moderna
DA GUASTALLA ALL’ASSIETTA
LE FORZE ITALIANE E LE GUERRE DI
SUCCESSIONE EUROPEE
di Lorenzo Lena
Le forze armate piemontesi e quelle
unitarie loro eredi non hanno grande
fama nella storiografia militare. Una
rappresentazione in parte immeritata
dovuta alle prestazioni sul campo e,
soprattutto, alle impostazioni
politico-strategiche a monte. È facile
richiamare la disastrosa partecipazione
alla Seconda guerra mondiale e le
spallate carsiche della Prima, il
disastro africano di Adua e quelli
nostrani di Custoza e Lissa. Prove di
una grave mancanza di pianificazione e
organizzazione, punteggiata di isolate
imprese eroiche ormai sospese tra totale
oblio e nostalgismo.
Le prime fondamenta di alcuni problemi
portati fino al Novecento possono
intravedersi negli albori della storia
regia, dopo quel 1720 in cui ai duchi di
Torino venne consegnata la corona di
Sardegna, quando furono combattute due
battaglie testimoni delle qualità,
raramente espresse a fondo, di un
piccolo e solido esercito, ben guidato
sul terreno.
Guastalla (1734) e l’Assietta (1747)
sono anche prova della diplomazia
sabauda, mai attestata in stabili
alleanze, specie con l’ingombrante
vicino francese, ma di volta in volta
alla ricerca dell’equilibrio nella
regione per conservare quella libertà di
iniziativa che, al culmine sotto Carlo
Emanuele III, andrà calando in
cinquant’anni di staticità fino alla
tempesta napoleonica, apripista di un
Risorgimento imperfetto condotto da un
imperfetto apparato militare.
Il contesto: le successioni ai troni
europei
La cornice in cui si mosse l’Armata
sarda fu quella delle guerre di
successione del Settecento, quella
polacca (1733-1738) e quella austriaca
(1740-1748). Meno conosciute della
precedente guerra di successione
spagnola (1701-1713), che aveva visto
l’allora ducato protagonista durante gli
assedi di Torino, ne rispecchiarono i
medesimi ideali e gli stessi strumenti
militari tipici di quello che sarà
spregiativamente chiamato Ancien
Regime.
Nel 1733 il trono di Polonia venne
conteso tra Federico Augusto III, figlio
del defunto sovrano, e Stanislaw
Leczynski, sostenuto dalla Francia.
L’erede trovò l’appoggio di Russia e
Austria. Il fatto che il regno di
Sardegna, fino al 1720 regno di Sicilia
e prima ducato di Savoia, fosse
corteggiato da questi giganti evidenzia
la portata europea del conflitto, sembra
destino della Polonia scatenare guerre
continentali, e il valore strategico del
nord-ovest italiano, tra Spagna, Francia
e Impero.
La vittoria del candidato austriaco fu
magra consolazione per una
redistribuzione territoriale che, in
particolare nella penisola, vide
aumentare l’influenza franco-sabauda. La
nuova alleanza (trent’anni prima i
Savoia erano alleati all’Impero e i
francesi assediavano Torino) occupò
l’intera Lombardia ma venne fatta
ritirare per timore di un’egemonia
piemontese nel nord Italia.
Leczynski ottenne la Lorena il cui
signore, Francesco d’Asburgo, fu
ricompensato con la Toscana. Il regno di
Napoli passò ai Borbone di Spagna. Per
l’Austria un disastro. Per il regno di
Sardegna la certificata statura militare
e, in prospettiva, i primi guai sul
terreno diplomatico (dovettero passare
120 anni per riavere Milano).
Due anni dopo, morto l’imperatore Carlo
VI, sua figlia Maria Teresa divenne
imperatrice sulla base della Prammatica
sanzione, scatenando le pretese di altri
candidati e le mire di Federico II di
Prussia sulla regione mineraria della
Slesia. Anche Francia, Spagna e Napoli
approfittarono della debolezza
imperiale, minacciando Torino in una
morsa borbonica da ogni direzione.
Per questo motivo Carlo Emanuele III
rovesciò ancora una volta le alleanze e
la Francia, nemica a inizio secolo e
alleata due anni prima, tornò avversaria
e iniziò l’invasione del Piemonte, prima
inarrestabile e poi ricacciata dalla
controffensiva piemontese-imperiale.
Dopo otto anni, la guerra si concluse
con un’Austria stremata, al pari della
Francia, e un odio perpetuo tra Maria
Teresa e Federico di Prussia. Parigi e
Vienna, entrambe concentrate sul
nascente dinamismo militare di Berlino,
decisero di congelare il fronte italiano
con una serie di trattati in cui sarà
legata anche la Spagna (Aquisgrana e
Aranjuez) e che si vedranno avere un
disastroso effetto sullo sviluppo del
regno di Sardegna come potenza politica
e militare.
Quale esercito, quali battaglie
Gli eserciti del Settecento europeo
presentavano caratteristiche simili per
tattica e composizione. Suddivisi in
battaglioni di fanteria e reggimenti di
cavalleria, a volte istituiti su
iniziativa degli stessi nobili che ne
assumevano il comando, formati da
soldati professionisti rafforzati da un
certo numero di mercenari, coordinati
con reparti d’artiglieria e sostenuti
dal genio militare. Il comando veniva
affidato per estrazione sociale, ma non
per questo mancarono personalità di
spessore e autentiche leggende come
Eugenio di Savoia, arrivato al vertice
assoluto delle armate imperiali.
Le armi standard erano il moschetto a
pietra focaia, più affidabile della
versione a miccia, sciabola e pistola
per i cavalieri. La tattica più efficace
prevedeva il movimento in colonna, per
una maggiore rapidità di spostamento,
poi lo schieramento in linea per
sviluppare il massimo volume di fuoco in
combattimento. Manovre complesse,
portate ai massimi livelli dall’esercito
prussiano e variamente impiegate negli
altri paesi. All’Assietta, la scelta
francese di attaccare in colonna diede
alla difesa piemontese un vantaggio
decisivo.
L’esercito sardo era il più piccolo tra
le potenze europee ma, come nel
Risorgimento, il più solido nello
scenario italiano. All’attivo portava
esperienze positive, la partecipazione
alla guerra di successione spagnola, e
negative nella guerra di Sicilia
(1717-1720) occupata dagli spagnoli,
riconquistata dagli inglesi e tolta ai
Savoia in cambio della Sardegna. Non
esistevano i reparti più noti in
seguito, carabinieri e bersaglieri,
costituiti nell’Ottocento, né quei
reparti leggeri comunemente usati per
infastidire e disperdere le formazioni
avversarie, che all’epoca iniziavano
appena a comparire e in Italia furono
comunque visti con un misto di sospetto
e disprezzo, preferendo la rassicurante
regolarità delle formazioni inquadrate.
La guerra del Settecento era
fondamentalmente rigida, impostata su
schemi all’apparenza immutabili. Fu con
queste caratteristiche che le forze
piemontesi si presentarono ai due
conflitti continentali e diedero prova
di sé a Guastalla e tredici anni dopo
sull’Assietta.
Nel primo caso a guidare l’esercito si
trovò Carlo Emanuele in persona, una
tradizione di sovrano combattente che
nel Settecento avrebbe iniziato a
scemare. Il contesto era quello
dell’avanzata franco-piemontese in
territorio lombardo, che portò in poco
tempo all’occupazione di Milano con la
cacciata degli imperiali. Dopo una serie
di scontri interlocutori, gli alleati si
attestarono a Guastalla vicino al Po
(oggi in Emilia-Romagna) e subirono la
controffensiva asburgica respingendola
con successo. Nello scontro, molto
cruento, trovò la morte alla testa della
cavalleria imperiale il principe Luigi
del Wurttemberg. Lo scenario nord
italiano non subì ulteriori modifiche,
con il conflitto a proseguire
stancamente nel meridione e in
territorio tedesco.
La conclusiva risistemazione di cui già
si è detto lasciò scontenti i
piemontesi, il cui peso diplomatico non
fu proporzionale alla prestazione
bellica, che si videro sottrarre le
conquiste più rilevanti in nome della
stabilità europea, a dispetto degli
accordi francesi di inizio conflitto. La
prestazione delle armi sabaude, nel
limitato scenario in cui furono
impiegate, impose a ogni modo Torino
come perno strategico nella regione, in
grado di giostrarsi tra le grandi
potenze da cui era attorniata.
Una situazione analoga si presentò due
anni dopo, quando l’intera Europa si
coalizzò contro Vienna, cui andò
l’appoggio indiretto delle sole
Inghilterra e Olanda. Il rischio di
vedersi circondare dai Borbone su ogni
fronte spinse i Savoia a quei cambi di
alleanze che li hanno contraddistinti,
ma che in effetti si impongono a ogni
piccola potenza in scenari troppo più
ampi delle risorse disponibili.
A quasi quattro anni dall’inizio del
conflitto Carlo Emanuele si schierò a
fianco dell’Austria, subendo
l’inevitabile e immediata invasione
francese trasformatasi in tre anni di
guerra sul territorio del regno di
Sardegna, con le maggiori città perse e
riconquistate dalle armate
austro-piemontesi. Nell’estate 1747, una
seconda offensiva francese puntò
direttamente su Torino per spingere i
Savoia fuori dalla guerra. Il comandante
francese, conte di Belleisle, poté
schierare un esercito più numeroso,
circa trentamila uomini, muovendolo
sulle creste d’alta quota per aggirare
le fortificazioni a valle.
Il comandante piemontese, Giovanbattista
Cacherano di Bricherasio, schierò i suoi
sei o settemila tra sabaudi e austriaci
su linee progressive in posizione
sopraelevata, per sterilizzare
l’inferiorità numerica. Lo scontro, che
per casualità fu l’ultima grande
vittoria di un esercito italiano fino
alla conquista di Gorizia nel 1916, è
stato glorificato in epoca
risorgimentale ma fu effettivamente una
piena vittoria ottenuta anche, come
detto, per gli errori nella manovra
francese, che offrirono ottimi bersagli
ai difensori. Belleisle morì in
battaglia, guidando una carica. La
guerra si concluse l’anno dopo, ancora
con il regno di Sardegna tra i vincitori
ma, ancora, incapace di dare sbocco
diplomatico ai successi militari. Questa
volta con conseguenze, in prospettiva,
disastrose.
Conseguenze
Con la stabilizzazione degli anni
Cinquanta del XVIII secolo, il contesto
italiano perse di rilevanza. Il regno di
Napoli rimase ai Borbone di Spagna, il
ramo napoletano acquisì in seguito
autonomia, lo Stato pontificio si
mantenne neutrale tra potenze cattoliche
distanti dai suoi confini, il territorio
dalla Toscana alla Lombardia al Veneto
rimase saldamente austriaco, mentre il
piccolo Piemonte si ritrovò intrappolato
tra le massime potenze continentali.
Esattamente lo scenario che si era
cercato di evitare combattendo al fianco
di Vienna, per mantenere dinamico il
contesto dell’Italia settentrionale in
cui i Savoia miravano a ricoprire ruoli
determinanti. Il fulcro europeo, da un
punto di vista politico e militare, era
definitivamente passato sul Reno con
l’emergere del militarismo prussiano
come forza dominante. Nei successivi due
secoli, fino al 1945, la combattività
franco-prussiana avrebbe scatenato
quattro guerre, senza contare i
conflitti interni all’epoca napoleonica.
Nel 1756, all’inizio della guerra dei
sette anni, il territorio italiano non
venne coinvolto e i Savoia rimasero
tagliati fuori da ogni riequilibrio di
potenza, senza che la loro diplomazia
potesse esprimersi.
In cinquant’anni di forzata neutralità,
i soldati piemontesi rimasero inerti
spettatori dell’evoluzione militare
europea accumulando un ritardo
devastante verso le potenze più
dinamiche, fino a essere spazzati via
dalla campagna napoleonica del 1796,
dopo la quale la penisola rimase in
orbita francese per vent’anni. Dopo il
Congresso di Vienna, i migliori soldati
degli eserciti italiani si individuarono
tra quanti avevano militato sotto
Napoleone e ne avevano interiorizzato le
innovazioni, ma essi vennero brutalmente
sradicati in nome della Restaurazione
(l’ultimo esponente fu Gioacchino Murat,
fucilato dopo una fallita invasione nel
1815), tornando al modello settecentesco
di esercito regio ormai totalmente
superato.
Fu questo esercito, concettualmente
simile a quello dell’Assietta ma
centouno anni dopo, a scendere in campo
contro l’Austria nella prima guerra di
indipendenza, uscendone completamente
battuto. Un percorso analogo, per
concludere, all’avversario esercito
borbonico, ancor più dei piemontesi
ridotto a retrograda forza di polizia
interna e difatti sfasciatosi con tutto
il regno davanti ai garibaldini. I
restanti eserciti preunitari,
quantitativamente solo una frazione
delle forze sabaude e borboniche, non
giocarono alcun ruolo. Anche da qui il
sotterraneo scontro tra i due
Risorgimenti, quello regio e regolare,
fondamentalmente antiquato e inefficace,
e quello volontaristico e dinamico,
guardato con preoccupazione.
Riferimenti bibliografici:
Del Negro P., Guerra ed eserciti da
Machiavelli a Napoleone, Laterza,
Roma-Bari 2013.
Maurino M., Maurino L., “Una vittoria
impossibile”, Guerre e Guerrieri n.
13, 2017 Oliva G., I Savoia,
Mondadori, Milano 1998.
Scardigli M., Le grandi battaglie del
Risorgimento, Rizzoli, Milano 2011.
Visani P., Storia della guerra
dall’antichità al Novecento, Oaks
editrice, Sesto San Giovanni (Mi) 2018.
Zotti N., Combattere in linea. Tattiche
militari, Guerre e Guerrieri n. 9,
2016. |