N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
LA GRANDE GUERRA SUL FRONTE ITALIANO
STORIE DISTORTE E DIMENTICATE
di Marco Siddi
Nonostante
siano
trascorsi
oltre
novant'anni
dal
termine
della
Grande
Guerra,
in
Italia
la
memoria
collettiva
del
conflitto
risulta
ancora
fortemente
influenzata
da
argomentazioni
di
stampo
nazionalistico.
Non
è
infrequente
che
testi
scolastici
mutuino
in
modo
acritico
termini
tipici
della
propaganda
dannunziana,
come
il
concetto
di
“vittoria
mutilata”,
o
che
presentino
come
principale
o
unica
motivazione
dell'entrata
in
guerra
dell'Italia
il
desiderio
di
“liberare”
Trento
e
Trieste
dal
dominio
austriaco.
Senza
dubbio,
la
retorica
nazionalista
degli
storici
italiani
negli
anni
della
dittatura
fascista,
che
dominò
in
modo
pressoché
esclusivo
il
dibattito
storico
in
Italia
nei
due
decenni
dopo
il
primo
conflitto
mondiale,
contribuì
enormemente
a
creare
una
memoria
distorta
delle
motivazioni
e
del
corso
della
guerra
sul
fronte
italiano.
Tuttavia,
a
più
di
sessantacinque
anni
dalla
caduta
del
fascismo,
sarebbe
d'obbligo
rianalizzare
oggettivamente
la
realtà
storica
per
trasmetterne
una
conoscenza
priva
di
condizionamenti
nazionalistici
alle
nuove
generazioni.
A
questo
proposito,
risulta
utile
analizzare
alcune
problematiche
che
spesso
trovano
poco
o
nessuno
spazio
nei
testi
di
storia
liceali
e
persino
universitari.
Partiamo
dalla
sopra
citata
problematica
delle
motivazioni
che
spinsero
l'Italia
ad
entrare
in
guerra.
Se
lo
scopo
principale
del
governo
Salandra
fosse
stato
quello
di
liberare
Trento
e
Trieste
dal
dominio
asburgico,
sarebbe
stato
sufficiente
accettare
l'offerta
diplomatica
austriaca
del
27
marzo
1915,
che
offriva
la
cessione
del
Trentino
(senza
l'Alto
Adige,
dove
gli
italiani
non
erano
che
un'insignificante
minoranza),
un
avanzamento
del
confine
italiano
fino
all'Isonzo,
la
trasformazione
di
Trieste
in
città
autonoma
e
persino
la
cessione
dello
strategico
porto
albanese
di
Valona
all'Italia,
qualora
quest'ultima
fosse
rimasta
neutrale.
Tale
sistemazione
territoriale
avrebbe
permesso
di
integrare
nel
Regno
la
stragrande
maggioranza
dei
650.000
italiani
che
allora
vivevano
al
di
fuori
dei
suoi
confini
nord-orientali,
evitando
la
partecipazione
ad
un
sanguinoso
conflitto
mondiale
che,
al
momento
dell'offerta
diplomatica
austriaca,
si
era
già
trasformato
in
guerra
d'attrito
e di
trincea
e
sarebbe
poi
costato
all'Italia
689.000
caduti.
La
proposta
austriaca
avrebbe
inoltre
permesso
di
mantenere
Trieste,
allora
florida
città
in
costante
crescita
e
principale
porto
asburgico,
all'interno
di
un
contesto
economico
in
cui
tanti
degli
stessi
abitanti
italiani
avevano
fatto
fortuna,
senza
recidere
i
preziosi
legami
con
il
naturale
entroterra
austroungarico.
Tuttavia,
il
ministro
degli
esteri
Sidney
Sonnino
rifiutò
l'offerta
austriaca,
ritenendola
“incerta
e
inadeguata”.
Il
26
aprile
1915,
un
mese
dopo
la
manovra
diplomatica
austriaca,
l'Italia
firmo
il
trattato
di
Londra
con
le
potenze
della
Triplice
Intesa.
L'accordo
rivela
chiare
mire
espansionistiche,
che
andavano
ben
oltre
l'annessione
delle
“terre
irredente”.
In
caso
di
vittoria,
all'Italia
sarebbero
spettati
non
solo
Trento
e
Trieste,
ma
anche
tutto
il
Sud
Tirolo,
l'Istria,
gran
parte
della
costa
dalmata
(con
Zara
e
Dubrovnik
e
quasi
tutte
le
principali
isole),
il
porto
di
Valona,
le
isole
del
Dodecaneso
nell'Egeo
e,
in
seguito
allo
smembramento
dell'Impero
Ottomano
al
termine
del
conflitto,
una
sfera
di
influenza
nell'Asia
Minore.
Le
aree
promesse
all'Italia
dal
trattato
di
Londra
erano
abitate
da
circa
250.000
individui
di
madrelingua
tedesca
e
750.000
sloveni
e
croati,
a
cui
vanno
aggiunte
le
popolazioni
albanesi,
turche
e
greche
che
si
sarebbero
ritrovate
sotto
il
controllo
diretto
o
indiretto
di
Roma
nell'area
di
Valona,
nel
Dodecaneso
e
nell'Asia
Minore.
Anche
l'allora
tanto
discussa
“vittoria
mutilata”,
in
particolare
col
trattato
italo-jugoslavo
di
Rapallo
del
novembre
1920,
assegnava
all'Italia
una
generosa
frontiera
con
un'ampia
“zona
cuscinetto”
oltre
le
Alpi
Giuliane
e il
Carso,
l'Istria,
Zara
e
numerose
isole
dalmate;
Fiume
divenne
città-stato
indipendente
fino
alla
sua
annessione
all'Italia
fascista
nel
1924.
In
totale,
le
nuove
province
italiane
comprendevano
circa
300.000
sloveni,
200.000
croati,
250.000
sudtirolesi
di
madrelingua
tedesca
e
650.000
italiani.
Se
la
natura
imperialista
delle
ambizioni
italiane
viene
spesso
messa
in
secondo
piano,
altre
problematiche
di
grande
rilevanza
storica
vengono
completamente
ignorate
da
numerosi
testi
di
storia
e
nella
memoria
collettiva
della
Grande
Guerra.
Tra
tali
problematiche
vi
sono,
per
esempio,
la
giustizia
sommaria
nell'esercito
di
Cadorna
e la
spinosa
questione
della
distribuzione
dei
generi
di
prima
necessità
ai
prigionieri
di
guerra
italiani
nell'impero
austro-ungarico.
La
giustizia
sommaria
nell'esercito
italiano
fu
molto
più
cruenta
che
negli
eserciti
alleati.
729
delle
4.028
sentenze
capitali
comminate
dalle
corti
marziali
italiane
durante
la
guerra
furono
eseguite,
mentre
il
numero
di
esecuzioni
sommarie
è
stimato
nell'ordine
delle
migliaia.
Nell'esercito
francese,
che
mobilitò
il
doppio
dei
soldati
dell'esercito
italiano,
circa
600
condanne
a
morte
furono
eseguite,
mentre
le
esecuzioni
sommarie
furono
estremamente
rare.
Il
raffronto
è
ancora
più
inquietante
se
si
prende
in
considerazione
il
fatto
che
nell'esercito
italiano
non
ci
furono
ammutinamenti
di
massa
come
quelli
che
caratterizzarono
l'esercito
francese
nella
primavera
del
1917.
Dei
30.000
soldati
francesi
che
deposero
le
armi
in
questo
periodo,
49
furono
giustiziati,
mentre
l'esercito
italiano
eseguì
54
pene
capitali
nel
solo
mese
di
maggio
1917.
L'alto
numero
di
esecuzioni
tra
le
file
italiane
è da
attribuire
in
primo
luogo
alle
severissime
direttive
diramate
dal
Capo
di
Stato
Maggiore
generale
Luigi
Cadorna.
Già
nel
settembre
1915
Cadorna
impose
ai
comandanti
sul
campo
di
applicare
la
massima
severità
e
criticò
la
riluttanza
delle
corti
marziali
nel
comminare
sentenze
capitali.
Nel
corso
della
guerra
le
misure
repressive
si
intensificarono.
In
seguito
all'offensiva
austro-tedesca
sull'altopiano
d'Asiago
nella
primavera
del
1916,
in
alcune
unità
si
diffuse
la
pratica
della
decimazione,
che
consisteva
nel
giustiziare
un
soldato
su
dieci
in
un'unità
che
si
ammutinava.
Poiché
i
nomi
dei
soldati
da
giustiziare
venivano
estratti
a
caso,
l'uccisione
di
innocenti
era
praticamente
certa.
La
decimazione
non
era
contemplata
nel
codice
penale
militare
italiano,
ma
fu
autorizzata
da
Cadorna
nel
novembre
1916
e
divenne
il
terribile
emblema
della
giustizia
militare
italiana
nel
primo
conflitto
mondiale.
In
un'ulteriore
violazione
del
codice
penale
militare,
Cadorna
estese
i
termini
entro
i
quali
poteva
essere
comminata
la
pena
di
morte
per
diserzione.
Secondo
il
codice,
la
pena
capitale
era
applicabile
a
soldati
che
rimanevano
assenti
dalle
proprie
unità
per
più
di
cinque
giorni
senza
autorizzazione;
nell'aprile
1917
il
periodo
di
grazia
fu
ridotto
a
tre
giorni
e
nell'agosto
dello
stesso
anno
a
sole
24
ore.
Tuttavia,
a
rischiare
la
vita
dinanzi
alla
giustizia
sommaria
dell'esercito
italiano
non
erano
solamente
i
disertori,
ma
anche
coloro
che
si
macchiavano
di
reati
minori.
In
alcune
brigate,
tali
reati
venivano
puniti
legando
i
responsabili
in
modo
che
essi
fossero
esposti
al
fuoco
proveniente
dalle
posizioni
nemiche
–
“per
risparmiare
proiettili”,
come
spiegò
il
generale
Carignani,
comandate
del
settimo
corpo
d'armata.
Il
fine
ultimo
di
tanta
brutalità
era
quello
di
terrorizzare
i
soldati
al
punto
tale
che
obbedire
fosse
l'unica
opzione
contemplabile.
Persino
opinioni
e
critiche
espresse
dai
soldati
nella
corrispondenza
privata
potevano
portare
a
conseguenze
drastiche.
Mentre
in
altri
Paesi
belligeranti
la
censura
delle
lettere
dal
fronte
mirava
a
tastare
il
morale
delle
truppe,
in
Italia
il
suo
unico
scopo
era
quello
di
reprimere
ogni
forma
di
dissenso.
Semplici
lamentele
relative
al
rancio
o al
comportamento
di
un
ufficiale
potevano
essere
punite
con
6 o
addirittura
12
mesi
di
carcere.
I
risultati
di
queste
misure
draconiane
furono
però
scarsi.
Il
numero
dei
disertori
triplicò
tra
l'aprile
e
l'agosto
del
1917;
nell'arco
dei
tre
anni
e
mezzo
di
guerra
101.685
casi
di
diserzione
vennero
accertati,
a
fronte
dei
circa
38.000
nell'esercito
inglese
e
dei
140.000
nell'esercito
tedesco,
che
però
mobilitò
il
triplo
degli
uomini.
La
maggioranza
dei
disertori
italiani
tentò
di
sfuggire
ai
tribunali
militari
nascondendosi
all'interno
del
Paese.
Tuttavia,
anche
i
casi
di
diserzione
al
fronte
furono
numerosi.
Probabilmente,
molti
di
coloro
che
disertarono
al
fronte
avrebbero
esitato
prima
di
abbandonare
le
proprie
linee
se
avessero
saputo
che
le
condizioni
di
vita
durante
la
prigionia
in
Austria
e in
Germania
erano
peggiori
che
nell'esercito
italiano.
Durante
il
conflitto,
600.000
soldati
italiani
furono
catturati
dalle
forze
asburgiche;
più
di
100.000
morirono
in
cattività,
la
maggior
parte
per
le
conseguenze
del
freddo
e
della
fame.
Nonostante
l'entità
della
tragedia,
gli
storici
hanno
cominciato
ad
interessarsi
alle
sorti
dei
prigionieri
di
guerra
italiani
durante
la
Grande
Guerra
solo
di
recente,
durante
gli
ultimi
15-20
anni.
I
risultati
degli
studi
finora
compiuti
mettono
in
evidenza
un'altra
pagina
oscura
delle
politiche
italiane
durante
il
conflitto.
L'alto
tasso
di
mortalità
dei
prigionieri
italiani,
ben
nove
volte
superiore
a
quello
dei
prigionieri
austroungarici
in
Italia,
è da
attribuire
in
primo
luogo
alla
decisione
del
governo
italiano
di
non
inviare
loro
cibarie
e
altri
generi
di
prima
necessità.
Per
Francia
e
Inghilterra
l'invio
di
tali
merci
ai
soldati
detenuti
nei
campi
di
prigionia
austrotedeschi
era
divenuto
normale
pratica
dalla
fine
del
1914,
quando
gli
Imperi
Centrali,
in
risposta
al
blocco
economico
imposto
dalla
Triplice
Intesa,
avevano
annunciato
che
avrebbero
declinato
qualsiasi
responsabilità
per
l'approviggionamento
dei
prigionieri
di
guerra.
Temendo
diserzioni
di
massa,
il
governo
italiano
trattò
i
prigionieri
di
guerra
italiani
negli
Imperi
Centrali
come
traditori
e
codardi.
Alla
Croce
Rossa
fu
consentito
di
inviare
pacchi
con
generi
di
prima
necessità
solamente
agli
ufficiali.
Gli
altri
prigionieri,
ovvero
la
stragrande
maggioranza,
dovettero
fare
affidamento
sui
pacchi
che
ricevevano
dalle
rispettive
famiglie.
Tuttavia,
questo
sostegno
si
rivelò
del
tutto
insufficiente:
a
causa
della
povertà
che
imperversava
sul
fronte
interno
italiano,
pochi
pacchi
furono
spediti
e
ancor
meno
raggiunsero
i
loro
destinatari.
I
disastrosi
effetti
della
politica
di
Roma
nei
confronti
dei
soldati
italiani
in
cattività
divennero
particolarmente
evidenti
dopo
la
rovinosa
sconfitta
di
Caporetto,
quando
300.000
nuovi
prigionieri
di
guerra
affollarono
i
campi
in
Austria
e in
Germania.
Decine
di
migliaia
di
prigionieri
morirono
nell'inverno
1917-1918.
La
Croce
Rossa
si
appellò
ancora
una
volta
al
governo
italiano,
che
però
autorizzò
la
spedizione
di
una
modesta
quantità
di
generi
di
prima
necessità
solo
durante
l'estate
successiva.
Essi
raggiunsero
i
campi
di
prigionia
solo
nel
novembre
del
1918,
a
guerra
ormai
conclusa.
Alla
luce
di
queste
considerazioni,
è
desolante
constatare
come
alcune
recenti
pubblicazioni
siano
impregnate
di
argomentazioni
di
stampo
nazionalistico
e
ignorino
problematiche
come
quelle
sopra
citate.
Di
recente,
per
esempio,
lo
storico
Maurizio
Serra
ha
sostenuto
in
una
nota
pubblicazione
storica
che
“la
Grande
Guerra
fu
vinta
dal
popolo
italiano,
al
fronte
e
nelle
retrovie,
malgrado
i
ritardi,
specialmente
sino
a
Caporetto,
della
sua
classe
dirigente
e
dell'alto
comando”.
In
realtà,
la
stragrande
maggioranza
del
popolo
italiano
subì
passivamente
la
decisione
di
partecipare
ad
un
conflitto
disastroso,
che
fu
presa
da
una
ristrettissima
cerchia
di
persone
comprendente
il
primo
ministro
Antonio
Salandra,
il
ministro
degli
esteri
Sidney
Sonnino
e re
Vittorio
Emanuele
III.
Nonostante
le
pressioni
degli
interventisti,
l'Italia
sarebbe
probabilmente
rimasta
neutrale
senza
le
macchinazioni
di
palazzo
di
questa
triade.
Inoltre,
la
stessa
affermazione
che
il
popolo
italiano
vinse
la
guerra
risulta
semplicistica,
in
particolare
se
si
considera
il
costo
umano
e
materiale
del
conflitto,
la
successiva
crisi
economica
e
sociale
e i
venti
anni
di
dittatura
a
cui
tale
crisi
spianò
la
strada.
E'
senza
dubbio
molto
più
proficuo,
ai
fini
della
ricerca
storica,
esaminare
i
ritardi
della
classe
dirigente
e
dell'alto
comando
italiano,
anziché
liquidarli
con
un
“malgrado”.
Tra
i
numerosi
ritardi
italiani
nella
Grande
Guerra,
quello
che
probabilmente
ebbe
maggior
peso
sullo
sviluppo
del
conflitto
fu
l'assenza
di
un
piano
militare
offensivo
allo
scoppio
delle
ostilità.
Nonostante
l'Italia
avesse
promesso
già
il
26
aprile
1915
di
entrare
in
guerra
contro
l'Austria
entro
trenta
giorni,
i
preparativi
per
il
conflitto
cominciarono
solamente
dopo
metà
maggio.
La
mobilitazione
totale
dell'esercito
cominciò
il
22
maggio
e,
secondo
i
piani,
doveva
essere
completata
entro
ventitré
giorni;
in
realtà,
i
preparativi
terminarono
solo
a
metà
luglio.
Il
24
maggio,
ovvero
il
giorno
dopo
la
dichiarazione
di
guerra
italiana,
gli
austriaci
avevano
solo
50.000-70.000
uomini
sul
fronte
italiano.
Gli
alti
ufficiali
dell'esercito
asburgico
si
aspettavano
un
vigoroso
attacco
verso
l'Austria
attraverso
la
Val
Pusteria.
Secondo
il
comandante
del
corpo
di
spedizione
alpino
tedesco,
l'iniziale
superiorità
degli
italiani
era
così
schiacciante
che
essi
avrebbero
potuto
sfondare
le
sottili
linee
austriache
ovunque.
Nel
primo
mese
di
guerra,
nonostante
gli
austriaci
avessero
fatto
affluire
truppe
da
altri
fronti,
le
forze
italiane
godevano
di
una
superiorità
complessiva
di 4
a 1.
Tuttavia,
l'esercito
italiano
era
troppo
impreparato,
le
sue
truppe
inutilmente
disperse
lungo
il
fronte
e il
suo
alto
comando
confuso
dalle
false
informazioni
diffuse
dai
servizi
segreti
asburgici
relativamente
all'effettiva
consistenza
delle
forze
austriache.
Di
conseguenza,
l'offensiva
non
si
materializzò.
La
quarta
armata
italiana,
a
cui
era
stato
assegnato
il
compito
di
avanzare
verso
Trento
e
l'alto
Adige,
occupò
Cortina
solo
cinque
giorni
dopo
che
gli
austriaci
l'avevano
evacuata,
dopodichè
sospese
inspiegabilmente
l'offensiva,
consentendo
al
nemico
di
trincerarsi
dietro
una
solida
linea
difensiva
poco
più
a
nord.
Sul
basso
Isonzo,
le
esitazioni
dell'alto
comando
e
degli
ufficiali
della
terza
armata
consentirono
agli
austriaci
di
far
saltare
i
ponti
sul
fiume
e di
inondarne
la
piana
nei
pressi
della
foce.
La
città
di
Monfalcone,
il
primo
obiettivo
dell'offensiva
della
terza
armata
su
Trieste,
fu
occupata
il 9
giugno.
Tuttavia,
le
perdite
furono
notevoli
e
gli
austriaci
rimasero
trincerati
sulle
colline
intorno
alla
città
fino
all'agosto
dell'anno
successivo.
In
seguito,
essi
si
ritirarono
sul
Carso,
che
costituì
un
ostacolo
insormontabile
per
le
forze
italiane
che
avrebbero
dovuto
prendere
Trieste.
Il
ritardo
nell'offensiva
verso
Gorizia
fu
ancora
più
grave.
Le
autorità
civili
austriache
abbandonarono
la
città
il
25
maggio
1915,
ma
l'esercito
italiano
non
ebbe
la
prontezza
di
occuparla
subito.
Due
giorni
dopo
la
58esima
divisione
austriaca
entrò
a
Gorizia.
La
città,
insieme
alle
colline
circostanti,
furono
difese
strenuamente
fino
all'agosto
del
1916,
quando
l'esercito
italiano
la
occupò
con
ingentissime
perdite
al
termine
della
sesta
battaglia
dell'Isonzo.
Anche
la
storia
della
vittoria
militare
finale
italiana
è in
realtà
meno
gloriosa
di
come
fu
descritta
allora
dall'alto
comando
e
successivamente
da
numerosi
storici.
La
memoria
della
vittoria
finale
è
legata
in
particolare
alle
battaglie
difensive
sul
Piave
e
alla
controffensiva
di
fine
ottobre
1918.
La
difesa
della
linea
del
Piave
fu
il
principale
successo
dell'esercito
italiano
durante
il
conflitto.
Al
generale
Armando
Diaz
va
senza
dubbio
attribuito
il
merito
di
aver
ricostituito
in
breve
tempo,
materialmente
e
moralmente,
un
esercito
duramente
provato
dalla
disastrosa
sconfitta
di
Caporetto.
La
riorganizzazione
di
25
divisioni
di
fanteria
e 30
regimenti
di
artiglieria
consentirono
di
mantenere
la
linea
del
Piave
nel
novembre
1917,
a
sole
due
settimane
dal
crollo
del
fronte
sull'Isonzo.
Tuttavia,
bisogna
riconoscere
che
l'offensiva
austro-tedesca
si
fiaccò
anche
perchè
gli
Imperi
Centrali
non
avevano
previsto
un
simile
crollo
dell'esercito
italiano
e
non
erano
logisticamente
pronti
a
sostenere
una
lunga
offensiva.
L'obiettivo
della
loro
offensiva
di
fine
ottobre
1917
era
quello
di
prevenire
un
altro
attacco
italiano
sull'Isonzo
e
avanzare
fino
al
fiume
Tagliamento,
ben
più
ad
est
del
Piave,
accorciando
e
rendendo
più
difendibile
il
fronte
austriaco.
Si
trattava
dunque
di
una
mossa
strategica
che
non
ambiva
a
costringere
l'Italia
alla
resa.
A
dimostrazione
di
questo,
già
nella
seconda
metà
di
novembre
del
1917
i
tedeschi
trasferirono
truppe
ed
artiglieria
sul
fronte
francese,
anziché
sostenere
l'offensiva
contro
la
linea
del
Piave.
Mentre
i
tedeschi
lasciavano
soli
i
loro
alleati
asburgici
sul
fronte
italiano,
il
general
Diaz
riceveva
il
sostegno
di
130.000
soldati
francesi
e di
110.000
soldati
britannici,
oltre
ad
un'
ingente
quantità
di
munizioni,
viveri
e
carbone.
L'esercito
asburgico,
privo
di
supporto
materiale
esterno,
venne
danneggiato
anche
dagli
effetti
del
blocco
economico
alleato
e
dal
drastico
declino
della
produzione
industriale
interna
dall'inizio
del
1918.
Ciononostante,
nell'estate
del
1918
l'iniziativa
rimase
nelle
mani
degli
austriaci,
che
a
giugno
tentarono
un'ultima
offensiva
sul
Piave,
senza
però
ottenere
risultati.
Tra
il
luglio
e
l'ottobre
del
1918,
il
numero
delle
truppe
asburgiche
sul
fronte
italiano
si
ridusse
da
650.000
a
400.000
a
causa
di
diserzioni
ed
epidemie.
Queste
erano
le
condizioni
dell'esercito
che
venne
messo
in
rotta
dalle
offensive
italiane
nell'ultima
settimana
di
guerra.
In
questa
fase,
l'esito
del
conflitto
era
ormai
segnato,
poiché
la
sconfitta
della
Germania,
dalle
cui
sorti
militari
dipendeva
anche
l'impero
austro-ungarico,
era
ormai
certa.
Un
rapido
sguardo
agli
eventi
sugli
altri
fronti
rivela
l'ormai
disperata
situazione
degli
Imperi
Centrali
al
momento
d'inizio
dell'offensiva
italiana.
Dall'
8
agosto
1918,
in
seguito
alla
battaglia
di
Amiens,
l'iniziativa
sul
fronte
occidentale
era
passata
definitivamente
in
mani
alleate.
A
metà
settembre,
gli
alleati
superarono
la
linea
difensiva
tedesca
Hindenburg
e a
fine
mese
la
Bulgaria
si
arrese,
lasciando
gli
Imperi
Centrali
vulnerabili
ad
attacchi
alleati
dai
Balcani.
All'inizio
del
mese
di
ottobre
ci
furono
le
prime
aperture
austrotedesche
in
vista
di
negoziati
di
pace.
L'offensiva
italiana
di
fine
ottobre
1918
ebbe
luogo
proprio
perchè
la
sconfitta
degli
Imperi
Centrali
era
imminente
e
l'Italia
rischiava
di
arrivare
al
tavolo
della
pace
con
l'esercito
schierato
all'interno
dei
confini
pre-bellici,
il
che
avrebbe
reso
ancora
più
difficile
insistere
sull'applicazione
delle
clausole
territoriali
del
Trattato
di
Londra.
Diaz
aveva
respinto
la
richiesta
del
comandante
interalleato
Foch
di
attaccare
sul
fronte
asburgico
in
agosto
e
riteneva
che
una
seria
offensiva
italiana
non
sarebbe
stata
possibile
prima
della
primavera
del
1919.
Tuttavia,
il
corso
degli
eventi
a
settembre
e
inizio
ottobre
1918
convinse
sia
il
primo
ministro
Vittorio
Orlando
sia
Diaz
che
un'immediata
offensiva
italiana
era
assolutamente
necessaria
sul
piano
politico.
A
rendere
le
potenziali
conseguenze
negative
di
un'ulteriore
passività
italiana
ancora
più
gravi
per
il
prestigio
e le
ambizioni
di
Roma,
il
19
ottobre
1918
l'Austria
cominciò
a
preparare
una
proposta
di
pace
basata
su
un
ritiro
unilaterale
dalle
province
italiane.
Inoltre,
due
giorni
dopo
il
presidente
americano
Woodrow
Wilson
annunciò
il
suo
sostegno
all'indipendenza
dei
popoli
slavi
dell'impero
austro-ungarico,
il
che
era
in
aperto
contrasto
con
le
ambizioni
territoriali
italiane.
Tra
il
23 e
il
24
ottobre
cominciò
l'offensiva
italiana.
A
fare
le
spese
dell'improvvisazione
che
la
caratterizzò
furono
soprattutto
le
truppe
che
attaccarono
per
prime,
sul
monte
Grappa.
Esse
persero
25.000
uomini
in
poche
ore
senza
conquistare
alcuna
posizione
strategica
e
ripetendo
gli
stessi
errori
che
l'esercito
aveva
commesso
sin
dalle
prime
offensive
di
Cadorna
nel
1915,
quali
disperdere
truppe
e
attaccare
senza
un'adeguata
conoscenza
del
territorio.
L'offensiva
lanciata
più
a
sud,
sul
Piave,
determinò
l'esito
della
battaglia,
anche
per
via
dello
stato
di
disfacimento
dell'esercito
asburgico.
Tra
il
27 e
il
29
ottobre
l'esercito
italiano
mise
in
rotta
i
resti
dell'esercito
nemico.
Il 4
novembre,
al
momento
in
cui
entrò
in
vigore
l'armistizio
tra
i
due
schieramenti,
le
avanguardie
italiane
erano
entrate
a
Udine,
Trento
e
Gorizia,
ma
erano
ancora
lontane
da
Trieste
e
dal
Brennero.
Quasi
tutte
le
“terre
irredente”
per
cui
l'Italia
era
entrata
in
guerra
furono
occupate
dopo
il
termine
del
conflitto.