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N. 3 -
Marzo 2008
(XXXIV)
LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI
La corsa al massacro e la guerra giusta: il 1914 - Parte III
di Cristiano Zepponi
La
mobilitazione
militare
correva
già
a
grandi
passi
quando
le
si
affiancò,
estatica
ed
entusiastica,
un
altrettanto
massiccia
mobilitazione
popolare,
che,
un
po’
ovunque,
prese
soprattutto
la
forma
di
una
rivolta
generazionale.
Proprio
i
giovani,
infatti,
si
lanciarono
nell’esaltazione
del
conflitto,
interpretandolo
idealisticamente
come
una
lotta
contro
il
mondo
dei
padri,
grigio
ed
ottocentesco,
e le
sue
classi
dirigenti
liberali,
elitarie
e
incapaci
di
intercettare
i
nuovi
fervori
della
società
di
massa.
Come
detto
nell’introduzione
(“LA
GUERRA
DEI
TRENTUN
ANNI,
L’era
dei
massacri
e la
tregua
breve;
Introduzione”),
le
nuove
generazioni
puntavano
a
scalzare
le
vecchie
caste
politiche
ormai
delegittimate
dal
potere
del
merito,
e
del
sangue.
Il
partito
della
guerra
arruolò
in
fretta
i
settori
più
moderni
e
dinamici
della
società,
e
per
questo
più
visibili:
oltre
agli
studenti,
ed
ai
nazionalisti
incalliti,
insegnanti,
impiegati,
professionisti,
ovvero
la
piccola
e
media
borghesia
colta,
più
legata
a
temi
patriottici.
Un
discorso
a
parte
va
fatto
per
gli
intellettuali,
che
in
alcuni
casi
(Italia)
presero
decisamente
posizione
a
favore
dell’intervento
(Giovanni
Gentile,
Giuseppe
Prezzolini,
Luigi
Einaudi,
Gaetano
Salvemini,
Gabriele
D’Annunzio,
Benedetto
Croce).
Il
suicidio
dell’Europa
cominciò
quindi
tra
gli
abbracci
e le
grida
di
gioia
di
folle
rumorose,
e
rilevanti,
che
coprirono
con
il
loro
chiasso
il
silenzio
di
quella
parte,
pacifista
o
semplicemente
neutrale,
che
continuava
a
nutrire
dubbi
sull’opportunità
del
conflitto;
il
valore
unificante
di
quell’esperienza
comunitaria,
oltre
all’idea
di
una
voce
della
piazza,
influente
ed
ascoltata,
avrebbe
poi
avuto
grande
rilevanza
negli
anni
della
tregua.
Comunque
sia,
il
richiamo
patriottico
mostrò
tutta
la
sua
forza,
riuscendo
a
far
breccia
anche
negli
schieramenti
che
meno
sembravano
disposti
ad
accoglierlo;
anche
i
partiti
socialisti,
paladini
dell’internazionalismo
e
del
pacifismo,
non
seppero
infatti
sottrarsi
al
clima
(vagamente
romantico)
di
unione
sacra
tra
tutte
le
componenti
del
Paese:
in
Germania
e
Austria
i
socialdemocratici
votarono
a
favore
dello
stanziamento
dei
crediti
di
guerra
(giustificandosi
adducendo
a
pretesto
il
pericolo
zarista),
in
Francia,
dopo
l’assassinio
del
leader
Jean
Jaurès,
i
socialisti
rinunciarono
ad
ogni
manifestazione
di
protesta,
per
poi
entrare
attivamente
nel
governo,
come
d’altronde
accadde
ai
laburisti
in
Inghilterra.
Solo
in
Austria
e
Russia
i
socialisti
mantennero
l’intransigente
opposizione
alla
guerra,
ma
costituivano
ancora
una
forza
politica
del
tutto
secondaria.
La
IIa
internazionale,
impegnata
da
sempre
nella
difesa
della
pace,
cessò
praticamente
di
esistere.
Fu,
forse,
la
prima
vittima
del
conflitto.
L’appoggio
incondizionato
della
Germania
all’Austria,
nei
giorni
dell’ultimatum,
aveva
contribuito
grandemente
a
far
precipitare
la
situazione
(“LA
GUERRA
DEI
TRENTUN
ANNI,
L’era
dei
massacri
e la
tregua
breve;
La
fiamma
nella
polveriera
– Ia
parte”),
fornendo
carta
bianca
per
l’apertura
delle
ostilità.
Ciò
accadde
anche
perché
la
strategia
dei
generali
tedeschi
si
basava
(ironicamente,
visto
il
seguito)
su
due
elementi:
rapidità
e
sorpresa.
Le
loro
forze,
infatti,
anche
unite
a
quelle
austriache,
rimanevano
decisamente
inferiori
a
quelle
di
Francia
e
Russia;
ma
lo
svantaggio
era
compensato
dalla
posizione
centrale
e
dalla
consapevolezza
che
la
mobilitazione
del
mastodontico
esercito
dello
Zar
avrebbe
impiegato
diverse
settimane
ad
organizzarsi.
Tutti
questi
fattori
portarono
lo
Stato
Maggiore
tedesco
ad
optare
per
un
attacco
preventivo
alla
Francia,
tenendo
a
bada
le
forze
avanzate
russe,
per
poi
rivolgersi
contro
le
orde
asiatiche.
Ma
questo
piano
era
intralciato
dalle
imponenti
barriere
naturali
(l’accidentata
regione
delle
Ardenne,
i
Vosgi)
ed
artificiali
(la
linea
di
fortezze
della
frontiera
francese,
basata
su
Epinal,
Toul
e
Verdun)
dall’esiguo
sviluppo
lineare
(250
km
dal
territorio
elvetico
al
Belgio).
Un
muro
divideva
le
due
nazioni.
Per
aggirarlo,
il
piano
elaborato
dal
conte
Alfred
von
Schlieffen
(capo
di
Stato
Maggiore
dal
1891
al
1906)
prevedeva
la
concentrazione
sull’ala
destra
del
grosso
delle
forze
tedesche,
che
avrebbe
dovuto
svolgere,
attraversando
il
Belgio,
un
movimento
aggirante,
anche
a
costo
di
sguarnire
la
frontiera
francese:
una
sorta
di
porta
girevole.
“La
massa
accerchiante
tedesca
avrebbe
dovuto
attraversare
il
Belgio
e la
Francia
settentrionale
e,
continuando
a
descrivere
un
ampio
arco,
convergere
poi
gradualmente
verso
est.
Passando
con
l’ala
estrema
del
fianco
destro
a
sud
di
Parigi
ed
attraversando
la
Senna
in
prossimità
di
Rouen,
essa
avrebbe
poi
premuto
i
francesi
alle
spalle
spingendoli
verso
la
Mosella,
per
poi
martellarli
nell’incudine
formata
dalle
fortezze
della
Lorena
e
dalla
frontiera
svizzera”
(B.H.Liddell
Hart,
“La
Prima
Guerra
Mondiale”,
pag.
72).
Anche
in
punto
di
morte,
Schlieffen
si
mostrò
profetico:
“Preoccupatevi
soltanto
che
l’ala
destra
sia
forte”.
Il
suo
successore
Moltke,
invece,
scelse
di
non
ascoltare
queste
raccomandazioni:
indebolì
quel
settore,
e
soprattutto,
invece
di
cercare
di
provocare
un’invasione
del
Belgio
da
parte
dei
francesi
(che
giustificasse
l’intervento
tedesco
agli
occhi
del
mondo),
programmò
un
colpo
di
mano
su
Liegi.
Così
facendo,
finì
per
attirarsi
il
biasimo
dei
neutrali,
la
dichiarazione
di
guerra
della
G.B.
e
soprattutto
l’ostilità
del
Belgio,
sino
ad
indurlo
a
resistere.
In
Francia,
dopo
la
disfatta
del
1870,
si
era
diffusa
una
strategia
basata
su
una
difesa
iniziale
imperniata
sulle
fortezze
di
frontiera,
seguita
da
un
deciso
contrattacco.
Tuttavia,
all’inizio
del
nuovo
secolo
si
impose
la
scuola
dell’offensive
à
outrance,
che,
dimentica
delle
lezioni
della
storia,
giudicava
l’attacco
più
consono
a
carattere
e
tradizione
francese,
immaginando
che
il
morale
potesse
fermare
il
numero,
e le
pallottole.
Profetizzata
da
de
Grandmaison,
ed
applicata
da
Joffre,
nominato
capo
di
Stato
maggiore
nel
1912,
la
nuova
dottrina
trovò
realizzazione
nel
famigerato
Piano
XVII:
questo,
eccessivamente
aggressivo,
non
solo
sottostimava
le
forze
tedesche
e
l’ampiezza
del
loro
movimento
in
Belgio
(si
preferiva
credere
che
sarebbero
passati
per
l’impervio
terreno
delle
Ardenne),
ma
prevedeva
un’offensiva
generale
delle
truppe
francesi,
e
del
corpo
di
spedizione
inglese
guidato
da
John
French,
contro
l’avversario
ben
protetto
dalle
fortificazioni
di
frontiera.
Il 6
agosto
cominciò
il
grande
spiegamento:
550
treni
al
giorno
attraversarono
i
ponti
sul
Reno,
per
un
totale
di
11.000
treni
e
3.120.000
uomini
trasportati
al
fronte.
Ma
subito
l’inattesa
resistenza
belga
nel
campo
trincerato
di
Anversa
rallentò
le
operazioni,
nonostante
le
colonne
tedesche
entrassero
il
20
agosto
a
Bruxelles.
Lo
stesso
giorno
l’offensiva
principale
francese
in
Lorena
fu
completamente
arrestata
nella
battaglia
di
Morhange-Sarrebourg.
Il
piano
XVII
fallì,
perché
il
materiale
polverizzò
il
morale.
Al
nord,
le
divisioni
francesi
scoprirono
in
breve
la
sconcertante
potenza
di
fuoco
delle
mitragliatrici,
nel
corso
di
attacchi
alla
baionetta
(il
22
agosto
nelle
Ardenne,
ad
esempio),
e
rischiarono
seriamente,
mentre
i
comandi
brancolavano
nel
buio,
di
infilare
la
testa
nel
cappio
tedesco.
La
manovra
pensata
da
Schlieffen
cominciò
comunque
a
funzionare
molto
presto,
anche
perchè
i
francesi
scelsero
di
dissanguarsi
in
inutili
attacchi
frontali,
fedeli
alla
regola
che
il
“morale
sta
al
materiale
come
tre
a
uno”
di
napoleonica
memoria.
Quando
ciò
accadde,
l’ala
sinistra
anglo/francese
cominciò
a
scricchiolare,
e
poi
a
ritirarsi;
Joffre,
allora,
aprì
gli
occhi,
e
tentò
disperatamente
di
far
arretrare
le
sue
truppe,
manovrando
intorno
al
perno
costituito
da
Verdun.
L’intero
fronte
alleato
sembrò
cedere,
mentre
le
armate
tedesche
cominciarono
a
sciamare
nella
Marna,
di
fronte
a
Parigi.
Nonostante
le
proteste
del
governo,
Joffre
si
rassegnò
presto
a
cedere
la
capitale:
il
1°
settembre
ordinò
alla
sesta
armata
che
la
difendeva
di
ritirarsi
verso
sud-est.
Non
riteneva
nemmeno
possibile
una
controffensiva
sulla
Marna,
come
proposto
da
French,
nonostante
fosse
edotto
del
cambio
di
direzione
tedesco
grazie
alla
ricognizione
aerea
ed
al
ritrovamento
di
alcuni
documenti
in
proposito.
Ma
Parigi
sarebbe
caduta
solo
molti
anni
dopo,
ed
in
circostanze
ben
diverse:
a
settembre,
d’improvviso,
il
vento
cambiò.
A
questo
punto,
infatti,
Moltke
inaugurò
una
serie
di
follie
inspiegabili:
contro
ogni
raccomandazione
del
predecessore,
indebolì
la
vincente
ala
destra
sottraendogli
sette
divisioni
per
sorvegliare
Anversa
ed
attaccare
Maubeuge
e
Givet
(invece
di
impiegare
le
riserve)
e
altre
quattro
per
respingere
i
russi
penetrati
nel
frattempo
in
Prussia
orientale
(adducendo
successivamente
la
scusante
che
il
comando
tedesco
riteneva
la
vittoria
già
acquisita).
Ossessionati
dal
pensiero
di
una
nuova
Sedan
(la
grandiosa
vittoria
del
1870,
ottenuta
mediante
un
movimento
aggirante),
i
generali
tedeschi
anticiparono
troppo
la
conversione
verso
l’interno,
prima
che
Parigi
fosse
raggiunta,
mentre
il
centro
e
l’ala
sinistra
stringevano
a
tenaglia
Verdun.
Così
facendo,
però,
le
truppe
tedesche,
già
spossate
dal
logorio
dell’avanzata,
troppo
veloce
per
essere
accompagnata
dalle
vettovaglie,
finirono
per
trovarsi
scoperte
sul
fianco.
Gallièni,
il
nuovo
governatore
militare
di
Parigi,
reagì
energicamente
alla
nuova
situazione.
Trasandato,
con
scarponi
neri
e
gambali
gialli,
occhiali
e
baffi
ispidi,
non
somigliava
davvero
ad
un
militare,
tanto
che
quel
giorno
un
ufficiale
britannico
osservò
che
“Nessun
ufficiale
inglese
si
farebbe
vedere
a
parlare
con
un
guitto
di
questo
genere”.
Intuendo
la
situazione,
quel
guitto
ordinò
alla
sesta
armata,
guidata
da
Maunoury,
di
contrattaccare
sul
fianco
sguarnito
della
Prima
armata
tedesca
Kluck.
Per
farlo,
meditò
soluzioni
ingegnose
(in
quest’occasione
si
svolse
tra
l’altro
il
famoso
episodio
della
requisizione
dei
taxi
parigini
per
spostare
una
divisione)
e
dovette
far
fronte
alla
mastodontica
lentezza
dei
comandi,
e di
Joffre
in
particolare,
nell’analisi
della
situazione.
Ma
comunque,
la
sera
del
6
settembre
Kluck,
pur
respingendo
gli
attacchi
francesi,
dovette
lasciare
un
varco
di
50
km
con
la
vicina
armata
Seconda
armata
tedesca
di
Bülow.
E
quando,
il 9
settembre,
giunse
la
notizia
che
sei
colonne
nemiche
(cinque
inglesi
ed
una
di
cavalleria
francese)
stavano
avanzando
nel
centro
del
varco,
cominciò
la
ritirata
tedesca,
finché
alle
14
Bülow
emanò
l’ordine
di
ritirata
generale.
La
mancanza
di
slancio,
e la
presenza
di
numerosi
corsi
d’acqua,
impedì
alle
truppe
anglosassoni
di
trasformare
la
vittoria
nella
battaglia
della
Marna
in
trionfo,
trascendendo
dal
piano
tattico,
per
arrivare
a
quello
strategico.
E
forse
avrebbe
potuto
essere
più
decisiva,
abbreviando
la
guerra,
se
il
suo
primo
artefice,
Gallièni,
non
fosse
stato
allontanato
dalla
sua
posizione
di
comando
sin
dalle
prime
fasi,
per
ordine
di
Joffre.
Insomma,
il
“colpo
d’occhio”
di
Gallièni
offrì
un’occasione
d’oro
per
chiudere
la
guerra:
ma
né
gli
inglesi
(che
tennero
testardamente
in
Patria
le
riserve,
e
avanzarono
a
passo
di
lumaca
sul
continente)
né i
francesi
(che
mantennero
un
ritardo
di
24
ore
nella
“corsa
al
mare”)
riuscirono
ad
intercettare
le
colonne
tedesche
in
fuga.
“Non
c’è
stata
una
battaglia
della
Marna”,
affermò
in
seguito
Gallièni:
dinanzi
a
delle
ombre,
e ad
un
contrattacco
disperato,
si
verificò
un
collasso
morale
e
psicologico
del
comando
tedesco:
“Solo
una
cosa
è
certa”,
rifletteva
Falkenhayn
già
il 5
settembre,
“il
nostro
Stato
Maggiore
Generale
ha
completamente
perso
la
testa.
Gli
appunti
di
Schlieffen
non
servono
più,
e
così
l’ingegno
di
Moltke
sembra
essersi
esaurito”.
Dopo
la
Marna
il
fronte
si
stabilizzò,
e
comprensibilmente
ambedue
i
contendenti
cercarono
di
forzare
la
situazione,
aggirando
il
fianco
dell’avversario,
spingendosi
verso
il
mare.
Inspiegabilmente,
infatti,
nonostante
l’evacuazione
inglese
dei
porti
della
Manica
(Calais,
Boulogne,
Le
Havre),
Moltke
non
aveva
compiuto
nessun
tentativo
per
assicurarseli;
e,
cosa
ancor
più
strana,
anche
in
Gran
Bretagna
furono
in
pochi
a
preoccuparsi
dell’ovvio
pericolo
connesso
ad
una
tale
eventualità.
Tra
questi,
il
Primo
Lord
dell’Ammiragliato:
Winston
Churchill.
La
tardiva
attenzione
dedicata
al
settore
non
potè
impedire
la
capitolazione
di
Anversa,
spina
nel
fianco
destro
tedesco
(10
ottobre);
ma
la
resistenza
degli
anglo-belgi
fu
così
intensa
da
permettere
lo
spostamento
delle
riserve
inglesi
ad
Ypres,
per
contrastare
l’avanzata
germanica,
iniziata
il
20
ottobre.
I
belgi,
al
contempo,
sottoposti
a
pressione
crescente
sull’Isère,
correvano
il
rischio
di
un
completo
tracollo:
ma
rimediarono
aprendo
le
chiuse,
e
allagando
la
zona
costiera
(una
prassi
abituale,
nella
zona,
per
fermare
gli
invasori).
Ad
Ypres,
invece,
vi
furono
due
pericolose
crisi
per
l’Intesa,
il
31
ottobre
e
l’11
novembre:
benché
malconcia,
costretta
ad
impiegare
ogni
riserva
e
terribilmente
decimata,
la
linea
alleata
tenne,
e i
tedeschi
dovettero
desistere.
Il
lungo
addestramento
dell’esercito
regolare
inglese,
piccolo
ma
disciplinato,
consentì
la
difesa;
ed
il
suo
sterminio
in
prima
linea
accelerò
la
creazione
di
un
esercito
nazionale,
che
in
breve
avrebbe
compreso
due
milioni
di
uomini
in
tutto
l’Impero
inglese.
“Cadendo,
passarono
la
fiaccola”,
come
si
disse
allora.
Ypres,
tristemente
famosa
per
l’uso
dei
primi
gas
tossici
(da
cui
“iprite”),
fu
una
pietra
miliare:
dopo
quel
massacro,
ad
Ovest
la
situazione
si
stabilizzò,
gradatamente.
Ad
Est,
invece,
la
situazione
rimase
a
lungo
fluida:
mentre
l’Austria
tentava
con
scarsi
risultati
di
eliminare
la
Serbia,
che
in
fin
dei
conti
risultava
sempre
essere
il
primo
obiettivo,
il
granduca
Nicola,
comandante
in
capo
russo,
inviò
la
Prima
e la
Seconda
Armata
ad
invadere
la
Prussia
orientale,
senza
neanche
aver
compiuto
le
operazioni
di
raggruppamento,
per
alleggerire
la
pressione
sull’alleato
francese.
Dopo
che
Moltke
ebbe
sostituito
il
comandante
dell’Ottava
armata
tedesca,
Prittwitz,
reo
di
aver
proposto
un
ripiegamento
dietro
la
Vistola,
con
Hindenburg,
un
generale
in
pensione,
ed
il
suo
capo
di
Stato
maggiore
Ludendorff
(
considerato
l’eroe
dell’attacco
contro
Liegi),
gli
eventi
presero
però
una
piega
decisamente
sfavorevole
per
l’esercito
dello
zar.
Concentrando
le
truppe
(conformemente
al
piano
già
elaborato
da
Hoffmann,
capo
dell’ufficio
operazioni),
i
due
generali
tedeschi
riuscirono
a
distruggere
il
fianco
della
Seconda
armata
di
Samsonov,
sparpagliata
lungo
100
km,
nonostante
i
russi
vantassero
su
quel
fronte
un
vantaggio
numerico
di 2
a 1.
In
mano
tedesca
caddero
92.000
prigionieri,
due
corpi
d’armata
e
mezzo
furono
annientati,
e
l’altra
metà
dell’armata
russa
subì
duri
colpi,
specie
nel
morale.
Samsonov
preferì
suicidarsi,
il
28
agosto,
piuttosto
che
affrontare
la
vergogna
della
sconfitta.
La
memorabile
sconfitta
dei
Cavalieri
Teutonici
nel
1410
era
vendicata:
sul
campo
di
Tannenberg,
stavolta,
la
Prussia
Orientale
fu
difesa
dall’invasione
russa.
Ulteriori
preoccupazioni
derivarono
però
alla
Germania
dalla
grave
sconfitta
subita
dall’alleato
austriaco
(Seconda
e
Terza
armata)
in
Polonia,
tra
il
26
ed
il
30
agosto,
in
seguito
alla
quale
le
forze
asburgiche
dovettero
ritirarsi
al
di
là
del
Lemberg.
Travolto
dagli
avvenimenti,
il
generale
Conrad
dovette
ordinare
l’11
settembre
una
frettolosa
ritirata
fin
quasi
a
Cracovia.
A
quel
punto,
il
grosso
delle
truppe
tedesche
che
avevano
difeso
con
successo
la
Prussia
Orientale
furono
radunate
in
una
nuova
armata
(la
Nona),
che
però
non
riuscì
a
fermare
l’avanzata
del
“rullo
compressore”
russo:
sette
armate
cominciarono
allora
ad
avanzare
verso
la
Slesia,
mentre
un’altra
riprendeva
l’offensiva
a
nord.
La
Nona
armata
riuscì
però,
l’11
novembre,
a
contrattaccare,
dopo
aver
sfruttato
la
folta
linea
ferroviaria
germanica,
contro
il
punto
di
congiunzione
tra
due
armate
russe.
A
quel
punto
il
“rullo”
s’arrestò,
e
anzi
entro
il
15
dicembre
i
russi
dovettero
ripiegare
sulla
linea
dei
fiumi
Bzura
e
Ravzka,
davanti
a
Varsavia,
dopo
aver
visto
ridursi
la
scorta
di
munizioni
in
modo
irreparabile,
specie
considerando
l’arretratezza
industriale
del
Paese.
Ovunque,
si
era
ormai
arrivati
ad
un
punto
morto:
la
difesa
aveva
trionfato
contro
l’attacco.
Il
materiale
aveva
stracciato
il
morale.
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