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N. 97 - Gennaio 2016 (CXXVIII)

LA GRANDE GUERRA DELLE ITALIANE
IL RUOLO DELLE DONNE NEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE

di Samantha Ferrari

 

Cento anni fa l’Italia entrava “trionfalmente” nel primo conflitto mondiale: tutto era pronto: la propaganda patriottica interventista riecheggiava in ogni dove, gli intellettuali rivendicavano le terre irredenti, i soldati si preparavano ad attraversare il Piave e il fronte interno si organizzava per affrontare lo sforzo bellico. Ordine, quiete ed entusiasmo. Ma era davvero così?

 

 Quando si pensa alla Grande Guerra si ricordano le battaglie campali sul Piave, l’Isonzo, la Somme e la Marna, i milioni di soldati caduti in trincea, gli stravolgimenti geopolitici, senza prestare la giusta attenzione alla componente culturale del conflitto.

 

La prima guerra mondiale è stata la prima esperienza collettiva degli italiani: ogni cittadino della nazione era chiamato a partecipare in difesa della patria, nel nome dell’Italia. Il progressivo coinvolgimento del popolo nella vita politica, ha portato alla nascita dell’opinione pubblica rimodellando e ridefinendo il modo di pensare, di vedere ed interpretare la realtà di uomini e donne. Ed è proprio delle donne che parleremo.

 

Se si pensa che la Grande Guerra sia stata una sola questione da uomini, si commette un errore.

 

La partecipazione femminile si diffuse velocemente divenendo indispensabile. Accanto alla tradizionale opera dell’assistenzialismo e della beneficienza, le donne iniziarono a ricoprire ruoli prima di allora soltanto immaginati. Il vuoto di manodopera prodotto dal conflitto spopolò le campagne e le città rendendo necessario il ricorso alle donne che in breve tempo si occuparono dei campi, della vita economica e finanziaria. La femminilizzazione della società si era avviata. Il primo conflitto fu dunque la prima grande occasione di emancipazione.

 

L’impiego nelle fabbriche che producevano materiale bellico, facevano inorridire i ben pensanti: nel 1917 Paola Baronchelli Grosson scriveva: “soltanto due anni addietro, un ingegnere, un capo tecnico avrebbero riso come di una stramberia all’idea di mettere una donna al tornio cioè al congegno di competenza tradizionalmente mascolina […] Ebbene: le notizie in possesso del Ministero Armi e Munizioni dimostrano che le donne possono eseguire ed eseguiscono, gran parte delle lavorazioni per la produzione del materiale da guerra […]”

 

Ogni singola attività svolta era per il bene, per la grandezza e il successo dell’Italia.

 

Un aspetto a cui si è sempre prestata poca attenzione, è il massiccio reclutamento delle donne sulla linea del fronte. Dopo la clamorosa disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917, l’impiego delle donne nelle fabbriche produttrici di spoletto di fio spinato, salì enormemente arrivando anche a 20 mila persone.

 

Le donne friulane, direttamente coinvolte nel conflitto perché a ridosso della linea del fronte, sono una vivida testimonianza della lotta e del’impegno femminile. Dalla Carnia, Forni Avoltri, Val Aupa provenivano le famose portatrici che trasportavano al fronte viveri e munizioni mettendo a repentaglio la propria vita ad ogni viaggio.

 

Maria Plonzer Pimentel, portatrice di Timau (in provincia di Udine), è stata l’unica donna della grande guerra a ricevere la medaglia d’oro al valor militare per i nobili servigi resi alla patria. Non riceverà mai quella medaglia; Maria mori il 15 febbraio 1916, la figlia Dorina, ormai novantaduenne, la ritirò per lei nel 1997.

 

Maria fu scelta come rappresentante delle portatrici carniche, per l’incrollabile amor di patria, per l’eroismo e per il senso di sacrificio. Maria era madre di quattro figli, aveva il marito impegnato al fronte quindi ben conosceva la realtà bellica e il pericolo del fuoco nemico. Il suo coraggio e forza erano da monito per tutte le giovani ragazze del Carso. Maria Plonzer Pimentel, con la sua forza morale , ben incarna il modello della perfetta madre italiana.

 

La donna, in quanto madre, è rivestita di una profonda valenza simbolica: oltre a generare italiani forti e valorosi e dediti servitori della patria, è la madre nazione che “abbraccia” tutti i suoi figli disposti a scendere in battaglia in suo nome. Quale figura meglio della madre può rappresentare il rapporto profondo e viscerale tra la Nazione e i suoi figli? Nessuno.

 

Accanto al lavoro al fronte e alla generale mobilitazione femminile, l’impegno in associazioni di volontariato e mutuo soccorso, confermò il centrale ruolo delle donne come madrine di guerra. Le madrine di guerra, giovani ragazze rampolle della buona società, inviavano al fronte grazie a comitati patriottici ed associazioni umanitarie, tutto il materiale necessario ai soldati con cui spesso comunicavano per lettera e cartolina. Il dialogo e il supporto morali, erano necessari. Sulla funzione del “madrinato di guerra” cosi era chiamato in Francia, si pronunciò positivamente la stampa femminile dell’epoca.

 

In un articolo apparso su “La Donna” (che si definì primo giornale emancipazionista), Matilde Serao, una delle paladine dei diritti delle donne, dichiarò apertamente il suo apprezzamento per “la misteriosa affinità umana” che emerse dai rapporti tra le madrine di guerra e i soldati dichiarandosi favorevole se: “qualche idillio continuerà in forma di buona amicizia o condurrà ai fiori d’arancio […]”.

 

E che dire delle numerose donne dell’amor pagato? E’ innegabile che durante il periodo di guerra, vennero scelte numerose ragazze provenienti da ogni parte della penisola, per lavorare nei bordelli di guerra. Il loro compito era semplice: dare piacere ai soldati e distrarli per brevi momenti dalle atrocità del fronte.

 

L’11 giugno1915, il comando supremo del Regio Esercito, con la circolare n. 268, intendeva regolamentare e vigilare sull’attività del meretricio in zone di guerra. L’obiettivo era evitare la diffusione di malattie venere che, compromettendo la salute dei soldati, avrebbero creato non pochi problemi ai reparti.

 

La lotta al meretricio di stato era una delle tante battaglie di Anna Maria Mozzoni, femminista ante litteram che rivendicava un miglior trattamento per le prostitute. La prostituzione di stato verrà abolita molto dopo; dobbiamo attendere la Legge Merlin negli anni cinquanta. Accanto ai bordelli di guerra, un altro luogo di svago e di ritrovo, erano le case del soldato punto di riferimento importante nelle grandi città sedi degli alti comandi e nelle retrovie dove venivano proiettati film e dove si svolgevano rappresentazioni teatrali.

 

La presenza di attori e attrici del momento dimostrava la loro fedeltà alla patria e il forte irredentismo. Tra le tante attrici anche Eleonora Duse musa ispiratrice ed amante di Gabriele D’Annunzio vate degli italiani e fervente interventista. Nelle case del soldato, in prossimità del fronte, la sicurezza era precaria, il tempo libero dei soldati minacciato e il lavoro delle attrici compromesso.

 

Ettore Spanilani a questo proposito ha scritto: “a qualche chilometro tuona il cannone con cupo rimbombo e sul nel cielo si librano in lunga fila i palloni-drago vigilando a difesa: ma tutti quegli occhi si fissano immoti alla scena che si svolge sul palco, e ad ogni tratto prorompe irrefrenabile la gioconda risata che allarga il cuore e solleva lo spirito”.

 

La Grande Guerra è stata un momento cruciale nella storia del novecento perché ha dato l’avvio a quella che Enzo Traverso definisce “guerra civile europea”: un’escalation di conflitti, rivalità, lotte intestine tra le potenze che hanno condotto alla guerra totale e al sopraggiungere del disastro del secondo conflitto; la brutalizzazione della politica e la disumanizzazione delle vittime, ridotte a puro numero e quindi private propria dignità, è stato uno dei lasciti della guerra ’14-’18.

 

E l’amor di patria?

 

Immediatamente dopo la fine del conflitto, il senso di identità nazionale e di rivalsa si intensificò: i valorosi soldati dovevano essere ricordati come eroi. Da qui la monumentalizzazione della Nazione e dei suoi padri fu inevitabile; tutto il popolo doveva ricordare, vedere ed omaggiare i suoi eroi. La deposizione del milite ignoto sull’Altare della Patria, ne è l’emblema.

 

A “scegliere” il milite ignoto fu una donna triestina che aveva perso il figlio in battaglia. Maria Bergamas. Nella basilica di Aquileia erano allineate undici bare dove riposavano soldati ignoti perché non riconoscibili.

 

Maria indicò la decima: il milite ignoto attraversò mezza Italia per arrivare a Roma il 4 novembre del 1921 anniversario della fine del conflitto, per essere posto nel Vittoriano. L’Italia si riuniva nel dolore, nella commozione e nella rabbia per un conflitto tanto atroce ma non rifletté abbastanza; di li a poco la Marcia fascista del 1922.

 

A cento anni dall’ inizio della nostra Grande Guerra, riflettere e ricordare seppur in minima parte le donne che ne hanno preso parte fornendo un contributo costante e silenzioso, è giusto e doveroso. Se l’Italia arrivò vittoriosa a Vittorio Veneto il 4 novembre 1918, è anche grazie a loro.



 

 

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