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N. 3 -
Marzo 2008
(XXXIV)
LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI
L'era dei massacri e la tregua breve - PARTE I
di Cristiano Zepponi
Il
primo
a
coniare
la
definizione
che
fa
da
titolo
a
questo
lavoro
è
stato
uno
dei
più
grandi
storici
del
secolo:
Eric
J.
Hobsbawm,
nel
classico
“Il
secolo
breve”
(titolo
originale:
“Age
of
Extremis;
the
Short
Twentieth
Century
1914-1991”);
con
essa,
lo
studioso
tedesco
intendeva
tracciare
una
cesura
notevole,
e
non
solo
cronologica,
tra
l’inizio
di
quella
che
chiamiamo
Prima
guerra
mondiale
e la
fine
della
Seconda,
all’ombra
del
fungo
atomico.
In
pochi
anni,
nel
corso
quindi
di
una
sola
generazione,
l’umanità
intera
conobbe
tanti
e
tali
cambiamenti
da
doverli
isolare
dalla
fase
precedente,
che
assunse
allora
il
valore
di
un
ricordo
vago,
idealizzato
e
perfetto,
riassumibile
con
una
sola
parola:
pace.
Non
che
i
decenni,
ed i
secoli
precedenti,
non
avessero
conosciuto
conflitti,
più
o
meno
vasti
e
crudeli:
e
questi
a
volte
comportarono
massacri
e
distruzioni
perfettamente
all’altezza
di
quelli
novecenteschi:
trecento
anni
prima
la
“guerra
dei
trent’anni”
causò
la
scomparsa
anche
di
un
terzo
della
popolazione,
in
alcune
regioni
tedesche.
Ma
un
elemento
fondamentale
era
variato,
tra
le
pieghe
del
tempo:
la
guerra,
diversamente
dalle
precedenti,
cominciò
ad
avere
allora
obiettivi
illimitati.
Fu
questa
l’epoca
della
guerra
totale
(con
l’appendice
della
“resa
incondizionata”).
Non
si
trattava
dunque
più
dell’Alsazia-Lorena,
o
del
predominio
marittimo,
di
qualche
fazzoletto
di
terra
in
Friuli
o
degli
arcipelaghi
hawaiani.
A
questi
elementi,
in
più,
vanno
aggiunte
altre
considerazioni:
cominciarono
infatti
ad
assumere
un
ruolo
centrale
le
ideologie
(anche
se
in
misura
incomparabilmente
maggiore
dopo
la
“grande
guerra”)
degli
attori
in
campo.
Nonostante
il
declino
della
storiografia
marxista,
che
in
questi
anni
viene
attaccata
oltre
i
propri
limiti,
è
opportuno
rilevare
come
i
tre
maggiori
attori
mondiali
abbracciassero
sistemi
politici
e
culturali
differenti,
e
inconciliabili:
il
comunismo
sovietico
in
URSS,
il
capitalismo
individualista
negli
USA,
il
nazionalsocialismo
in
Germania.
Ne è
prova
l’assurda
ostinazione
di
Hitler,
negli
ultimi
giorni,
nell’attesa
che
crollasse
l’”innaturale
alleanza”
dei
suoi
maggiori
avversari.
Il
mondo
che
si
avvicinava
allo
scontro,
quasi
con
leggerezza,
veniva
da
quasi
duecento
anni
di
progresso
ininterrotto,
e
senza
precedenti
nella
storia
dell’umanità,
che
autorizzava
ogni
speranza
nel
futuro.
La
Gran
Bretagna,
innanzitutto,
rimase
ai
vertici
della
tecnologia,
e
della
ricchezza,
per
tutto
questo
periodo:
nel
1750
il
suo
reddito
pro-capite
era
quattro
volte
superiore
a
quello
dell’India
della
metà
del
‘900,
due
secoli
dopo.
Il
Paese
beneficiava
dell’accumulo
di
ricchezze
dal
Medioevo,
di
una
situazione
politica
favorevole
all’iniziativa
individuale
(la
testa
di
Carlo
I
cadde
molto
prima
di
quella
di
Luigi
di
Francia..),
di
una
classe
dirigente
ormai
egemonizzata
da
una
borghesia
dinamica,
e
attiva,
di
una
produzione
agricola
che
permetteva
il
sostentamento
del
nascente
apparato
industriale.
Ma
tra
1850
e
1870,
nel
corso
di
quella
che
in
seguito
è
stata
battezzata
II
rivoluzione
industriale,
alcune
nazioni
occidentali
cominciarono
a
raggiungere
lo
stesso
livello
di
sviluppo
e
benessere,
grazie
a
tre
nuovi
settori
merceologici:
acciaio,
elettricità,
chimica
pesante.
Da
una
prospettiva
di
libera
concorrenza
tra
piccole
industrie,
per
lo
più
a
conduzione
familiare,
si
giunse
ad
una
suddivisione
oligopolistica
della
produzione.
Perse
così
di
valore
il
mercato
(“la
mano
invisibile”),
spartito
tra
cartelli,
trusts,
organizzazioni
verticali
e
orizzontali.
I
nuovi
Paesi
si
fecero
così
avanti,
mettendo
sul
piatto
la
loro
giovane
intraprendenza:
la
neonata
Germania,
in
particolare,
arrivò
in
fretta
a
vantare
forni
grandi
una
volta
e
mezzo
quelli
inglesi,
e
passò
da
una
produzione
d’acciaio
inferiore
della
metà
(nel
1870)
a
superiore
del
doppio
(nel
1910);
oltre
a
ciò,
i
suoi
prodotti
divennero
molto
più
competitivi,
con
prezzi
inferiori
mediamente
del
20/25%
rispetto
ai
“vecchi”
rivali.
Proprio
in
questo
periodo,
al
contempo,
la
Germania
Guglielmina
cominciò
a
sviluppare
la
convinzione
di
essere
privata
dello
“spazio
vitale”
(a
livello
di
sbocchi
commerciali,
mercati,
materie
prime)
da
parte
di
una
società
capitalistica
più
matura
(già
spostata
sul
terziario,
sulla
finanza,
sulle
assicurazioni,
sulla
marineria)
preoccupata
di
difendere
il
suo
status.
Oltre
a
questa,
gli
USA,
usciti
dal
loro
più
grande
trauma
collettivo
prima
di
Pearl
Harbour,
ovvero
la
Guerra
Civile;
il
Giappone
dei
militari;
ed
un
folto
gruppo
di
altri
Stati
(“ritardatari”)
tra
cui
quelli
del
Nord
Europa,
e
poi
Russia,
Francia,
Italia,
Austria.
A
questo
quadro
si
aggiunse
allora
la
rivoluzione
dei
trasporti,
in
particolare
navali
e
ferroviari;
e da
ciò
derivò
la
crisi
agraria,
con
cui
ancora
oggi
conviviamo,
per
la
concorrenza
feroce
dei
grani
russi
e
americani,
ormai
a
costi
accessibili.
Insieme
al
contemporaneo
fenomeno
della
modernizzazione,
ciò
comportò
un
notevole
incremento
dell’instabilità
sociale,
soprattutto
nelle
campagne,
sostenuta
dalle
prime
associazioni
di
mutuo
soccorso,
agrarie
ed
operaie,
e
dalla
diffusione
delle
ideologie
socialiste,
nelle
sue
differenti
interpretazioni
nazionali.
Il
quadro
internazionale
si
frammentò,
totalmente:
le
relazioni
internazionali
si
fecero
più
complesse,
avvolte
in
clima
di
sfiducia
e
accompagnate
dallo
sviluppo
della
scienza
biologica
evoluzionista,
con
principi
traducibili
nella
formula
della
“lotta
per
la
sopravvivenza”,
a
livello
individuale
e
collettivo.
In
questo
caso,
mutuando
una
definizione
rinomata,
“la
guerra
fu
la
prosecuzione
dell’economia
con
altri
mezzi”,
dato
il
ruolo
centrale
ricoperto
dall’agguerrita
concorrenza
economica
nella
diffusione
di
un’atmosfera
di
terrore,
e
reciproco
sospetto:
“Non
avevamo
alcuna
intenzione
di
fare
una
politica
estera
aggressiva”
scrisse
Von
Bülow,
cancelliere
tedesco
del
periodo,
“Volevamo
soltanto
proteggere
i
vitali
interessi
da
noi
acquisiti
nel
mondo
nel
corso
naturale
degli
eventi”.
E’
certo
che
nessuna
potenza,
prima
del
1914,
avrebbe
desiderato
un
conflitto,
seppur
locale,
con
altre
grandi
nazioni,
e lo
dimostrarono
ampiamente
tutti
gli
accomodamenti,
a
partire
dal
Congresso
di
Berlino
del
1878,
sulle
sorti
dei
deboli
(e
“pittoreschi”)
Paesi
africani
ed
asiatici.
Francesco
Giuseppe,
annunciando
la
guerra
ai
suoi
sudditi,
nel
1914,
si
espresse
chiaramente:
“Ich
habe
es
nicht
gewollt”,
“Io
non
l’ho
voluta”.
D’altra
parte,
dal
1815
non
c’erano
state
guerre
che
avessero
coinvolto
tutte
le
grandi
nazioni
europee,
e
dal
1871
non
si
registravano
scontri
tra
le
potenze
del
Continente.
Anzi,
a
fine
secolo
il
timore
della
guerra
diede
origine
ai
Congressi
Mondiali
della
Pace
(il
21°
si
sarebbe
dovuto
svolgere
a
Vienna
nel
settembre
1914),
ai
premi
Nobel
per
la
pace
(1897),
alla
prima
conferenza
della
Pace
dell’Aia
(1899).
Solo
in
pochi,
nel
campo
della
fanta-narrativa,
arrivavano
ad
immaginare
la
possibilità
di
un
conflitto
futuro;
oltre
a
loro,
solo
Friedrich
Engels
aveva
analizzato
la
possibilità
di
una
guerra
mondiale,
a
differenza
di
Nietzsche
che
plaudiva
alla
crescente
militarizzazione
dell’Europa
e
profetizzava
una
guerra
che
dicesse
“sì
al
barbaro
e
anzi
alla
belva
che
è
dentro
di
noi”.
Ad
un
certo
punto,
specialmente
dopo
il
1910,
la
guerra
sembrò
però
così
inevitabile,
che
ognuno
ritenne
di
dover
almeno
scegliere
il
momento
più
opportuno
per
la
propria
“volontà
di
potenza”,
e
l’unico
dubbio
riguardò
solo
la
scintilla
scatenante.
Gli
eserciti,
allora,
avevano
una
“funzione
prevalentemente
civile”
(Hob.,
“l’Età
degli
Imperi”,
pag.
348):
la
leva
era
diffusa
tra
tutte
le
potenze
(escluse
quelle
anglosassoni),
nonostante
le
classi
dirigenti
fossero
piuttosto
restìe
ad
armare
proletari
potenzialmente
rivoluzionari.
E
serviva
ad
assicurare
l’obbedienza
e
l’entusiasmo
di
tutti
coloro
i
quali
avrebbero
potuto
essere
traviati
dai
neonati
movimenti
di
massa,
allietandoli
con
le
onnipresenti
sfilate
militari.
Per
Tuchman
“i
generali
combattono
sempre
la
guerra
precedente”;
ed
infatti,
con
lungimiranza,
si
dedicarono
per
lo
più
allo
studio
di
campagne
brevi,
d’impostazione
napoleonica,
preparando
psicologicamente
la
popolazione
ad
un
clima
favorevole
allo
scontro.
E la
voce
degli
armaioli,
ed
il
conseguente
spaventoso
accumulo
di
materiali
militari,
fecero
la
loro;
finché
ci
fu
un
momento
in
cui
la
gara
degli
armamenti
impedì
di
recedere
dal
conflitto,
e
formò
una
voragine
in
cui
tutto
cadde,
per
forza
d’inerzia.
Spesso
la
cultura
si è
schierata,
compatta,
contro
la
guerra,
come
nel
recente
caso
iracheno.
Ma
allora
non
fu
così:
prese
il
via
anzi
una
rivolta
generazionale
contro
la
classe
dirigente
liberale
(in
Italia,
Giolitti),
e
contro
l’ottocento
stesso.
Quando
scesero
in
piazza,
a
migliaia,
i
giovani
universitari
credevano
di
opporsi
ad
un
mondo
considerato
statico,
borghese,
individualista,
inneggiando
alla
guerra
idealizzata,
eroica,
comunitaria.
“Noi
vogliamo
la
guerra
-
sola
igiene
del
mondo
- il
militarismo,
il
patriottismo,
il
gesto
distruttore
dei
libertari,
le
belle
idee
per
cui
si
muore”
(F.T.
Marinetti,
Manifesto
del
futurismo,
1909)
.
Tentarono,
in
breve,
di
soppiantare
una
classe
dirigente
vecchia,
proponendosi
come
nuova
elìte
di
governo,
giovane
e
nazionalista;
lo
sterminio
di
questi
ragazzi,
delle
loro
abilità,
accelerò
il
declino
del
Vecchio
Continente.
La
prima
grande
crisi
si
ebbe
ai
confini
dell’Europa,
nei
Balcani,
con
l’insurrezione
anti-turca
della
Bosnia-Erzegovina.
La
citata
Conferenza
di
Berlino
del
1878,
cui
parteciparono
Germania,
Austria,
Inghilterra,
Turchia,
Francia,
Italia,
riuscì
per
un
po’
a
rasserenare
gli
animi:
la
“Grande
Bulgaria”
fu
privata
della
Macedonia
e
dei
territori
prossimi
a
Costantinopoli,
assegnati
alla
Turchia,
e
divisa
tra
un
principato
autonomo
e
tributario
(la
Bulgaria
propriamente
detta)
a
nord,
e la
Rumelia
orientale,
sotto
l’autorità
politica
e
morale
del
Sultano;
la
Macedonia
rimase
turca,
la
Bosnia-Erzegovina
rimase
sotto
dominio
turco
ma
fu,
di
fatto,
occupata
e
amministrata
dall’Austria-Ungheria;
fu
inoltre
riconosciuta
l’autonomia
di
Romania,
Serbia
e
Montenegro,
accresciuto
di
Antivari
e
del
suo
litorale;
la
Russia
riconquistò
la
Bessarabia
e la
riva
sinistra
del
delta
del
Danubio
dalla
Romania,
cui
furono
cedute
le
isole
nel
delta
stesso
e la
Dobrugia;
gli
stretti
(Dardanelli
e
Bosforo)
furono
chiusi
alle
marine
da
guerra.
In
breve
ne
beneficiarono
molto
Inghilterra
(che
aveva
precedentemente
ottenuto
Cipro)
ed
Austria-Ungheria,
molto
meno
l’Italia.
Ne
derivò
che
l’Austria
andò
avvicinandosi
sempre
più
alla
Germania,
la
Russia
insoddisfatta
alla
Francia.
Si
proseguì
poi
con
lo
scramble
of
Africa,
l’assalto
all’Africa,
colmo
di
sperequazioni
nella
divisione
dei
territori
potenzialmente
forieri
di
gravi
conseguenze:
nell’ultimo
decennio
dell’Ottocento
l’Impero
britannico
acquisì
5
milioni
di
miglia
quadrate,
la
Francia
3
milioni
e
mezzo,
l’Italia
(Libia,
Dodecaneso)
e la
Germania
(Tanganika,
Togo,
Camerun)
avviarono
un’opera
di
colonizzazione
tardiva.
L’atteggiamento
comune
alla
vecchia
Europa
si
potrebbe
definire
la
“cultura
della
differenza”:
la
Russia
si
adeguò
in
fretta
a
questo
clima,
rimilitarizzando
il
Mar
Nero
prima
di
ricevere
l’approvazione
internazionale
e
vivendo
lo
sviluppo
del
panslavismo,
un
movimento
di
pensiero
atto
a
segnalare
le
divergenze
con
l’Europa
occidentale
in
genere,
ed
il
modello
tedesco
in
particolare.
E la
Francia,
preoccupata
dall’ingombrante
vicino
e
tesa
nella
sua
parte
di
“paladina
della
cristianità”,
visse
un
rigurgito
di
nazionalismo
frustrato,
in
attesa
dell’occasione
opportuna;
l’Inghilterra,
già
negli
anni
Settanta,
passò
ad
una
politica
di
“splendido
isolamento”
dagli
affari
del
continente
europeo,
voltando
piuttosto
lo
sguardo
ai
territori
sotto
la
sua
diretta
sovranità.
Il
suo
passaggio
all’imperialismo,
a
differenza
degli
altri
casi,
fu
quindi
piuttosto
“armonico”,
e
naturale;
la
Germania
abbracciò
un
pangermanismo
derivante
dal
suo
indubitabile
primato;
e
l’Italia
sviluppò
un
protonazionalismo
(“nazionalismo
della
povera
gente”
per
Robert
Michels)
accennato,
ma
visibile,
verso
il
Mediterraneo
ed
il
Mar
Rosso.
Verso
il
1890
il
sistema
internazionale
crollò:
le
alleanze
europee
andarono
stringendosi
in
fretta,
e
gli
attori
politici
si
mossero,
timorosi
de
ritrovarsi
isolati.
Fino
al
1902,
nonostante
tutto,
i
due
protagonisti
sul
continente
-
Germania
e
Francia
-
risultarono
più
impegnate
in
ambito
extraeuropeo,
che
a
preparare
gli
schieramenti.
Invece,
questo
fu
il
decennio
dei
valzer
delle
tre
potenze
-
Russia,
Francia,
Impero
tedesco
- e
della
danza
particolare
di
una
nazione
alla
ricerca
di
grandeur,
l’Italia.
Innegabilmente,
queste
si
trovarono
a
cooperare,
in
più
occasioni,
per
limitare
la
sterminata
influenza
coloniale
inglese;
e
questa
cominciò
a
risentire
degli
impegni
d’oltreoceano,
sempre
più
gravosi,
arrivando
ad
abbandonare
l’
“isolamento”
per
ricercare
un
appoggio
continentale,
inizialmente
individuato
nella
Germania,
e
poi,
definitivamente,
nella
Francia
stessa,
negli
USA,
nel
Giappone.
Il
processo
di
divisione
dell’Europa
in
due
blocchi
ostili
durò
quindi
un
quarto
di
secolo:
ovvero
il
periodo
che
va
dall’elaborazione
del
patto
noto
come
Triplice
Alleanza
(1882)
alla
definitiva
elaborazione
dell’accordo
chiamato
Triplice
Intesa
(1907).
Fra
il
1871
ed
il
1889
la
chiave
della
controllabilità
del
“sistema”,
come
sapeva
Bismarck,
era
la
limitazione
degli
obiettivi,
e
l’impossibilità
di
giungere
ad
un
irrigidimento
degli
schieramenti,
fino
a
farli
divenire
permanenti.
Questo
fu
proprio
ciò
che
accadde,
spesso
contro
il
volere
dei
singoli
protagonisti.
Il
“sistema”
s’incrinò
nei
primi
anni
novanta,
subito
dopo
l’allontanamento
del
suo
creatore;
l’ascesa
al
trono
di
Guglielmo
II
portò
ad
un
raffreddamento
dei
rapporti
con
la
Russia
di
Alessandro
III,
fino
ad
arrivare
al
rifiuto
tedesco
di
rinnovare
il
“Patti
di
Rassicurazione”
con
lo
zar
del
1887
(in
cui
le
due
potenze
si
promettevano
benevola
neutralità
in
caso
di
scontro
armato,
con
alcune
eccezioni:
erano
esonerati
eventuali
conflitti
franco-tedeschi
e
austro-russi)
con
la
motivazione
che
i
“patti”
costituivano
una
slealtà
sia
verso
l’Austria
sia
verso
la
G.B..
Come
conseguenza,
lo
zar,
superando
la
sua
avversione
per
i
regimi
repubblicani,
si
avvicinò
alla
Francia,
con
cui
concluse
nel
1891
un
accordo
presto
trasformato
in
un
impegno
di
reciproca
assistenza;
la
Francia,
in
questo
modo,
uscì
dalla
qurantena
cui
l’aveva
costretta
il
“sistema
bismarckiano”,
ancora
alla
ricerca
di
un’opportunità
di
revanche
dopo
la
batosta
del
1870
(con
conseguente
perdita
dell’Alsazia-Lorena).
Il
primo
attrito
anglo-tedesco
si
ebbe
a
proposito
della
Turchia,
nel
1892:
“Improvvisamente
da
Berlino
arrivò
una
specie
di
ultimatum
con
il
quale
ci
si
chiedeva
di
smettere
di
contendergli
le
concessioni
ferroviarie
in
Turchia”,
ricorda
Grey.
Quattro
anni
dopo,
il
Kaiser
dimostrò
altrettanta
miopia
proponendo
al
gabinetto
di
dichiarare
il
Transvaal
“protettorato
tedesco”,
prima
di
accontentarsi
di
mettere
in
dubbio
la
sovranità
britannica
su
quel
territorio.
Il
riarmo
tedesco
peggiorò
le
cose;
e la
Weltpolitik
(
politica
mondiale)
Guglielmina
l
Kaiser
comportò
l’immediata
e
analoga
risposta
di
G.B.
e
USA
soprattutto
in
campo
navale.
Bismarck,
infatti,
aveva
tentato
per
vent’anni
di
evitare
atti
ostili:
tra
questi,
il
più
importante
era
non
incrementare
troppo
velocemente
la
kriegsmarine
(la
marina
tedesca),
il
cui
sviluppo
decollò
nel
1897,
per
evitare
una
diretta
sfida
alla
Royal
Navy
(inglese),
sapendo
che
la
presenza
della
marina
germanica
davanti
ai
porti
inglesi
avrebbe
costretto
la
R.N.
all’immobilità,
con
gravi
ripercussioni
diplomatiche,
strategiche,
politiche.
Proprio
per
questo,
il
1897
fu
un
anno
di
svolta:
nelle
parole
del
Kaiser
“dobbiamo
avere
in
pugno
il
tridente”,
nella
decisione
di
affidarne
la
fabbricazione
(piano
di
riarmo
navale)
all’ammiraglio
Tirpitz,
nella
proclamazione
di
un
protettorato
“su
tutti
i
maomettani
del
mondo”
(annunciato
da
Guglielmo
durante
una
visita
a
Damasco),
si
manifestò
una
“tacita
equazione”
fra
illimitata
crescita
economica
e
potenza
politica;
in
più,
la
tendenza
a
fondare
comunità
nazionalmente
compatte
di
oriundi
tedeschi
in
Stati
extraeuropei,
e a
criticare
le
ipoteche
coloniali
di
molti
Paesi
europei
contribuirono
rendere
la
situazione
sempre
più
pericolosa..
In
più,
a
corollario,
la
Germania
rigettò
ogni
offerta
inglese,
avanzata
da
Chamberlain,
tra
il
1898
ed
il
1901,
in
particolare
per
la
silenziosa
influenza
di
Holstein,
mediocre
figura
di
funzionario
del
ministero
degli
Esteri;
costrinse
gli
inglesi
ad
umilianti
concessioni
quando
si
affrontarono
i
problemi
delle
colonie
portoghesi,
di
Samoa
e
della
Cina,
mettendo
in
luce
la
grave
posizione
di
debolezza
della
G.B,
del
gabinetto
di
Lord
Salisbury
e
dei
suoi
dirigenti,
dei
“perfetti
imbecilli”
a
detta
del
Kaiser.
Ma i
“perfetti
imbecilli”,
nonostante
il
grande
quantitativo
di
oltraggi
necessari
per
farli
rinsavire,
cominciarono
finalmente
a
prendere
coscienza
della
situazione:
“Il
periodo
dello
splendido
isolamento
inglese
è
terminato..
Noi
preferiremmo
avvicinarci
alla
Germania
ed
aderire
alla
Triplice
Alleanza.
Ma
se
ciò
risulterà
impossibile,
contempleremo
anche
la
possibilità
di
un
riavvicinamento
alla
Russia
e
alla
Francia”
(Chamberlain,
1898-1901).
Fu
così
che,
mentre
Holstein
a
Berlino
continuava
a
bollare
le
intenzioni
inglesi
come
“soliti
raggiri”,
la
G.B
si
mosse.
Il
primo
passo
fu
stipulare
nel
1902
un’alleanza
con
il
Giappone;
due
anni
dopo,
nel
1904,
cominciarono
anche
i
colloqui
con
la
Francia,
portati
avanti
da
Lansdowne
e
Paul
Camion,
ambasciatori
dei
due
Paesi;
eliminati
gli
storici
motivi
d’attrito
(riconoscimento
reciproco
del
possesso
di
Egitto
e
Marocco,
incidente
di
Fashoda
del
1899),
la
visita
di
Edoardo
VII
a
Parigi
contribuì
alla
creazione
di
un’atmosfera
favorevole
all’accodo.
I
tentativi,
tardivi,
della
Germania
di
inquinare
le
acque,
e
sciogliere
l’accordo
noto
come
entente
cordiale
naufragarono
in
fretta:
come
quando
Guglielmo
ottenne
la
firma
dello
zar
ad
una
bozza
d’accordo,
nel
luglio
1905;
ma,
poiché
appariva
incompatibile
col
trattato
franco-russo,
finì
presto
nel
dimenticatoio.
Il
riavvicinamento
tra
la
G.B.
ed
il
suo
tradizionale
avversario,
la
dispotica
Russia,
avvenne
il
31
agosto
del
1907,
specie
grazie
all’opera
di
Landsowne
che
riuscì
ad
eliminare
gli
elementi
d’attrito
con
lo
zar
(delimitando
le
sfere
d’influenza
nell’altopiano
iranico
e
nei
Balcani).
Se è
vero
che
la
vecchia
prerogativa
di
indipendenza
nella
politica
estera
britannica
era
crollata,
è
altrettanto
veritiero
che
l’ingresso
“informale”
nella
Triplice
Intesa
contribuì
ad
indebolire
il
“blocco”
degli
avversari,
a
rendere
l’Italia
(che
vi
era
entrata
nel
1882,
ottenendo
però
una
clausola
in
base
alla
quale
in
nessun
caso
l’alleanza
sarebbe
stata
diretta
contro
la
G.B.)
un
alleato
alquanto
dubbio,
a
spingere
la
Germania
guglielmina
ad
avvicinarsi
sempre
più
all’unico
alleato
rimastole,
l’Austria
segnata
dai
nazionalismi,
con
cui
il
Reich
aveva
stabilito
da
tempo
(1879)
un’alleanza
difensiva.
La
politique
d’encerclement
(politica
d’accerchiamento)
di
Delcassè,
e
della
Terza
Repubblica
francese
in
generale,
arrivò
quindi
a
compimento:
la
Germania
era
sola
o
quasi,
una
volta
dilapidato
il
capitale
diplomatico
bismarckiano,
con
dilettantesca
noncuranza.
I
tentativi
di
spezzare
l’unità
dei
blocchi,
con
accordi
bilaterali
(Germania
-
Inghilterra,
Germania
–
Russia,
Germania
–
Francia,
Russia
–
Austria)
fallirono
miseramente:
a
partire
dal
1905,
le
tre
maggiori
crisi
internazionali
vennero
risolte
sempre
più
con
una
politica
di
“rischio
calcolato”
(Hob.,
“L’Età
degli
imperi”,
pag.
366),
ovvero
attraverso
la
minaccia
della
guerra:
quell’anno
la
Germania
recedette
ad
Algeciras
soprattutto
per
l’appoggio
inglese
alla
Francia,
nel
1908
l’Austria
potè
beneficiare,
nell’occupazione
effettiva
della
Bosnia,
dell’appoggio
tedesco,
necessario
per
neutralizzare
il
pericolo
russo;
nel
1911,
infine,
il
tentativo
germanico
di
occupare
il
porto
di
Agadir,
durante
la
crisi
marocchina,
fu
sventato
dalla
ferma
risolutezza
britannica
nella
difesa
del
protettorato
francese,
anche
a
rischio
di
una
guerra.
Ogni
divergenza,
era
evidente,
avrebbe
ora
portato,
con
tutta
probabilità,
al
conflitto;
per
questo
le
grandi
potenze
si
astennero
dall’intervenire
nella
guerra
italo
–
turca
del
1911,
e
nelle
guerre
balcaniche
(1912-1913).
La
situazione
nei
Balcani
si
era
fatta
molto
problematica
già
nel
1908,
quando
l’Austria-Ungheria,
come
detto,
aveva
trasformato
la
sua
“amministrazione
temporanea”
in
occupazione
militare,
approfittando
della
crisi
interna
dell’Impero
Ottomano
e
provocando
un
inasprimento
nei
rapporti
(già
precari)
con
la
Serbia
e la
sua
grande
protettrice,
la
Russia.
La
situazione
potè
essere
risolta
solo
con
l’appoggio
tedesco:
una
vittoria
diplomatica
fu
così
pagata
con
un
peggioramento
delle
relazioni
internazionali
e
una
radicalizzazione
del
nazionalismo
degli
“Slavi
del
Sud”.
Il
quadro
peggiorò
con
la
vittoria
italiana
sulla
Turchia
del
1911:
l’ennesima
sconfitta
turca
stimolò
le
aspirazioni
degli
staterelli
balcanici
(Serbia,
Montenegro,
Grecia,
Bulgaria),
che,
incoraggiati
dalla
Russia,
strinsero
una
coalizione
nell’ottobre
del
1912;
riuscirono
così
ad
espellere
la
Turchia
dall’Europa
(eccetto
lembi
della
Tracia),
mentre
un
nuovo
Stato
prendeva
forma
sulle
coste
dell’Adriatico,
il
principato
di
Albania,
voluto
da
Italia
e
Austria
per
impedire
alla
Serbia
lo
sbocco
al
mare.
L’alleanza
fra
gli
Stati
balcanici
si
ruppe
però
al
momento
della
spartizione
dei
territori
conquistati:
nel
giugno
1913,
ritenendosi
sacrificata,
la
Bulgaria
attaccò
improvvisamente
Grecia
e
Serbia.
Contro
la
Bulgaria
si
formò
quindi
una
nuova
coalizione:
oltre
alle
nazioni
assalite,
si
aggiunsero
la
Romania
e la
stessa
Turchia.
La
Bulgaria,
rapidamente
sconfitta,
dovette
cedere
alla
Turchia
una
parte
della
Tracia
e
una
striscia
di
territorio
sul
Mar
Nero
alla
Romania.
Le
due
guerre
balcaniche
terminarono
così
con
un
bilancio
largamente
sfavorevole
agli
Imperi
centrali:
il
loro
maggiore
alleato,
l’Impero
turco,
era
stato
praticamente
cacciato
dall’Europa,
la
Bulgaria,
lo
stato
a
loro
più
legato
della
regione,
aveva
subito
una
dura
batosta,
e la
Serbia,
duramente
ostile
all’Impero
asburgica,
aveva
quasi
raddoppiato
il
suo
territorio.
Allora,
in
molti
circoli
dirigenti
austriaci,
si
fece
sempre
più
forte
l’idea
di
“liquidare”
il
problema
serbo,
una
volta
per
tutte.
In
definitiva,
non
furono
gli
armaioli,
ad
accelerare
gli
eventi;
la
responsabilità
non
ricadde
neanche
sui
capitalisti
(Standard
Oil,
Deutsche
Bank,
De
Beers
Diamonds
Corporation),
né
sui
generali
e
gli
ammiragli;
è un
errore
credere
che
nel
1914
i
governi
si
“precipitarono
in
guerra
per
disinnescare
le
loro
crisi
sociali
interne”
(Hob,
“L’età
degli
Imperi”,
pag.
371),
o
che
gli
Stati
l’abbiano
favorita
con
un
atteggiamento
assai
poco
“pacifisti”.
Ma i
venditori
di
armi
ebbero
la
loro
parte
nel
convincere
generali
ed
ammiragli
dell’indispensabilità
dell’ultimo
modello
di
mitragliatrice
(Vickers
fu
fatto
baronetto
per
i
servigi
resi
agli
Alleati),
e
questi,
a
loro
volta,
nell’accumulo
di
giganteschi
parchi
d’armamenti,
e
negli
scarsi
tentativi
di
fermare
la
macchina
bellica
che
si
andava
scaldando;
i
capitalisti,
pur
senza
desiderare
il
conflitto
(che
avrebbe
solo
danneggiato
i
loro
lucrosi
affari),
destabilizzarono
le
strutture
tradizionali
della
politica
mondiale,
attuando
una
feroce
concorrenza
nella
caccia
ad
obiettivi
potenzialmente
illimitati
(se
è
vero
che
la
ricerca
di
questi
obiettivi
illimitati,
in
campo
coloniale,
portò
solo
a
crisi
locali,
incapaci
di
generare
un
grande
conflitto
generale,
è
anche
vero
che
queste
promossero
la
formazione
dei
“blocchi”
multinazionali
poi
coinvolti
nel
conflitto
-
come
abbiamo
visto,
quello
anglo-franco-russo
prese
le
mosse
dall’Intesa
cordiale,
o
“Entente
cordiale”,
tra
G.B.
e
Francia
del
1904,
in
cui
la
prima
prometteva
appoggio
alla
seconda
riguardo
il
problema
marocchino,
ottenendo
in
cambio
la
rinuncia
all’Egitto).
I
governi,
poi,
si
trovarono
a
dover
gestire
un’ondata
di
patriottismo
inaspettata,
e
totale,
e
spesso
se
ne
fecero
trascinare;
e se
non
furono
gli
arsenali
a
far
precipitare
la
situazione,
la
loro
ingombrante
presenza
(la
tecnologia
dell’uccidere
aveva
fatto
giganteschi
passi
avanti
a
partire
dal
1880-1890:
si
pensi
alle
armi
leggere,
all’artiglieria,
alle
turbine
ed
alla
corazza
a
piastre
per
le
navi
da
guerra,
all’aviazione)
ed
il
ricordo
del
loro
costo
(le
spese
militari
rimasero
stabili
per
gran
parte
dell’
‘800,
ma
crebbero
enormemente
nell’ultimo
decennio
e,
ancor
più,
nei
primi
anni
del
nuovo
secolo:
per
esempio,
in
G.B.
crebbero
dai
32
milioni
di
sterline
del
1887
ai
44
del
1898
agli
oltre
77
del
1913-1914,
con
conseguenze
immaginabili
sulla
pressione
fiscale
e
l’indebitamento
inflazionistico
del
Paese)
non
contribuirono
certo
a
rasserenare
la
situazione.
Tutti
insieme,
questi
attori
influenzarono
dunque
l’andamento
degli
eventi:
ma
non
lo
fecero
con
intenti
‘deterministi’
(far
scoppiare
la
guerra),
né
volontariamente,
trovandosi
spesso
ad
agire
contro
la
volontà
personale.
La
radice
del
conflitto
andava
ricercata
prima
di
tutto
nella
politica
internazionale,
in
una
regione
agitata
ed
in
un
impero
morente.
Lo
svelò
al
mondo
un
ragazzino
chiamato
Gavrilo
Princip.
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