N. 5 - Maggio 2008
(XXXVI)
I GRUPPI D’AZIONE PATRIOTTICA
la guerriglia urbana nella Resistenza
di Marco Grilli
La Resistenza in città contro l’attesismo.
All’indomani
dell’armistizio dell’otto settembre 1943, gli occupanti
tedeschi e i fascisti della neo-costituita Repubblica
Sociale Italiana (RSI) dovettero controbattere nelle
grandi città la fiera opposizione armata dei Gruppi
d’Azione patriottica (GAP), nuclei clandestini
costituiti dal Partito comunista alla fine del settembre
1943, allo scopo di rispondere col terrore al terrore
dell’occupazione nazi-fascista.
Giorgio Bocca li definì:
“La minoranza ossessionata e ossessionante che
arroventa la massa inerte delle grandi città, il nucleo
disperato che trasmette alle moltitudini la sua volontà”.
Mario Fiorentini, uno dei fondatori dei GAP di Roma,
chiarì gli obiettivi dell’organizzazione: “La
Wehrmacht non era più invincibile; dovevano sentire che
non erano padroni di Roma, che avevano una popolazione
ostile.Noi dovevamo attaccare le linee di comunicazione,
i loro passaggi, il transito degli automezzi, gli
automezzi in sosta, i comandi; e in particolare questo
fatto, che loro non dovevano sfilare impunemente per la
città. In altre parole volevamo imporre che Roma fosse
davvero città aperta”.
Quella dei GAP fu una dura
lotta che comportò grandi rischi e sacrifici, producendo
forti divisioni nell’opinione pubblica e all’interno
dello stesso Comitato di Liberazione Nazionale (CLN);
un’aperta sfida senza possibilità di mediazione e
compromessi, condotta con gli stessi metodi dei nemici e
lanciata da subito agli occupanti tedeschi e ai loro
alleati fascisti, per dimostrare l’illegalità della RSI
e la volontà di lotta del popolo italiano, per la
conquista della libertà e della democrazia.
Convinti che ogni
attesismo non avrebbe che prolungato l’occupazione
nazifascista col suo carico di lutti e rovine, i GAP non
si fecero intimorire dalle minacce di rappresaglia e
cercarono di smuovere l’opinione pubblica per condurla
sulla via della lotta e del sacrificio.
Organizzazione, metodi di
lotta e principali azioni.
I GAP, protagonisti del
terrorismo anti-nazista e anti-fascista in città,
dipendevano esclusivamente dal Partito comunista e dalle
Brigate Garibaldi.
Particolarmente importanti
per esser stati tra i primi organismi a scendere
immediatamente sul piano della lotta armata, considerate
le difficoltà organizzative e logistiche della prima
fase della Resistenza condotta dalle bande in montagna,
erano composti da gruppi di 3-5 elementi, isolati fra di
loro e appartenenti ad unità che contavano al massimo
una trentina di combattenti.
Incisero notevolmente
sull’efficacia dell’organizzazione le esperienze
maturate dai militanti comunisti nella guerra civile
spagnola e nella resistenza francese.
I gappisti vivevano nella
più rigida clandestinità: per ragioni di sicurezza ogni
gruppo era sconosciuto agli altri; all’interno d’ogni
unità si trovavano addetti al rifornimento d’armi ed
esplosivi, staffette, artificieri, incaricati per la
fornitura di documenti falsi e rifugi ed infine
informatori sugli obiettivi delle azioni. Si trattava di
un’organizzazione complessa e articolata che concedeva
una notevole libertà alle diverse unità: tra i
comandanti più noti spiccarono Ilio Barontini, Giovanni
Pesce, Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Carlo
Salinari, Walter Nerozzi e Aldo Petacchi.
Decisi a colpire
militarmente e moralmente i nazifascisti, in ogni luogo
ed in ogni momento, questi nuclei rivoluzionari
compirono sabotaggi, operazioni militari e attentati su
obiettivi specifici quali i “fascisti responsabili di
azioni contro la popolazione, ex dirigenti e
responsabili del regime fascista dimostratisi
particolarmente reazionari; dirigenti e responsabili
dell’attuale fascismo repubblicano, del governo del
venduto Mussolini, membri della milizia repubblicana e
della Guardia nazionale repubblicana; collaboratori
aperti, decisi e attivi dei tedeschi, spie ecc.”.
Non quindi una guerra cieca e indiscriminata ma un
terrorismo urbano mirato a colpire gli elementi più
pericolosi e connotati ideologicamente, una violenza
esemplare contro i principali nemici del popolo e della
libertà, quali i torturatori, le spie, i
collaborazionisti etc.
Solo colpendo i colpevoli
accertati i gappisti potevano pacificare le loro
coscienze e giustificare le loro imprese agli occhi
dell’opinione pubblica, mantenendosi nel solco dei
combattenti rivoluzionari.
Le azioni fulminee e
imprevedibili di questi partigiani ebbero costi
altissimi, in termini di caduti al loro interno e
rappresaglie sulle popolazioni civili, ma anche una
notevole efficacia sul piano dei danni materiali e sul
clima di paura e insicurezza generato tra gli occupanti,
incapaci di controllare pienamente il territorio e di
esplicare liberamente il proprio dominio.
Scriveva un giornale delle
Brigate Garibaldi: “Il terzo fronte deve creare per i
nazifascisti un’atmosfera di odio e terrore; questi
criminali non devono più sentirsi sicuri e tranquilli in
nessun luogo, ovunque devono sentire odio e disprezzo,
ovunque devono vedere nemici, ovunque una mano armata
che li colpisca”.
A Bologna i GAP colpirono
la polizia ausiliaria organizzata dai tedeschi nel
febbraio 1944 per la repressione partigiana: furono
giustiziati ben 17 agenti in cinque giorni tanto
che su circa 500 elementi ne disertarono ben 150 mentre
altri passarono addirittura alla lotta partigiana;
questi duri metodi volti a generare paura non mancavano
di produrre buoni risultati per la lotta di liberazione.
Il gappismo è stato
definito come la guerra partigiana messa in scena
davanti ad un pubblico di massa; le azioni terroristiche
privilegiarono le grandi metropoli, più consone alla
necessità di vivere in clandestinità, permisero la
conquista di uno spazio pubblico ai “ribelli”,
disorientarono il nemico –i tedeschi pensarono perfino
che i gappisti non fossero italiani ma terroristi
inviati da Mosca o dagli anglo-americani, esagerandone
la consistenza numerica data la rilevanza degli
attacchi- ed infine “pubblicizzarono” agli occhi della
popolazione l’esistenza di un nucleo di intransigenti,
votati a battersi fino in fondo per dimostrare la
debolezza del nuovo stato fascista repubblicano.
Nonostante l’esiguità
numerica (nelle metropoli del nord non superarono mai i
40-50 elementi), i gappisti furono protagonisti di colpi
di mano eclatanti, ne citiamo alcuni: al 2 ottobre 1943
risale il primo attentato, quando presso Milano Egisto
Rubini fece saltare in aria un deposito di munizioni,
sempre nel capoluogo lombardo il 18 dicembre cadde sotto
il fuoco dei gappisti il federale Aldo Resega; a Torino
fu colpito il 29 ottobre il seniore della milizia
Domenico Giardina, mentre nel febbraio 1944 sette bombe
danneggiarono il comando tedesco; a Firenze il 1°
dicembre 1943 cadde il comandante del distretto militare
Gino Gobbi, accanito persecutore dei renitenti, un mese
più tardi sette detonazioni colpirono diverse sedi del
comando tedesco in città; a Bologna il 18 dicembre 1943
fu attaccato il comando nazista insediato a Villa Spada;
nella capitale il 18 dicembre 1943 una bomba provocò
dieci morti fra tedeschi e fascisti frequentanti la
trattoria di Via Fabio Massimo, otto giorni dopo Mario
Fiorentini lanciò uno spezzone contro il corpo di
guardia tedesco in Regina Coeli ed in seguito la rabbia
gappista si abbatté sull’Hotel Flora, sede del comando e
del tribunale di guerra nazisti.
Gli episodi più duri e
discussi che maggiormente colpirono l’opinione pubblica
e il CLN furono l’attentato di Via Rasella a Roma,
triste preludio all’eccidio delle Fosse Ardeatine, e
l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile, Presidente
dell’Accademia d’Italia e fiero sostenitore del fascismo
repubblicano; nel furore della guerra civile i gappisti
ritennero punibili le responsabilità politiche di uno
dei più influenti intellettuali fascisti.
L’attivismo gappista
provocò smarrimento e forti reazioni in campo
nazi-fascista: l’estensione del coprifuoco; il divieto
delle biciclette, principali mezzi usati per gli
attentati; la spietata repressione dei ribelli ed infine
le rappresaglie sulla popolazione civile, furono i
principali metodi messi in atto dagli occupanti per
riaffermare il proprio controllo sul territorio.
La vita del gappista.
La guerra partigiana si
distinse per la sua volontarietà, la scelta individuale,
meditata e finalmente libera che ogni resistente attuò
nella propria coscienza, nell’eccezionalità del contesto
storico che impose di stare dall’una o dall’altra parte
della barricata, con gli oppressori o con gli oppressi.
La rigida clandestinità e
l’isolamento, le privazioni materiali imposte e la
durezza dei metodi di lotta, significarono per i
gappisti un periodo di vita angoscioso ed estenuante, il
prezzo da pagare per il conseguimento dell’obiettivo
finale: la cacciata dell’invasore e la conquista della
libertà.
Una guerra estrema,
praticabile solo coi metodi del terrorismo, che richiese
un ferreo sostegno ideologico, fondamentale per
perdurare nell’azione e acquietare il travaglio
interiore; preminente quindi il ruolo del commissario
che: “Deve curare che la vita tutta speciale condotta
dai gappisti non corrompa l’onestà e il carattere. Egli
deve preoccuparsi che ognuno che uccida si senta un
giustiziere, e non un assassino; che chi fa un colpo di
recupero lo faccia convinto della giustizia del suo atto
e non col senso di sentirsi un ladro”.
Una scelta drastica e
totale che investì tutti i lati dell’esistenza e impose
una disciplina rigorosa e il freno ad ogni pietismo;
spiegò Marisa Musu: “Se penso d’aver contribuito con
una bomba a far saltare in aria un soldato tedesco, non
penso che quello era un figlio di mamma, che era il
padre di un bambino piccolo, non la vivo così. Vedo
torturatori di Via Tasso, rastrellatori di ebrei,
guardie ai campi di sterminio…”.
L’impugnare un arma per
colpire a freddo il nemico fu un trauma rilevante che
lacerò le coscienze di molti combattenti, uomini e
donne, in gran parte operai e studenti, spesso cresciuti
nell’ideale del socialismo e ora chiamati a violare la
sacralità della vita; questo il racconto di un
giovanissimo partigiano in attesa in Via Rasella: “Il
giorno che stavo aspettando in piazza di Spagna che la
colonna tedesca apparisse in fondo al Babuino, e pensavo
che quegli uomini sarebbero morti non me ne importava
nulla. Ma stando là in piedi nel tiepido sole del
pomeriggio, e vedendoli sfilare, mi risuonava dentro un
motivo di E lucean le stelle…, e mi colavano le lacrime
giù per le gote”.
Ai gappisti erano
richiesti freddezza, coraggio, volontà inflessibile e
destrezza fisica; la loro esiguità si spiega anche con
la difficoltà di tale scelta. Nella vita di questi
combattenti mancarono i momenti di condivisione propri
della guerriglia in montagna, scrisse nel suo diario un
gappista bolognese: “Passarono altre tre giornate,
tre interminabili giornate di solitudine e di fame. Le
trascorremmo svogliati e inerti, guardando dalle
finestre, sfogliando i pochi libri rimasti, dando la
caccia ai pidocchi e bestemmiando contro la sorte”.
Quei partigiani urbani che
avevano partecipato alla guerra civile spagnola
rimpiansero quel periodo, caratterizzato dagli scontri
faccia a faccia in campo aperto; ora invece la
sensazione di essere braccati, la necessità di colpire
di sorpresa con azioni fulminee, il rischio altissimo di
esser catturati, torturati e uccisi, caratterizzavano la
vita di questi combattenti chiamati a vincere la
stanchezza esistenziale e il disgusto per la realtà
dell’epoca, con la speranza di lottare per un futuro
migliore.
I gappisti scelsero la
resistenza attiva e, dichiarando guerra all’occupante,
si mostrarono pronti a uccidere e farsi uccidere;
lontani dalla mistica mortuaria fascista, non si
considerarono votati alla morte ma la sopportarono con
dignità e orgoglio.
Una volta catturati una
triste sorte toccava a questi “solitari rivoluzionari”,
costretti a sopportare indicibili torture per non
rivelare i nomi dei compagni: a Roma l’artificiere
Giorgio Labò fu tenuto 18 giorni con le mani legate
dietro la schiena ma rifiutò di parlare e finì fucilato
a Forte Bravetta; Gianfranco Mattei, altro artificiere
dei GAP, s’impiccò nella sua cella in Via Tasso per
paura di cedere alle torture del tristemente noto
tenente Priebke e tradire i compagni. Una scelta
imbracciata con ardore e portata fino alle estreme
conseguenze era quella dei GAP.
Non mancarono casi di puro
eroismo, come quello del 17enne operaio torinese Dante
di Nanni che, il 17 marzo 1944, rimasto gravemente
ferito in seguito ad un attacco ad un reparto fascista,
riuscì a raggiungere la base in Borgo S. Paolo e,
assediato dai tedeschi che aprirono il fuoco perfino con
un cannoncino anticarro, dopo aver lanciato otto bombe a
mano ed esaurito le munizioni, evitò di consegnarsi al
nemico gettandosi dalla finestra col pugno alzato,
gridando viva l’Italia.
I GAP pagarono un prezzo
altissimo in vite umane (circa il 50% dei componenti);
in gran parte finirono fucilati dopo orribili sevizie e
torture. A Roma l’organizzazione subì un tracollo in
seguito all’arresto di Guglielmo Blasi, uno dei presenti
in Via Rasella, uomo di dubbia moralità che, arrestato
in seguito ad una rapina commessa per proprio conto,
passò agli ordini del famigerato Pietro Koch, comandante
di una speciale polizia fascista, facendo arrestare
quasi tutti i suoi ex-compagni.
Le polemiche sui GAP.
I radicali metodi di lotta
dei GAP suscitarono da subito discussioni e
incomprensioni nel fronte resistenziale così come
nell’opinione pubblica. Questi partigiani urbani non
accettarono il “ricatto della rappresaglia” che avrebbe
impedito le stesse possibilità di lotta; convinti che la
causa di tutti i mali stesse nell’occupazione nazista
spalleggiata dai fascisti di Salò, ritenevano che solo
mettendo in pratica da subito il terrore avrebbero
accelerato la liberazione delle città e placato
l’attuazione dei piani criminosi degli occupanti, per
timore delle contro-rappresaglie partigiane.
Se questa spiegazione può
esser accettata solo in parte, altrettanto ingenerosa
risulta l’interpretazione di coloro che considerarono
gli attentati dei GAP utili unicamente ad inasprire le
reazioni del nemico che, in tal modo, si sarebbe
attirato l’odio della popolazione, finendo per
convincerla della necessità di passare alla lotta di
Liberazione. Il fatto che i comunisti si siano assunti
le responsabilità delle rappresaglie, come prezzo da
pagare per la decisione di esser scesi sul piano della
battaglia, non significa che essi volessero provocarle
per accentuare il rancore anti-tedesco della
popolazione.
La Chiesa cattolica fu
particolarmente decisa nel condannare gli attentati
gappisti, proclamando la necessità di mantenere l’ordine
interno, il rispetto dell’autorità costituita ed un
rapporto pacifico con i tedeschi. Lo stesso Papa Pio XII,
nell’appello lanciato alla vigilia di Natale del 1943,
invitò la popolazione ad astenersi da qualsiasi atto
inconsulto, temendo il progredire della lotta armata
contro l’occupante. Significativa anche la Lettera al
clero e al popolo per la pacificazione degli animi,
scritta dal Vescovo di Firenze Dalla Costa in seguito
all’uccisione del ten. col. Gobbi, un documento in cui
le azioni dei GAP furono deprecate come atti privati di
vendetta o di vandalismo, che dimostrò i rapporti di
collaborazione col fascismo repubblicano e il timore del
pericolo comunista, proprio di gran parte delle alte
gerarchie ecclesiastiche.
Se i comunisti
rivendicarono sempre la loro maggiore efficienza
organizzativa e capacità di lotta, condannando
sostanzialmente come viltà ogni attesismo, le altre
forze del CLN, n particolare azionisti e democristiani,
espressero riserve sulla moralità ed efficacia del
terrorismo gappista, richiamandosi anche alla necessità
di evitare le rappresaglie che colpivano l’inerme
popolazione civile.
La frattura all’interno
del CLN fu evidente nei due casi più eclatanti che
videro protagonisti i GAP: l’attentato di Via Rasella,
che il democristiano Spataro rifiutò di riconoscere come
azione approvata dalla Giunta militare del Comitato,
nella riunione del 26 marzo 1944, e l’uccisione di
Giovanni Gentile, che i comunisti vollero rivendicare
come azione del CLN toscano, suscitando le ire e la
disapprovazione degli azionisti.
I GAP furono costituiti
unicamente dal Partito comunista e con le loro azioni
causarono divisioni all’interno del CLN, questi fattori
sono all’origine di una storiografia sull’argomento
ancora insufficiente e incompleta, poiché tema delicato
e non perfettamente assimilabile all’immagine di
concordia ed unità d’intenti tra le forze protagoniste
della Resistenza.
Resta da precisare un
altro aspetto interessante: il rapporto del terrorismo
resistenziale con quello delle Brigate Rosse negli anni
‘70; a tale proposito i gappisti hanno sempre insistito
sull’eccezionalità del periodo di guerra, con
l’occupazione nazista e il ritorno al potere della
dittatura fascista, e la sua incomparabilità con la
società pacificata del dopoguerra, nel quadro
repubblicano e democratico. Ci paiono esaurienti e
pienamente condivisibili le parole di: Marisa Musu –Mi
è sembrato subito non tanto compagni che sbagliano, ma
un tragico malinteso. Li ho odiati perché hanno nuociuto
a quella che era la lotta, hanno interrotto un processo
democratico- Valentino Gerretana – Noi ci siamo
trovati la guerra, non è che l’abbiamo dichiarata noi.
Questi invece hanno dichiarata la guerra. La violenza
era una risposta alla violenza; non è la violenza dello
stato delle multinazionali, è la violenza che ti
pigliava e stavi in galera per vent’anni- ed infine
Rosario Bentivegna – Il confronto con Via Fani mi dà
fastidio. Non è assolutamente paragonabile: una pistola
la puoi usare per legittima difesa e per rapina a mano
armata. Certo che l’arma è quella. Ma altro è
utilizzarla in guerra contro un reparto militare,
rischiando quello che rischiavi, altro è invece fare
un’azione di quel genere in piena pace, senza un
particolare allarme degli obiettivi e sapendo tra
l’altro che non rischiavi la pelle.
Riferimenti bibliografici:
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Einaudi, 2004
C. Pavone,
Una guerra civile: saggio storico sulla moralità
nella Resistenza, Torino, Bollati Borlinghieri, 1998
R.
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Torino, Einaudi, 1964
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Dizionario della Resistenza, Roma, Editori
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Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari, 1976
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Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947,
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L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse
Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 2001 |