N. 47 - Novembre 2011
(LXXVIII)
Il Grand Tour e il Cimitero acattolico di Roma
viaggio,
conoscenza,
memoria
di
Daniela
Coppola
Oggi siamo portati a considerare il viaggio come un celere spostamento da un luogo all’altro del pianeta. Un tempo, invece, il viaggio era un’esperienza che esigeva una paziente preparazione e grandi abilità organizzative.
Il
Settecento
è
stato
il
secolo
d’oro
dei
viaggi,
l’Era
di
una
cultura
ancorata
a
parametri
razionali
cosmopoliti
e
soprattutto
itineranti.
Il
termine
specifico
Grand
Tour
compare
già
nel
1697
nel
volume
di
Richard
Lassels
“An
Italian
Voyage,
or,
Compleat
Journey
through
Italiy”:
“Nessuno
è in
grado
di
comprendere
Cesare
e
Livio
come
colui
che
ha
compiuto
il
Grand
Tour
completo
della
Francia
e il
giro
dell’Italia”.
Due
eventi
in
particolare
delimitano
il
fenomeno
cultuale
del
Grand
Tour:
il
primo
riguarda
una
pubblicazione
di
Joseph
Addison,
considerato
il
padre
del
giornalismo
inglese
che
nel
1699
cominciò
la
sua
carriera
di
diplomatico
e
viaggiò
molto
per
tutta
l'Europa,
scrivendo
e
studiando
politica.
Al
suo
soggiorno
in
Italia
ha
dedicato
due
testi:
uno
del
1701
intitolato
“Letter
from
Italy
to
the
Right
Hon”,
l'altro
del
1705
intitolato
“Remarks
upon
Several
Parts
of
Italy”
. Il
secondo
evento
che
chiude
e
circoscrive
questa
pratica
si
riscontra
al
principio
del
secolo
successivo
con
l’inizio
delle
campagne
napoleoniche
che
mettono
a
soqquadro
l’Europa
e
interrompono
la
foga
dei
viaggi.
In
epoca
romantica
i
viaggi
riprendono
vigore:
si
inaugurano
nuovi
blocchi
ferroviari
(il
che
farà
dire
a
John
Ruskin:
“Gli
uomini
non
hanno
visto
granché
andando
lenti,
figuriamoci
se
vedranno
di
più
andando
veloci”),
Thomas
Cook
apre
la
sua
prima
agenzia
di
viaggio,
(diventando
di
fatto
il
precursore
del
turismo
moderno),
e
vengono
pubblicate
le
prime
“Baedeker”,
le
prime
guide
turistiche
che
cambiano
radicalmente
il
senso
e la
filosofia
del
viaggio.
La
letteratura
romantica
circola
di
pari
passo
con
la
letteratura
“di
viaggio”
(Addison
sul
suo
giornale
“Tatler”
affermava:
“non
ci
sono
libri
dai
quali
traggo
maggior
diletto
di
quelli
che
narrano
di
viaggi”).
Pensiamo
alle
pagine
di
Mary
Shelley
(il
libro
di
viaggi
“A
zonzo
per
la
Germania
e
per
l'Italia”
del
1844),
ma
soprattutto
a
Goethe,
con
il
suo
“Viaggio
in
Italia”
che
racconta
del
suo
soggiorno
nel
nostro
Paese
durato
circa
due
anni
e la
produzione
di
letteratura
di
viaggio
in
Francia
e in
Italia
di
Henry
James.
Dunque,
il
viaggio.
E la
conoscenza.
Ciò
che
rende
ufficiale
questa
particolare
istituzione
che
prende
il
nome
di
“Gran
Tour”
è
quell’esperienza
capace
di
fare
dei
figli
degli
aristocratici
e di
borghesi
europei
(rampolli
di
quelle
nuove
classi
emergenti:
mercanti,
banchieri,
burocrati
di
stato
e
professionisti),
degli
autentici
gentiluomini
e
degli
apprendisti
diplomatici.
A
queste
identità
si
aggiunsero
studenti,
scrittori,
artisti
che
giungevano
nelle
diverse
città
d’arte
italiane
provenienti
dal
nord
Europa
(Mozart
venne
in
Italia
per
far
conoscere
la
propria
musica
e
Fugger,
noto
banchiere,
mandò
il
figlio
a
Venezia
perché
imparasse
le
nuove
tecniche
del
sistema
bancario
italiano).
Tra
la
fine
del
Cinquecento
e
l’Ottocento
non
c’è
intellettuale
europeo
–
il
tour
è
considerato
un’arte
soprattutto
dagli
inglesi
e
dai
tedeschi-
che
in
qualche
modo
non
abbia
compiuto
il
proprio
pellegrinaggio
laico
nella
nostra
penisola
e in
Francia.
Il
Grand
Tour
divenne
consuetudine
didattica
sia
per
i
giovani
più
istruiti,
scortati
da
tutori
intransigenti,
spesso
scrittori
e
filosofi,
sia
per
le
giovani
fanciulle,
fenomeno
del
tutto
nuovo
allora,
spesso
accompagnate
dagli
occhi
severi
di
“anziane”
zie
nubili
o
comunque
familiari.
I
viaggiatori
consideravano
l’Italia
matrice
e
custode
della
tradizione
classica
e,
smessi
i
rassicuranti
abiti
accademici,
intendevano
verificare
le
diverse
competenze
già
acquisite,
per
poter
conoscere
meglio
e
approfondire
la
cultura,
l'arte
e le
antichità
di
casa
nostra.
Inoltre,
attraverso
l’esperienza
del
“grande
giro”
il
giovane
era
solito
acquisire
quelle
particolari
doti
di
coraggio
e
intraprendenza
(oltre
alla
conoscenza
delle
lingue
straniere
e
degli
usi
e
costumi
dei
luoghi
visitati)
che
erano
ritenute
irrinunciabili
per
membri
di
una
nuova
classe
dirigenziale.
Una
comparazione
del
noto
con
l’ignoto,
del
familiare
con
l’estraneo,
un
modo
quindi
per
crescere
e
rinnovarsi,
tanto
nello
spirito
che
nel
corpo.
Nobili
e
borghesi
commissionavano
sculture
e
ritratti
con
sfondi
di
luoghi
artistici
italiani
a
pittori
come
“il
Canaletto”,
Pompeo
Batoni,
Gian
Battista
Piranesi
artisti
altamente
apprezzati
dai
visitatori
del
Gran
Tour.
Per
questi
illustri
turisti,
collezionisti
e
non
solo,
le
giornate
trascorrevano
visitando
luoghi
culturali,
studiando
e
facendo
acquisti
di
opere
d’arte
nostrane.
Insomma,
tempi
di
spostamenti
nello
spazio,
come
visita
e
conoscenza
di
città
in
città
italiane,
dalle
Alpi
alla
Sicilia,
passando
ovviamente
per
Firenze
e
per
Roma.
Molti
stranieri
programmavano
il
viaggio,
che
durava
di
norma
anche
diversi
mesi,
se
non
anni.
E
qui
bisognerebbe
porre
l’attenzione
su
un
diverso
aspetto,
quello
materiale
del
viaggio,
che
spesso
viene
taciuto
dalla
letteratura
di
genere.
Che
fossero
tempi
difficili
sia
per
gli
spostamenti
che
per
la
salute
fisica,
questo
è
noto,
tuttavia
si
dovrebbero
considerare
alcuni
elementi:
le
lunghe
ore
passate
in
carrozza,
le
attese
interminabili
per
un
cambio
di
cavalli
o di
una
diligenza,
arredi
e
corredi
trasportati
in
bauli
e
bagagli
gestiti
e
affidati
a
maestranze
avventizie,
tutti
il
gli
inconvenienti
più
disparati,
e i
pericoli,
incontrati
sia
per
strada,
che
nelle
inospitali
e
scomode
e
spesso
luride
locande,
infestate
oltre
che
da
malfattori
anche
da
pulci,
pidocchi
e
parassiti
vari.
E
ancora,
le
malattie,
le
epidemie,
e la
morte.
La
memoria.
Due
questioni
determinanti
sono
degne
di
nota:
la
prima
è
dettata
dal
fatto
che
un
epilogo
tutt’altro
che
infrequente
di
questi
viaggi
era
che
in
molti
morivano
prima
di
far
ritorno
nelle
loro
case
d’origine.
La
seconda,
strettamente
connessa
con
la
religione:
l’ortodossia,
il
protestantesimo
e il
calvinismo
erano
pratiche
religiose
molto
seguite
in
tutta
Europa,
mentre
in
Italia
la
Chiesa
cattolica
troneggiava
indiscussa
su
costumi,
abitudini
e
pratiche.
A
cominciare
da
quelle
per
i
defunti.
Dove
ospitare,
quindi,
i
viaggiatori
passati
a
miglior
vita
nella
Città
eterna?
Tanto
per
cominciare,
fuori
dalle
porte
cittadine.
A
Roma,
fino
ai
primi
dell’800,
la
zona
tra
Porta
S.Paolo
e
Testaccio
era
chiamata
“i
prati
del
popolo
romano”
e la
Piramide
di
Caio
Cestio,
inglobata
tra
le
Mura
Aureliane,
dominava
la
parte
antica
di
questo
luogo
che
nel
tempo
si
sarebbe
trasformato
in
un
cimitero.
Non
sono
stati
ritrovati
altri
precisi
luoghi
sepolcrali
destinati
ai
non
cattolici:
il
cimitero
degli
ebrei
era
posizionato
sulla
collina
dell'Aventino
di
fronte
al
Circo
Massimo
dove
ora
è
collocato
il
roseto
comunale
e
altre
sparse
sepolture
sono
state
trovate
presso
il
“Muro
torto”
tra
il
Pincio
e
piazzale
Flaminio.
Comunque
secondo
la
legislazione
dello
Stato
pontificio
(Il
cimitero
fu
aperto
ufficialmente
durante
il
papato
di
Pio
VII,
nel
1821)
nessun
acattolico
poteva
essere
inumato
in
una
chiesa
romana
o
terra
benedetta
e le
tumulazioni
dovevano
essere
effettuate
solo
di
notte,
al
lume
delle
torce,
per
non
provocare
reazioni
di
fanatismo
religioso
e
per
preservare
l’integrità
dei
partecipanti
alla
cerimonia
funebre.
Il
luogo
divenne
col
tempo
il
sacrario
privilegiato
dei
tanti
stranieri
che
l’
Urbe
attirava.
Nel
tempo
diverse
sono
state
le
definizioni
conferite
a
questo
Cimitero:
dei
protestanti,
degli
inglese,
ma
anche
degli
artisti
e
dei
poeti,
definizioni
che
sono
rimaste
ancora
valide,
sebbene
non
interpretino
ora
in
modo
completo
il
luogo,
tant’è
che
la
denominazione
corretta
è
quella
che
si è
affermata
dopo
1870,
Cimitero
degli
acattolici
di
Roma.
Risale
al
1738
la
prima
sepoltura
a
nome
Langton,
uno
studente
inglese
che
diede
il
via
all’inumazione:
ora
in
questo
piccolo
camposanto
riposano
le
spoglie
di
oltre
quattromila
persone,
perlopiù
inglesi
e
tedeschi,
ma
anche
americani,
scandinavi,
russi,
greci,
persino
qualche
cinese
e
mediorientale.
Anche
italiani,
ma
solo
se
congiunti
per
via
parentale
a
persona
straniera
già
sepolta,
così
come
previsto
dallo
statuto
del
sacrario.
Nella
lunga
storia
di
questo
Cimitero
sono
presenti
molti
personaggi
che
hanno
voluto
e
lottato
per
mantenere
aperto
e
attivo
questo
luogo
della
memoria.
La
gestione
dell’intero
sito
(di
proprietà
privata)
è a
cura
di
un’associazione,
composta
da
14
Ambasciate
in
Roma,
che
governa
le
sepolture
dei
connazionali.
è
un
filo
rosso
quello
che
attraverso
il
viaggio,
la
conoscenza
e la
memoria
ci
ha
portato
fin
qui.
Lo
percorreremo
in
lungo
e in
largo
questo
piccolo
territorio
dove
le
storie
che
aleggiano
le
troviamo
impresse
sulle
lapidi
appartenenti
ai
personaggi
qui
sepolti,
e
che
a
volte
vanno
studiate,
se
non
decifrate.
Storie
romantiche,
impregnate
di
sangue
e
passione,
storie
d’amore,
storie
di
guerra,
di
religione,
ma
tutte
con
una
propria
vita
autonoma
che
torna
puntuale
nella
sintesi
marmorea
del
monumento
funebre
o
dell’iscrizione.
Un
dovere
di
sintesi
ci
impone
di
limitare
la
menzione
solo
ad
alcune
di
queste
tombe.
Come
tutti
sanno
qui
c’è
la
tomba
del
grande
poeta
inglese
John
Keats:
ancora
oggi
i
turisti
inglesi
visitano
apposta
il
cimitero
per
rendere
omaggio
al
loro
illustre
connazionale.
Ma
forse
pochi
sanno
la
vicenda
legata
all’inumazione
del
poeta.
Il
suo
grande
amico
Joseph
Severn,
in
un
esercizio
di
pietà
molto
romantico,
descrisse
all’amico
poeta
già
devastato
dalla
tubercolosi,
di
un
luogo
ameno
all’ombra
della
Piramide
Cestia,
che
già
ospitava
alcune
tombe
circondate
da
violette,
fiori
che
Keats
amava
molto.
E
Keats
per
tutta
risposta
al
racconto
dell’amico
replicò
di
aver
“già
la
sensazione
dei
fiori
che
gli
crescevano
sopra”.
Severn
aveva
descritto
le
violette
che
crescevano
sparse,
l’erba
verde
e le
greggi
di
pecore
al
pascolo
libero
sul
luogo
che
aspirava
a
diventare
un
cimitero
in
piena
regola.
Keats
che
si
spense
a
Roma
a
soli
26
anni
nel
1821
e
alla
sua
morte
-secondo
le
sue
volontà-
fu
sepolto
nell’allora
Cimitero
protestante
con
una
pietra
tombale
che
non
recava
inciso
il
suo
nome,
ma
solo
una
generica
indicazione
di
”young
english
poet”
e la
seguente
frase:
“Qui
giace
uno
il
cui
nome
fu
scritto
nell’acqua”.
Al
suo
fianco
riposa
anche
il
devoto
amico
Joseph
Severn
e in
mezzo
a
loro
compare
la
piccola
lapide
del
giovane
figlio
di
quest’ultimo.
Un
poco
distante,
la
tomba
di
Percy
Bysshe
Shelley,
che
morì
trentenne
l’anno
dopo.
Keats
e
Shelley
–i
due
poeti
inglesi
accomunati
nell’immaginario
collettivo
da
una
medesima
sorte
che
li
ha
strappati
alla
vita
ancora
giovani-
insieme
in
questo
luogo:
“poter
scoprire
come
fossero
la
doppia
faccia
della
stessa
medaglia.
Uno
timido
e
introverso,
e
guarda
caso
scompare
di
malattia
a
soli
26
anni;
l’altro
irascibile,
violento,
faceva
a
coltellate
con
i
bulli
trasteverini
insieme
a
Byron
e
finisce
i
suoi
giorni
annegato
per
essere
uscito
in
mare
nonostante
una
forte
tempesta.
Così
lontani,
eppure
inesorabilmente
uniti
nella
forza
dei
sogni.
(cfr
Alessandro
Rubinetti-
Cimitero
Acattolico,
guida
romanzata
del
cimitero
settecentesco
di
Roma).
Una
storia
terribile
fatta
di
gesti
e
pratiche
che
sanno
di
dialogo
stretto
con
la
morte,
secondo
una
sensibilità
intrisa
di
romanticismo:
Shelley
che
annega
in
mare
nei
pressi
di
Porto
Venere
e
Lord
Byron
che
ne
recupera
il
corpo
e lo
fa
cremare
sulla
spiaggia,
mentre
l’amico
John
Trelawny,
(che
riposa
accanto
al
poeta)
-sfidando
il
fuoco-
recupera
il
suo
cuore
e lo
consegna
alla
vedova
Mary
che
lo
porta
via
con
sé e
lo
vorrà
seppellire
in
terra
inglese
laddove
un
giorno
lei
stessa
si
farà
inumare…….
Cor
cordium
(cuore
dei
cuori).
Ogni
lapide,
una
storia.
Shelley
ha
dedicato
a
Keats
il
poema
Adonais.
E’
sua
la
definizione
sull’arte
della
poesia:
“La
poesia….
È
uno
specchio
che
rende
bello
ciò
che
è
distorto!”.
Dalla
moglie
ha
avuto
cinque
figli
e
William,
uno
di
loro,
riposa
vicino
al
padre.
Mary
Shelley
in
una
lettera
parla
del
marito
come
uno
spirito
imprigionato
che
ora
vaga
libero
e
felice.
E di
spiriti
liberi,
in
questo
luogo,
ce
ne
sono
molti.
Ci
sono
William
Wetmore
Story,
scultore
statunitense
spentosi
nel
1895
che,
insieme
alla
moglie,
è
vegliato
dalla
statua
conosciuta
come
“l’Angelo
del
dolore”
realizzata
dallo
scultore
stesso
e Hendrik
Christian
Andersen,
anche
lui
scultore
americano,
ma
di
origini
norvegesi
(da
non
confondere
con
l’omonimo
Hans
delle
favole,
danese,
scrittore).
Entrambi
gli
scultori
ebbero
rapporti
con
lo
scrittore
statunitense
Henry
James:
di
Story
ne
scrisse
la
biografia,
di
Andersen
ne
fu
l’amante
(cfr
Henry
James,
Amato
ragazzo.
Lettere
a
Hendrik
C.
Andersen
(1899-1915),
a
cura
di
Rosella
Mamoli,
Marsilio,
2000).
C’è
August
von
Goethe,
uno
dei
figli
del
grande
letterato
tedesco,
deceduto
due
anni
prima
del
padre;
non
era
uno
scrittore,
ma
un
semplice
contabile.
Il
padre
volle
consegnare
ai
posteri
non
il
nome
proprio
del
figlio,
ma
un’iscrizione
tombale
emblematica:
“Goethe
filius
patri”.
Forse
una
rivendicazione
di
paternità
estrema
e
disperata
e
non
un’improvvida
autocelebrazione,
come
sembrerebbe
a
prima
vista.
Dei
vialetti
cimiteriali
ne
parla
D’Annunzio
ne
“Il
piacere”
e
Pier
Paolo
Pasolini
ne
“Le
ceneri
di
Gramsci”
perché
è in
questo
luogo
che
sono
conservate
le
spoglie
del
politico
e
pensatore
sardo,
spostate
dal
Verano
per
volontà
della
cognata
Tatiana.
C’è
Dario
Bellezza
poeta
e
amico
di
Pasolini
che
riposa
vicino
a
Gramsci.
Ci
sono
poeti
e
scrittori
come
Carlo
Emilio
Gadda,
Amalia
Rosselli
e
Gregory
Corso,
il
grande
esponente
della
Beat
generation,
il
genio
ribelle
cui
la
letteratura
ha
regalato
il
riscatto
da
una
vita
dissoluta.
Il
poeta
chiese
e
ottenne
di
essere
sepolto
accanto
a
Shelley.
Ci
sono
i
volontari
che
hanno
combattuto
a
fianco
di
Garibaldi
durante
il
Risorgimento
italiano,
ma
anche
il
principe
Felix
Youssoupoff,
padre
di
uno
degli
assassini
di
Rasputin.
Ci
sono
la
figlia
e la
nipote
del
grande
Tolstoj;
Bruno
Pontecorvo,
Бруно
Максимович
Понтекорво
(trasl.:
Bruno
Maksimovič
Pontekorvo)
uno
dei
ragazzi
di
Via
Panisperna,
fisico
e
allievo
di
Enrico
Fermi,
(fratello
di
Gillo,
il
regista)
che
si
trasferì
volontariamente
in
Unione
Sovietica,
dove
morì
nella
cittadina
di
Dubna.
C’è
Ursula
Hirschman,
vedova
di
Eugenio
Colorno
e
moglie
di
Altiero
Spinelli
–autore
insieme
a
Ernesto
Rossi
del
“Manifesto
di
Ventotene”
– e
instancabile
divulgatrice
del
Manifesto.
Successivamente,
insieme
al
marito,
partecipò
alla
formazione
del
“Movimento
federalista
europeo”
da
cui
è
nato
il
pensiero
europeista
moderno.
Ci
sono
le
figure
leggendarie
di
Rosa
Bathurst,
la
diciasettenne
bellissima
caduta
da
cavallo
e
Elsbeth
M.
Wegner
Passarge
passata
dal
sonno
alla
morte
la
prima
notte
di
nozze.
Ci
sono
la
scrittrice
Luce
d’Eramo
e
l’attrice
inglese
Belinda
Lee,
piuttosto
famosa
negli
anni
’60
per
i
suoi
film
procaci,
ma
anche
presenza
maiuscola
in
piccole
caratterizzazioni,
come
“I
magliari”
di
F.
Rosi,
“La
lunga
notte
del
‘43”
di
F.
Vancini
e
“Fantasmi
a
Roma”
di
A.
Pietrangeli.
Ce
ne
sono
tante
di
storie
e
leggende
che
fluiscono
e si
aggrovigliano
in
questo
luogo
assolutamente
vitale
e
incantato.
Luogo
di
pellegrinaggio
da
parte
di
visitatori
stranieri,
di
preghiera
per
i
defunti,
di
riflessione
per
chi
voglia,
seguendo
quel
filo
rosso
e
lungo
il
percorso,
farsi
avvolgere
dall’emozione
della
Storia.