrata in guerra della Bulgaria (interessata a riprendersi la Macedonia, strappata dalla Serbia nel 1913) e con il desiderio tedesco di creare un collegamento ferroviario diretto con la Turchia.

Già in agosto Falkenhayn decise di rinforzare la Terza armata austriaca con l’Undicesima armata, ritirata dal fronte russo, spalleggiate da due armate bulgare; la Serbia vi opponeva il suo piccolo esercito, generiche promesse d’aiuto degli alleati e della Grecia.

Ma Venizelos, il primo ministro ellenico favorevole all’Intesa, cadde prima, e con lui la prospettiva di un aiuto militare da quella direzione, mentre gli altri si mossero come al solito troppo tardi.

Il 6 ottobre del 1915 le armate austro-tedesche attaccarono in direzione sud attraverso il Danubio, oltre ad effettuare un movimento aggirante sulla destra, oltre la Drina. Nonostante la tenace resistenza dei serbi e degli ostacoli naturali, le due armate bulgare irruppero allora nella parte meridionale del Paese. Minacciate di accerchiamento, le forze serbe dovettero avviare una disastrosa ritirata verso ovest, attraverso le montagne albanesi: i superstiti furono evacuati dalle navi alleate a Corfù.

La Serbia, rimasta indifesa, cadde, ma salvò il suo esercito, che un giorno sarebbe tornato a combattere.

Il mezzo milione di soldati alleati impegnati a Salonicco, e schierati proprio per difenderla, se ne rimasero quasi immobili fino all’autunno del 1918, per quanto fronteggiati solo da forze bulgare. Con sarcasmo, i tedeschi lo definivano il loro “maggiore campo di internamento”.

Già precedentemente, in Mesopotamia, per difendere dalla Turchia i pozzi petroliferi del Golfo Persico era stata occupata Bassora (21 novembre 1914); le forze anglo-indiane risalirono poi il Tigri e l’Eufrate, fino ad Amara e Nasiriya, e marciarono in direzione di Kut-el-Amara.

Dopo aver inseguito i turchi sconfitti fino ad Aziziya (a metà strada tra Kut e Baghdad) e dopo un breve scontro a Ctesifonte, le scarse forze dell’Intesa subirono il ritorno delle forze turche, numericamente superiori, che investirono la stessa Kut, l’8 dicembre del 1915.

Anche in questo settore, allora, entrambi i contendenti accettarono l’idea di una guerra lunga, costosa e cruenta.


 

 

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