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N. 127 - Luglio 2018 (CLVIII)

Groenlandia, terra dalle “rare” opportunità

Venti d’indipendenza anche per gli Inuit

 di Gian Marco Boellisi

 

Quando si chiede quale sia la più grande isola d’Europa, molti rispondono senza pensarci la Gran Bretagna, dimenticando che nel freddo Nord esiste un’isola ben più estesa tanto da essere non solo la più grande del Vecchio Continente, ma la più grande al mondo: la Groenlandia.

 

Costituendo il 98% della superficie della Danimarca, la Groenlandia fa parte del Regno Danese da circa 200 anni. Vista da Copenaghen da illo tempore come un peso, sia amministrativo che economico soprattutto per la sua posizione e clima non propriamente favorevole, nell’ultimo periodo l’isola artica ha riacquistato un valore non indifferente.

 

Al centro della vicenda vi sono gli Inuit, altresì noti come eschimesi, popolo che da secoli abita queste fredde terre ma che non ha mai goduto di particolari attenzioni da parte del governo centrale. Tuttavia le cose stanno prendendo una piega inaspettata, tanto che l’intera Groenlandia è a un passo dalla scissione definitiva dal governo danese per diventare così una realtà a sé stante. Un passo così importante però non è un’operazione di poco conto. Vale la pena quindi di analizzare come questo traguardo potrebbe essere raggiunto e soprattutto a quale prezzo.

 

La scintilla che ha dato inizio all’intera catena di eventi però non è una particolare entità politica, bensì un evento climatico: il riscaldamento globale. Con lo scioglimento dei ghiacci sia l’Artico che l’Antartico si stanno rivelando una miniera di ogni risorsa naturale che abbia valore, sia economico che geopolitico: petrolio, gas naturale, diamanti, uranio, oro, zinco, rubini e, non da ultimi, elementi delle terre rare.

 

Questi in particolare negli ultimi decenni sono di grande interesse per tutte le potenze che aspirano a estendere la propria influenza a livello globale. Sempre di più si dice che chi avrà il controllo di questi 17 elementi di fatto controllerà l’intera economia mondiale nell’arco dei prossimi 20-30 anni.

 

Questi elementi infatti sono alla base di quasi ogni componente tecnologico presente nel nostro quotidiano. Con le terre rare si producono superconduttori, magneti, fibre ottiche, circuiti elettronici ad alta performance: l’elenco sarebbe molto lungo.

 

Per quanto riguarda la distribuzione di questi importanti elementi nel mondo, basti sapere che il 95% delle miniere esistenti sul nostro pianeta si trova attualmente sul suolo della Repubblica Popolare Cinese, mentre il restante 5% si distribuisce tra Africa, Afghanistan e Groenlandia.

 

Per il regno danese questo potrebbe essere di gran lunga la più grande opportunità della sua storia. Tuttavia gli Inuit non sono d’accordo e, dopo 2 secoli di appartenenza al piccolo regno nordico, a Nuuk, la capitale della Groenlandia, si intona già a gran voce la parola “Greenxit”.

 

Queste dinamiche indipendentiste hanno avuto un’involuzione lo scorso aprile, quando in seguito alle elezioni tenutesi nell’isola è salita al potere una coalizione formata da quattro partiti, appartenenti agli schieramenti tra i più disparati, che come programma di governo propugna il distacco da Copenaghen.

 

Tuttavia oltre ai meri proclami propagandistici, il nuovo governo ha anche iniziato a farsi i conti in tasca. Non è un segreto infatti che la Groenlandia da sola non durerebbe un mese non avendo di fatto un’economia capace di sostenere una macchina statale indipendente. Ogni anno ammontano a circa 500 milioni di euro i finanziamenti di Copenaghen per il mantenimento dell’isola artica. Ed è proprio parlando di soldi che le risorse naturali di cui è ricca l’isola, ma per cui non ha i mezzi per lo sfruttamento, entrano in gioco.

 

La proposta del nuovo esecutivo è stata quella di dare il via alle trivellazioni e allo sfruttamento derivante dalle concessioni delle risorse naturali in modo tale da finanziare la struttura statale della Groenlandia. Dai calcoli fatti basterebbe concedere l’utilizzo della miniera del Kvanefjeld, la più grande miniera di uranio e terre rare esistente sul nostro pianeta, per ripagare abbondantemente tutti i sussidi che i danesi concedono annualmente.

 

Questo fatto di per sé può farci capire quanto valore abbiano questi elementi tanto sconosciuti eppure tanto importanti. In passato si è rimandato a lungo l’inizio dello sfruttamento prettamente per ragioni politiche. Infatti, per una di quelle rare coincidenze che solo la geopolitica ci concede, l’interezza delle concessioni groenlandesi è in mano a Pechino.

 

Per quanto i passati governi abbiano resistito alla tentazione di dare in mano al dragone asiatico il controllo di queste risorse strategiche, più per pressioni esterne (leggere Washington) che per una mancanza di volontà propria, con l’attuale governo le cose non sono più così. Prova ne sia che la Shenghe Resources Holding Ltd, la compagnia che dovrebbe occuparsi delle trivellazioni, ha dichiarato di essere pronta ad aprire i primi cantieri nel freddo nord.

 

Le influenze sulla Groenlandia vanno inquadrate nell’ottica più ampia dell’intera strategia artica cinese. Questa si basa su una debolezza intrinseca di Pechino, ovvero la mancanza di un affaccio verso l’Artico per la propria posizione geografica. Proprio per questo motivo i cinesi si stanno muovendo molto rapidamente per avere un porto sicuro su cui far transitare merci e in generale una testa di ponte per importanti imprese future.

 

Anche il famoso passaggio a Nord-Ovest sta diventando sempre più una priorità per la Cina, essendo esso una grande scorciatoia per le rotte dirette verso gli Stati Uniti. Unendo tutti questi fattori, la Groenlandia risulta essere il bersaglio più appetibile e più facile per raggiungere tutti quegli obiettivi che permetterebbero a Pechino non solo di garantirsi il “monopolio del monopolio” per quanto riguarda l’estrazione delle terre rare a livello mondiale ma anche di minacciare seriamente la posizione artica dei suoi competitor, come gli Stati Uniti, ed anche dei suoi alleati, quali la Russia.

 

Tuttavia, nonostante gli Inuit desiderino più di ogni altra cosa essere padroni del proprio destino al di fuori del raggio d’azione di Copenaghen, farsi avvolgere completamente dall’abbraccio di Pechino non convince tutti. La motivazione principale è la mancanza di forza lavoro sull’isola, la quale conta a mala pena 53 mila abitanti, con una densità di popolazione di circa 0,03 ab/km2. Lo stato meno densamente popoloso al mondo per intenderci.

 

Quindi, qualora le lavorazioni sulle risorse naturali dovessero realmente iniziare, è già stata annunciata dalle società d’estrazione che tutto il personale lavorativo sarà cinese, e non si sta parlando di poche decine di persone. Già questo fenomeno prenderà il via quando verranno avviati i lavori per i 3 appalti vinti da Pechino per degli aeroporti ed una stazione “scientifica” sul suolo groenlandese, ma potrebbe aumentare esponenzialmente qualora lo sfruttamento delle risorse prenda il via in maniera sistematica.

 

Nonostante gli Inuit siano molto titubanti nel vedere il proprio tessuto sociale completamente sconvolto da questo fenomeno migratorio, sono anche perfettamente consci che senza finanziamenti esteri e senza i proventi del proprio patrimonio geologico difficilmente riusciranno a staccarsi dal governo danese come ormai da svariati decenni sognano.

 

Tutti questi eventi non hanno fatto che adirare le cancellerie estere, Copenaghen e Washington in primis. La prima vedendosi sfuggire da sotto il naso un potenziale forziere del tesoro e la seconda vedendo seriamente compromessa la propria influenza sull’Artico. Di riflesso anche la NATO non vede di buon occhio la cosa, ospitando sul suolo della Groenlandia la base di Thule, la quale è dotata di un sistema radar per la difesa antimissile.

 

Gli Stati Uniti vedrebbero realizzarsi i propri incubi peggiori se la Groenlandia cadesse sotto l’influenza di Pechino, avendo esponenti del governo di Nuuk dichiarato che non solo vi è l’intenzione di abbandonare Copenaghen nel giro di un paio d’anni, ma vi è anche quella ben più risonante a livello internazionale di abbandonare la NATO. E questo è un precedente che l’Alleanza Atlantica non può permettere di avere. Ne andrebbe della sua stessa esistenza.

 

In conclusione, la Groenlandia sta toccando con mano ciò che ha sognato da decenni, ovvero l’indipendenza dal governo danese per diventare finalmente un’entità politica a sé stante in grado di determinare con le proprie mani il proprio futuro.

 

Il popolo Inuit però deve stare attento che prezzo è disposto a pagare per questo importante obiettivo. Infatti il rancore nei confronti di Copenaghen per il suo comportamento da padrone verso gli Inuit non deve generare scelte affrettate e prive di senno. Accettando di avviare questo rapporto commerciale-politico con Pechino il governo di Nuuk deve essere conscio che non ci sarà più modo di invertire la rotta.

 

Tuttavia, nonostante le preoccupazioni del tutto fondate a livello internazionale, sembra che l’isola artica abbia già deciso da tempo cosa fare. Basti pensare che è già stata aperta un’ambasciata della Groenlandia a Pechino. E con questa ulteriore vittoria sul piano internazionale, la Cina non solo si assicurerà negli anni a venire una testa di ponte nell’Artico ma anche il monopolio globale degli elementi delle terre rare.

 

Unendo le miniere sul proprio suolo a quelle della Groenlandia, dell’Africa (che controllano indirettamente) e dell’Afghanistan (i cui diritti di sfruttamento sono in negoziazione a scapito di Washington che ormai è visto solo come un invasore), se in futuro vorremo comprare un telefono cellulare dovremo chiedere permesso a Pechino.

 

Insomma, gli Inuit forse non lo sanno, ma hanno nelle mani il destino del mondo intero.



 

 

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