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N. 36 - Dicembre 2010 (LXVII)

LA GRANDE GUERRA SUL FRONTE ITALIANO
STORIE DISTORTE E DIMENTICATE

di Marco Siddi

 

Nonostante siano trascorsi oltre novant'anni dal termine della Grande Guerra, in Italia la memoria collettiva del conflitto risulta ancora fortemente influenzata da argomentazioni di stampo nazionalistico.

 

Non è infrequente che testi scolastici mutuino in modo acritico termini tipici della propaganda dannunziana, come il concetto di “vittoria mutilata”, o che presentino come principale o unica motivazione dell'entrata in guerra dell'Italia il desiderio di “liberare” Trento e Trieste dal dominio austriaco. Senza dubbio, la retorica nazionalista degli storici italiani negli anni della dittatura fascista, che dominò in modo pressoché esclusivo il dibattito storico in Italia nei due decenni dopo il primo conflitto mondiale, contribuì enormemente a creare una memoria distorta delle motivazioni e del corso della guerra sul fronte italiano.

 

Tuttavia, a più di sessantacinque anni dalla caduta del fascismo, sarebbe d'obbligo rianalizzare oggettivamente la realtà storica per trasmetterne una conoscenza priva di condizionamenti nazionalistici alle nuove generazioni. A questo proposito, risulta utile analizzare alcune problematiche che spesso trovano poco o nessuno spazio nei testi di storia liceali e persino universitari.

 

Partiamo dalla sopra citata problematica delle motivazioni che spinsero l'Italia ad entrare in guerra. Se lo scopo principale del governo Salandra fosse stato quello di liberare Trento e Trieste dal dominio asburgico, sarebbe stato sufficiente accettare l'offerta diplomatica austriaca del 27 marzo 1915, che offriva la cessione del Trentino (senza l'Alto Adige, dove gli italiani non erano che un'insignificante minoranza), un avanzamento del confine italiano fino all'Isonzo, la trasformazione di Trieste in città autonoma e persino la cessione dello strategico porto albanese di Valona all'Italia, qualora quest'ultima fosse rimasta neutrale.

 

Tale sistemazione territoriale avrebbe permesso di integrare nel Regno la stragrande maggioranza dei 650.000 italiani che allora vivevano al di fuori dei suoi confini nord-orientali, evitando la partecipazione ad un sanguinoso conflitto mondiale che, al momento dell'offerta diplomatica austriaca, si era già trasformato in guerra d'attrito e di trincea e sarebbe poi costato all'Italia 689.000 caduti. La proposta austriaca avrebbe inoltre permesso di mantenere Trieste, allora florida città in costante crescita e principale porto asburgico, all'interno di un contesto economico in cui tanti degli stessi abitanti italiani avevano fatto fortuna, senza recidere i preziosi legami con il naturale entroterra austroungarico. Tuttavia, il ministro degli esteri Sidney Sonnino rifiutò l'offerta austriaca, ritenendola “incerta e inadeguata”. Il 26 aprile 1915, un mese dopo la manovra diplomatica austriaca, l'Italia firmo il trattato di Londra con le potenze della Triplice Intesa.

 

L'accordo rivela chiare mire espansionistiche, che andavano ben oltre l'annessione delle “terre irredente”. In caso di vittoria, all'Italia sarebbero spettati non solo Trento e Trieste, ma anche tutto il Sud Tirolo, l'Istria, gran parte della costa dalmata (con Zara e Dubrovnik e quasi tutte le principali isole), il porto di Valona, le isole del Dodecaneso nell'Egeo e, in seguito allo smembramento dell'Impero Ottomano al termine del conflitto, una sfera di influenza nell'Asia Minore. Le aree promesse all'Italia dal trattato di Londra erano abitate da circa 250.000 individui di madrelingua tedesca e 750.000 sloveni e croati, a cui vanno aggiunte le popolazioni albanesi, turche e greche che si sarebbero ritrovate sotto il controllo diretto o indiretto di Roma nell'area di Valona, nel Dodecaneso e nell'Asia Minore. Anche l'allora tanto discussa “vittoria mutilata”, in particolare col trattato italo-jugoslavo di Rapallo del novembre 1920, assegnava all'Italia una generosa frontiera con un'ampia “zona cuscinetto” oltre le Alpi Giuliane e il Carso, l'Istria, Zara e numerose isole dalmate; Fiume divenne città-stato indipendente fino alla sua annessione all'Italia fascista nel 1924. In totale, le nuove province italiane comprendevano circa 300.000 sloveni, 200.000 croati, 250.000 sudtirolesi di madrelingua tedesca e 650.000 italiani.

 

Se la natura imperialista delle ambizioni italiane viene spesso messa in secondo piano, altre problematiche di grande rilevanza storica vengono completamente ignorate da numerosi testi di storia e nella memoria collettiva della Grande Guerra. Tra tali problematiche vi sono, per esempio, la giustizia sommaria nell'esercito di Cadorna e la spinosa questione della distribuzione dei generi di prima necessità ai prigionieri di guerra italiani nell'impero austro-ungarico.

 

La giustizia sommaria nell'esercito italiano fu molto più cruenta che negli eserciti alleati. 729 delle 4.028 sentenze capitali comminate dalle corti marziali italiane durante la guerra furono eseguite, mentre il numero di esecuzioni sommarie è stimato nell'ordine delle migliaia. Nell'esercito francese, che mobilitò il doppio dei soldati dell'esercito italiano, circa 600 condanne a morte furono eseguite, mentre le esecuzioni sommarie furono estremamente rare.

 

Il raffronto è ancora più inquietante se si prende in considerazione il fatto che nell'esercito italiano non ci furono ammutinamenti di massa come quelli che caratterizzarono l'esercito francese nella primavera del 1917. Dei 30.000 soldati francesi che deposero le armi in questo periodo, 49 furono giustiziati, mentre l'esercito italiano eseguì 54 pene capitali nel solo mese di maggio 1917. L'alto numero di esecuzioni tra le file italiane è da attribuire in primo luogo alle severissime direttive diramate dal Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna. Già nel settembre 1915 Cadorna impose ai comandanti sul campo di applicare la massima severità e criticò la riluttanza delle corti marziali nel comminare sentenze capitali. Nel corso della guerra le misure repressive si intensificarono.

 

In seguito all'offensiva austro-tedesca sull'altopiano d'Asiago nella primavera del 1916, in alcune unità si diffuse la pratica della decimazione, che consisteva nel giustiziare un soldato su dieci in un'unità che si ammutinava. Poiché i nomi dei soldati da giustiziare venivano estratti a caso, l'uccisione di innocenti era praticamente certa. La decimazione non era contemplata nel codice penale militare italiano, ma fu autorizzata da Cadorna nel novembre 1916 e divenne il terribile emblema della giustizia militare italiana nel primo conflitto mondiale. In un'ulteriore violazione del codice penale militare, Cadorna estese i termini entro i quali poteva essere comminata la pena di morte per diserzione. Secondo il codice, la pena capitale era applicabile a soldati che rimanevano assenti dalle proprie unità per più di cinque giorni senza autorizzazione; nell'aprile 1917 il periodo di grazia fu ridotto a tre giorni e nell'agosto dello stesso anno a sole 24 ore. Tuttavia, a rischiare la vita dinanzi alla giustizia sommaria dell'esercito italiano non erano solamente i disertori, ma anche coloro che si macchiavano di reati minori. In alcune brigate, tali reati venivano puniti legando i responsabili in modo che essi fossero esposti al fuoco proveniente dalle posizioni nemiche – “per risparmiare proiettili”, come spiegò il generale Carignani, comandate del settimo corpo d'armata. Il fine ultimo di tanta brutalità era quello di terrorizzare i soldati al punto tale che obbedire fosse l'unica opzione contemplabile.

 

Persino opinioni e critiche espresse dai soldati nella corrispondenza privata potevano portare a conseguenze drastiche. Mentre in altri Paesi belligeranti la censura delle lettere dal fronte mirava a tastare il morale delle truppe, in Italia il suo unico scopo era quello di reprimere ogni forma di dissenso. Semplici lamentele relative al rancio o al comportamento di un ufficiale potevano essere punite con 6 o addirittura 12 mesi di carcere. I risultati di queste misure draconiane furono però scarsi. Il numero dei disertori triplicò tra l'aprile e l'agosto del 1917; nell'arco dei tre anni e mezzo di guerra 101.685 casi di diserzione vennero accertati, a fronte dei circa 38.000 nell'esercito inglese e dei 140.000 nell'esercito tedesco, che però mobilitò il triplo degli uomini.

 

La maggioranza dei disertori italiani tentò di sfuggire ai tribunali militari nascondendosi all'interno del Paese. Tuttavia, anche i casi di diserzione al fronte furono numerosi. Probabilmente, molti di coloro che disertarono al fronte avrebbero esitato prima di abbandonare le proprie linee se avessero saputo che le condizioni di vita durante la prigionia in Austria e in Germania erano peggiori che nell'esercito italiano. Durante il conflitto, 600.000 soldati italiani furono catturati dalle forze asburgiche; più di 100.000 morirono in cattività, la maggior parte per le conseguenze del freddo e della fame. Nonostante l'entità della tragedia, gli storici hanno cominciato ad interessarsi alle sorti dei prigionieri di guerra italiani durante la Grande Guerra solo di recente, durante gli ultimi 15-20 anni.

 

I risultati degli studi finora compiuti mettono in evidenza un'altra pagina oscura delle politiche italiane durante il conflitto. L'alto tasso di mortalità dei prigionieri italiani, ben nove volte superiore a quello dei prigionieri austroungarici in Italia, è da attribuire in primo luogo alla decisione del governo italiano di non inviare loro cibarie e altri generi di prima necessità. Per Francia e Inghilterra l'invio di tali merci ai soldati detenuti nei campi di prigionia austrotedeschi era divenuto normale pratica dalla fine del 1914, quando gli Imperi Centrali, in risposta al blocco economico imposto dalla Triplice Intesa, avevano annunciato che avrebbero declinato qualsiasi responsabilità per l'approviggionamento dei prigionieri di guerra. Temendo diserzioni di massa, il governo italiano trattò i prigionieri di guerra italiani negli Imperi Centrali come traditori e codardi. Alla Croce Rossa fu consentito di inviare pacchi con generi di prima necessità solamente agli ufficiali.

 

Gli altri prigionieri, ovvero la stragrande maggioranza, dovettero fare affidamento sui pacchi che ricevevano dalle rispettive famiglie. Tuttavia, questo sostegno si rivelò del tutto insufficiente: a causa della povertà che imperversava sul fronte interno italiano, pochi pacchi furono spediti e ancor meno raggiunsero i loro destinatari. I disastrosi effetti della politica di Roma nei confronti dei soldati italiani in cattività divennero particolarmente evidenti dopo la rovinosa sconfitta di Caporetto, quando 300.000 nuovi prigionieri di guerra affollarono i campi in Austria e in Germania. Decine di migliaia di prigionieri morirono nell'inverno 1917-1918. La Croce Rossa si appellò ancora una volta al governo italiano, che però autorizzò la spedizione di una modesta quantità di generi di prima necessità solo durante l'estate successiva. Essi raggiunsero i campi di prigionia solo nel novembre del 1918, a guerra ormai conclusa.

 

Alla luce di queste considerazioni, è desolante constatare come alcune recenti pubblicazioni siano impregnate di argomentazioni di stampo nazionalistico e ignorino problematiche come quelle sopra citate. Di recente, per esempio, lo storico Maurizio Serra ha sostenuto in una nota pubblicazione storica che “la Grande Guerra fu vinta dal popolo italiano, al fronte e nelle retrovie, malgrado i ritardi, specialmente sino a Caporetto, della sua classe dirigente e dell'alto comando”. In realtà, la stragrande maggioranza del popolo italiano subì passivamente la decisione di partecipare ad un conflitto disastroso, che fu presa da una ristrettissima cerchia di persone comprendente il primo ministro Antonio Salandra, il ministro degli esteri Sidney Sonnino e re Vittorio Emanuele III.

 

Nonostante le pressioni degli interventisti, l'Italia sarebbe probabilmente rimasta neutrale senza le macchinazioni di palazzo di questa triade. Inoltre, la stessa affermazione che il popolo italiano vinse la guerra risulta semplicistica, in particolare se si considera il costo umano e materiale del conflitto, la successiva crisi economica e sociale e i venti anni di dittatura a cui tale crisi spianò la strada. E' senza dubbio molto più proficuo, ai fini della ricerca storica, esaminare i ritardi della classe dirigente e dell'alto comando italiano, anziché liquidarli con un “malgrado”.

 

Tra i numerosi ritardi italiani nella Grande Guerra, quello che probabilmente ebbe maggior peso sullo sviluppo del conflitto fu l'assenza di un piano militare offensivo allo scoppio delle ostilità. Nonostante l'Italia avesse promesso già il 26 aprile 1915 di entrare in guerra contro l'Austria entro trenta giorni, i preparativi per il conflitto cominciarono solamente dopo metà maggio. La mobilitazione totale dell'esercito cominciò il 22 maggio e, secondo i piani, doveva essere completata entro ventitré giorni; in realtà, i preparativi terminarono solo a metà luglio. Il 24 maggio, ovvero il giorno dopo la dichiarazione di guerra italiana, gli austriaci avevano solo 50.000-70.000 uomini sul fronte italiano.

 

Gli alti ufficiali dell'esercito asburgico si aspettavano un vigoroso attacco verso l'Austria attraverso la Val Pusteria. Secondo il comandante del corpo di spedizione alpino tedesco, l'iniziale superiorità degli italiani era così schiacciante che essi avrebbero potuto sfondare le sottili linee austriache ovunque. Nel primo mese di guerra, nonostante gli austriaci avessero fatto affluire truppe da altri fronti, le forze italiane godevano di una superiorità complessiva di 4 a 1. Tuttavia, l'esercito italiano era troppo impreparato, le sue truppe inutilmente disperse lungo il fronte e il suo alto comando confuso dalle false informazioni diffuse dai servizi segreti asburgici relativamente all'effettiva consistenza delle forze austriache. Di conseguenza, l'offensiva non si materializzò.

 

La quarta armata italiana, a cui era stato assegnato il compito di avanzare verso Trento e l'alto Adige, occupò Cortina solo cinque giorni dopo che gli austriaci l'avevano evacuata, dopodichè sospese inspiegabilmente l'offensiva, consentendo al nemico di trincerarsi dietro una solida linea difensiva poco più a nord. Sul basso Isonzo, le esitazioni dell'alto comando e degli ufficiali della terza armata consentirono agli austriaci di far saltare i ponti sul fiume e di inondarne la piana nei pressi della foce. La città di Monfalcone, il primo obiettivo dell'offensiva della terza armata su Trieste, fu occupata il 9 giugno. Tuttavia, le perdite furono notevoli e gli austriaci rimasero trincerati sulle colline intorno alla città fino all'agosto dell'anno successivo. In seguito, essi si ritirarono sul Carso, che costituì un ostacolo insormontabile per le forze italiane che avrebbero dovuto prendere Trieste. Il ritardo nell'offensiva verso Gorizia fu ancora più grave. Le autorità civili austriache abbandonarono la città il 25 maggio 1915, ma l'esercito italiano non ebbe la prontezza di occuparla subito. Due giorni dopo la 58esima divisione austriaca entrò a Gorizia.

 

La città, insieme alle colline circostanti, furono difese strenuamente fino all'agosto del 1916, quando l'esercito italiano la occupò con ingentissime perdite al termine della sesta battaglia dell'Isonzo.

 

Anche la storia della vittoria militare finale italiana è in realtà meno gloriosa di come fu descritta allora dall'alto comando e successivamente da numerosi storici. La memoria della vittoria finale è legata in particolare alle battaglie difensive sul Piave e alla controffensiva di fine ottobre 1918. La difesa della linea del Piave fu il principale successo dell'esercito italiano durante il conflitto. Al generale Armando Diaz va senza dubbio attribuito il merito di aver ricostituito in breve tempo, materialmente e moralmente, un esercito duramente provato dalla disastrosa sconfitta di Caporetto. La riorganizzazione di 25 divisioni di fanteria e 30 regimenti di artiglieria consentirono di mantenere la linea del Piave nel novembre 1917, a sole due settimane dal crollo del fronte sull'Isonzo.

 

Tuttavia, bisogna riconoscere che l'offensiva austro-tedesca si fiaccò anche perchè gli Imperi Centrali non avevano previsto un simile crollo dell'esercito italiano e non erano logisticamente pronti a sostenere una lunga offensiva. L'obiettivo della loro offensiva di fine ottobre 1917 era quello di prevenire un altro attacco italiano sull'Isonzo e avanzare fino al fiume Tagliamento, ben più ad est del Piave, accorciando e rendendo più difendibile il fronte austriaco. Si trattava dunque di una mossa strategica che non ambiva a costringere l'Italia alla resa.

 

A dimostrazione di questo, già nella seconda metà di novembre del 1917 i tedeschi trasferirono truppe ed artiglieria sul fronte francese, anziché sostenere l'offensiva contro la linea del Piave. Mentre i tedeschi lasciavano soli i loro alleati asburgici sul fronte italiano, il general Diaz riceveva il sostegno di 130.000 soldati francesi e di 110.000 soldati britannici, oltre ad un' ingente quantità di munizioni, viveri e carbone.

 

L'esercito asburgico, privo di supporto materiale esterno, venne danneggiato anche dagli effetti del blocco economico alleato e dal drastico declino della produzione industriale interna dall'inizio del 1918. Ciononostante, nell'estate del 1918 l'iniziativa rimase nelle mani degli austriaci, che a giugno tentarono un'ultima offensiva sul Piave, senza però ottenere risultati. Tra il luglio e l'ottobre del 1918, il numero delle truppe asburgiche sul fronte italiano si ridusse da 650.000 a 400.000 a causa di diserzioni ed epidemie.

 

Queste erano le condizioni dell'esercito che venne messo in rotta dalle offensive italiane nell'ultima settimana di guerra. In questa fase, l'esito del conflitto era ormai segnato, poiché la sconfitta della Germania, dalle cui sorti militari dipendeva anche l'impero austro-ungarico, era ormai certa. Un rapido sguardo agli eventi sugli altri fronti rivela l'ormai disperata situazione degli Imperi Centrali al momento d'inizio dell'offensiva italiana. Dall' 8 agosto 1918, in seguito alla battaglia di Amiens, l'iniziativa sul fronte occidentale era passata definitivamente in mani alleate. A metà settembre, gli alleati superarono la linea difensiva tedesca Hindenburg e a fine mese la Bulgaria si arrese, lasciando gli Imperi Centrali vulnerabili ad attacchi alleati dai Balcani. All'inizio del mese di ottobre ci furono le prime aperture austrotedesche in vista di negoziati di pace.

 

L'offensiva italiana di fine ottobre 1918 ebbe luogo proprio perchè la sconfitta degli Imperi Centrali era imminente e l'Italia rischiava di arrivare al tavolo della pace con l'esercito schierato all'interno dei confini pre-bellici, il che avrebbe reso ancora più difficile insistere sull'applicazione delle clausole territoriali del Trattato di Londra.

 

Diaz aveva respinto la richiesta del comandante interalleato Foch di attaccare sul fronte asburgico in agosto e riteneva che una seria offensiva italiana non sarebbe stata possibile prima della primavera del 1919. Tuttavia, il corso degli eventi a settembre e inizio ottobre 1918 convinse sia il primo ministro Vittorio Orlando sia Diaz che un'immediata offensiva italiana era assolutamente necessaria sul piano politico. A rendere le potenziali conseguenze negative di un'ulteriore passività italiana ancora più gravi per il prestigio e le ambizioni di Roma, il 19 ottobre 1918 l'Austria cominciò a preparare una proposta di pace basata su un ritiro unilaterale dalle province italiane. Inoltre, due giorni dopo il presidente americano Woodrow Wilson annunciò il suo sostegno all'indipendenza dei popoli slavi dell'impero austro-ungarico, il che era in aperto contrasto con le ambizioni territoriali italiane.

 

Tra il 23 e il 24 ottobre cominciò l'offensiva italiana. A fare le spese dell'improvvisazione che la caratterizzò furono soprattutto le truppe che attaccarono per prime, sul monte Grappa. Esse persero 25.000 uomini in poche ore senza conquistare alcuna posizione strategica e ripetendo gli stessi errori che l'esercito aveva commesso sin dalle prime offensive di Cadorna nel 1915, quali disperdere truppe e attaccare senza un'adeguata conoscenza del territorio.

 

L'offensiva lanciata più a sud, sul Piave, determinò l'esito della battaglia, anche per via dello stato di disfacimento dell'esercito asburgico.

 

Tra il 27 e il 29 ottobre l'esercito italiano mise in rotta i resti dell'esercito nemico. Il 4 novembre, al momento in cui entrò in vigore l'armistizio tra i due schieramenti, le avanguardie italiane erano entrate a Udine, Trento e Gorizia, ma erano ancora lontane da Trieste e dal Brennero.

 

Quasi tutte le “terre irredente” per cui l'Italia era entrata in guerra furono occupate dopo il termine del conflitto.


 

 

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