N. 94 - Ottobre 2015
(CXXV)
L’Avvocato e il Principe irrequieto
Due siciliani nell’Italia dei misteri
di Gaetano Cellura
Niente
si
può
immaginare
di
più
diverso
e
contrastante
del
loro
modo
di
vivere.
Uno
era
riservatissimo
e
potente.
Forse
più
potente
di
quanto
si è
soliti
crederlo.
L’altro
avventuroso,
dandy,
amante
della
bella
vita,
dei
viaggi
e di
tutto
quanto,
con
una
sola
parola,
può
dirsi
mondanità.
Uno
era
figlio
legittimo;
l’altro,
figlio
naturale,
ha
dovuto
aspettare
dodici
anni
per
vedersi
riconosciuto.
Uno
ha
vissuto
interamente
la
propria
vita
ed è
morto
nel
proprio
letto;
l’altro
è
precipitato
tragicamente,
a
trentanove
anni,
da
un
balcone
dell’Hotel
Eden
di
Roma.
Omicidio
o
suicidio?
Eppure,
questi
due
siciliani
ne
avevano
di
cose
in
comune.
A
partire
dall’età:
appena
un
anno
di
differenza.
L’avvocato
Vito
Guarrasi
era
nato
nel
1914
ad
Alcamo;
il
principe
Raimondo
Lanza
di
Trabia
l’anno
dopo
– e
la
Prima
guerra
mondiale
ha
avuto
una
decisiva
importanza
sulla
sua
venuta
al
mondo.
Sono
stati
tutt’e
due
presidenti
della
squadra
di
calcio
del
Palermo
negli
anni
Cinquanta.
Il
Principe
di
Trabia,
amico
della
famiglia
Agnelli,
voleva
farne
la
Juventus
del
sud.
Tutt’e
due
si
sono
occupati
di
commercio
dello
zolfo.
Hanno
avuto
amicizie
influenti
nel
mondo
della
politica,
dell’imprenditoria,
della
finanza,
dell’aristocrazia,
del
cinema.
E
soprattutto
–
prima,
durante
e
dopo
lo
sbarco
degli
Alleati
in
Sicilia
–
hanno
goduto
della
fiducia
degli
americani.
“Don
Vito”,
come
poi
l’avrebbero
chiamato,
era
a
Cassibile,
con
il
generale
Castellano,
il 3
settembre
del
1943,
per
trattare
l’armistizio
del
governo
Badoglio
con
gli
Alleati.
Lui
l’ha
sempre
negato,
ma
ha
ammesso
di
aver
partecipato
in
quei
giorni
ad
altri
importanti
incontri
per
“stabilizzare”
la
Sicilia
ed
evitare
derive
comuniste.
Dell’avvocato
Guarrasi
si
sa
quasi
tutto.
La
verità,
le
chiacchiere,
i
sospetti.
Le
indagini
cui
è
stato
sottoposto
e i
relativi
proscioglimenti.
L’iscrizione
alla
massoneria
insieme
ai
discussi
cugini
Salvo,
le
accuse
di
suoi
incontri
con
i
capi
dei
Servizi
e di
conoscere
molte
verità
su
Sindona
e
Calvi.
Ma a
suo
carico
non
c’è
mai
stato
un
processo
o
un’accusa
per
mafia.
Solo
una
condanna
per
bancarotta
fraudolenta
da
parte
del
Tribunale
di
Roma.
Chi
era
dunque
questo
“Mister
X”
siciliano
che
camminava
con
le
mani
incrociate
dietro
la
schiena,
come
Enrico
Cuccia
di
cui
era
parente?
Un
mafioso
mai
riconosciuto
o
solo
un
consulente,
la
mente
giuridica
dei
veri
potenti?
Marianna
Bartoccelli
e
Francesco
D’Ajala
hanno
scritto
su
di
lui
un
libro
che
non
poteva
non
intitolarsi
L’Avvocato
dei
misteri,
affidandone
l’introduzione
all’ex
deputato
del
Pci
Emanuele
Macaluso,
che
lo
conosceva
dai
tempi
del
variegato
governo
di
Silvio
Milazzo
di
cui
don
Vito
è
stato
il
“cervello
economico”.
Di
assolutamente
vero
c’è
che
Guarrasi
viveva
nell’ombra,
sempre
lontano
(come
Cuccia)
dalla
ribalta
e
che,
già
a
ventisette
anni,
era
il
referente
di
Eisenhower
in
Algeria.
Troppo,
comunque,
per
un
aiutante
di
campo
del
generale
Castellano,
per
un
semplice
comandante
del
Servizio
automobilistico
dell’esercito.
In
Algeria
l’accompagnava
il
tenente
Galvano
Lanza
Branciforti
di
Trabia,
suo
amico,
fratello
di
Raimondo,
e
anche
lui
figlio
naturale
del
principe
Giuseppe
e
della
nobildonna
veneta
Madda
Papadopoli
Aldobrandini.
L’avvocato
Guarrasi
gli
amministrava
il
feudo
di
Trabia.
C’erano
dunque
rapporti
di
famiglia
e di
affari
tra
i
Lanza
e i
Guarrasi,
proprietari
dell’azienda
vinicola
Rapitalà.
Il
questore
Li
Donni,
in
un
rapporto
riservato
inviato
nel
1971
alla
Commissione
Antimafia,
scrive
che
il
binomio
Lanza-Guarrasi
costituiva
in
Sicilia
uno
dei
più
forti
gruppi
economici
di
potere.
Di
vero
c’è
anche
che
i
consigli,
i
suggerimenti
dell’avvocato
di
Alcamo
sono
stati
indispensabili
per
chiunque,
dal
dopoguerra
in
avanti,
ha
deciso
di
fare
affari
in
Sicilia
e
nel
meridione.
Compreso
Enrico
Mattei.
Partito
da
Palermo
per
combattere
la
Prima
guerra
mondiale,
il
principe
Giuseppe
Lanza
aveva
conosciuto
in
Veneto
una
signora
aristocratica,
Madda
Papadopoli,
anche
lei
sposata
e
con
una
figlia.
Dalla
loro
relazione
nacquero
Raimondo
e
(cinque
anni
dopo)
Galvano,
per
lungo
tempo
rimasti
figli
di
nessuno
non
potendo
per
legge
essere
riconosciuti
né
dal
padre
né
dalla
madre
al
di
fuori
dai
rispettivi
matrimoni.
È
stata
la
nonna
paterna,
Giulia
Florio,
a
volerne
a
tutti
i
costi
il
riconoscimento
giuridico.
Quando
il
figlio
Giuseppe
morì
nel
1927,
lei
s’era
già
recata
da
Mussolini
per
chiedergli
di
cambiare
il
Codice
delle
unioni
equiparando
i
figli
naturali
ai
legittimi.
Con
Madda
Papadopoli
concordò
che
il
primogenito,
Raimondo
Lanza,
sarebbe
andato
a
vivere
a
Palermo,
con
lei;
mentre
il
secondogenito,
Galvano
Lanza
Branciforti,
sarebbe
rimasto
in
Veneto
con
la
madre.
I
palermitani
chiamavano
Raimondo
“u
Principi”.
La
nonna
Giulia
lo
chiamava
“Raimonduzzu”.
Ma
tanto
l’ambiente
aristocratico
in
cui
viveva
quanto
la
Sicilia
si
rivelarono
presto
spazi
angusti
per
il
suo
fisiologico
bisogno
di
libertà,
avventura
e
fuga.
Dopo
aver
partecipato
alla
Guerra
di
Spagna
e
alla
Seconda
guerra
mondiale
(in
cui,
in
una
circostanza,
fu
d’aiuto
alla
Resistenza
romana
mentre
il
Re e
Badoglio
si
mettevano
al
sicuro
dai
tedeschi)
e
dopo
aver
avuto
rapporti
d’amicizia
con
Galeazzo
e
Edda
Ciano,
conobbe
il
magnate
greco
Onassis,
lo
scià
di
Persia,
gli
Agnelli,
tanti
personaggi
del
mondo
dello
spettacolo.
E
sposò
l’attrice
Olga
Villi,
una
delle
più
belle
all’epoca.
Da
lei
ebbe
due
figlie,
Venturella
e
Raimonda.
La
squadra
di
calcio,
il
rilancio
della
Targa
Florio,
l’invenzione
del
Calcio-mercato
all’Hotel
Gallia
di
Milano,
gli
immensi
possedimenti
(feudi,
zolfare,
tonnare)
non
placavano
la
sua
ansia
di
viveur,
l’irrequietezza
e la
depressione
di
cui
in
fondo
forse
soffriva.
Si
spostò
così
tra
Roma
e
l’America;
viaggiò
per
il
mondo.
E
dilapidò
un
patrimonio.
I
problemi
veri
per
lui
incominciano
con
la
perdita
di
competitività
delle
miniere
di
zolfo
e
quando,
per
l’entrata
in
vigore
della
Riforma
Agraria
e
per
non
essere
più
taglieggiato
dai
mafiosi,
decide
di
vendere
i
grandi
feudi.
Ed
erano
i
tempi
in
cui
la
mafia
rurale
spadroneggiava
nelle
campagne
siciliane.
Su
Raimondo
Lanza
di
Trabia,
l’uomo
in
frac
della
nota
canzone
di
Modugno,
sono
stati
scritti
tre
libri:
Il
principe
irrequieto
di
Vincenzo
Prestigiacomo;
Il
grande
dandy
di
Marcello
Sorgi;
e,
l’anno
scorso,
a
quattro
mani,
Mi
toccherà
ballare
di
Raimonda
Lanza
e
Ottavia
Casagrande,
la
sua
seconda
figlia
e la
nipote.
Raimonda
era
ancora
nel
ventre
materno
quando
lui
cadde
o fu
buttato
giù
dal
balcone
dell’albergo.
Non
conobbe
suo
padre.
E
quest’ultimo
libro
parte
dalla
rivelazione
che,
prima
di
morire,
lo
zio
Galvano
Lanza
fece
proprio
a
lei:
“Non
si è
ucciso”,
le
disse.
Una
rivelazione
che,
insieme
al
ritrovamento
di
un
atto
di
vendita
delle
zolfare
di
famiglia,
di
nessuna
validità
in
quanto
portava
la
sola
firma
del
principe
Raimondo,
e al
fatto
che
quel
giorno
fatale
(30
novembre
del
1954)
lui
avesse
per
la
prima
volta
cambiato
albergo
a
Roma
(solitamente
alloggiava
al
Grand
Hotel),
propone
nuovi
inquietanti
interrogativi
sulla
sua
tragica
fine.
Forse
chi
amministrava
i
loro
beni
aveva
sconsigliato
a
Galvano
Lanza
di
venderli.
Ingannandolo.
Quanto
all’albergo
in
cui
il
principe
alloggiava,
e
dal
quale
(stando
alla
rivelazione
della
figlia
e
della
nipote)
è
volato
a
testa
in
giù,
vi
erano
presenti
quel
giorno
dei
petrolieri.
E si
sa
che
Raimondo
Lanza
di
Trabia
aveva
deciso
di
abbandonare
le
tonnare
e
l’ormai
improduttivo
commercio
dello
zolfo
per
tentare
l’avventura
del
petrolio.
Del
suo
patrimonio
non
restò
nulla
agli
eredi.
Altro
fatto
strano,
le
sue
miniere
di
zolfo
Trabia-Tallarita,
nella
provincia
di
Caltanissetta,
la
Regione
Siciliana
le
lasciò
fallire.
Mentre
per
tutte
le
altre
dell’Isola
avviò
un
piano
di
salvataggio
pubblico
istituendo
l’EMS
(Ente
Minerario
Siciliano).