N. 88 - Aprile 2015
(CXIX)
Grand Fillmore Hotel
Il crudele limbo dell'Umanità
di Silvia Mangano
«Più
cose
so
di
questo
posto
e
più
nella
mia
mente
prende
forma
l’immagine
di
un
albero,
da
cui
partono
rami
contorti
che
si
intrecciano
gli
uni
con
gli
altri.
Il
tronco
è il
Fillmore,
i
rami
i
suoi
abitanti
che
in
un
modo
o
nell’altro
sono
tutti
collegati;
le
vite
degli
ospiti
sembra
si
siano
incontrate
almeno
una
volta»
(p.
80).
Questo è – a voler usare le parole dell’autore – il Grand
Fillmore
Hotel
e le
storie
in
esso
collezionate.
Romanzo? Raccolta di istantanee? O semplicemente un cubo di Rubik?
Non
è
semplice
definire
questo
libro...
Mattia Insolia, giovanissimo vincitore del concorso nazionale
“LibereStorie”,
descrive
in
soggettiva
una
giornata
vissuta
da
dieci
personaggi,
inoltrandosi
nei
loro
pensieri
e
scavando
nelle
loro
vite,
mettendo
a
nudo
un’umanità
ferita
che
non
concepisce
l’idea
di
redenzione.
La storia inizia e (quasi) finisce con il primo racconto:
il
piccolo
Giò
ci
accompagna
nel
suo
mondo,
un
mondo
crudele
in
cui
la
mamma
fa
la
“massaggiatrice” per far quadrare i conti e il padre è in fila da anni “a
comprare
le
sigarette”;
mentre
gli
altri
nove
racconti
si
succedono,
come
in
un
piano
sequenza,
raccontando
la
loro
parte
di
storia
e
aggiungendo
un
piccolo
spicchio
di
comprensione
all’indecifrabile
vita
in
cui
sono
sospesi.
La sospensione, caratteristica tipica del genere narrativo
del
racconto,
qui
trova
la
sua
amplificazione
nel
rumoroso
silenzio
interiore
degli
attori:
ognuno
di
loro
racconta,
mostra,
descrive,
ma
il
desolante
fatalismo
da
cui
sono
affetti
tutti
gli
adulti
del
romanzo
(il
piccolo
Giò
è
escluso)
svuota
di
significato
ogni
dimensione
d’arbitrio.
Come l’ineluttabilità del fato pagano, il Grand Fillmore
Hotel
permea
la
realtà
dei
personaggi
bloccandoli
in
una
sorta
di
limbo,
dove
anche
i
predatori
sono
vittime
del
male
che
serpeggia
nella
loro
anima
e
che
non
riescono
a
sconfiggere.
L’hotel rappresenta un microcosmo inconscio in cui i personaggi
si
sono
arenati
senza
riuscirne
più
a
evadere:
quasi
affetti
da
una
collettiva
sindrome
di
Stoccolma,
pur
nel
dolore
che
gli
provoca,
si
lasciano
cullare
dal
rassicurante
(ma
non
sano)
immobilismo
del
contesto,
macerando
l’anima
nel
rimpianto,
nella
rabbia
o
nella
paura.
Insolia
dimostra
un
talento
inconsueto
per
la
sua
giovane
età:
lo
stile
è
particolare
e la
prosa
scorrevole,
forse
in
alcuni
punti
troppo
volgare
e
monotona
–
considerando
che
non
tutti
i
personaggi
sono
sinistri
come
Pia
e il
signor
P. –
mentre
in
altri
i
protagonisti
appaiono
eccessivamente
ingenui
(e
penso
a
Loredana
e ad
Agnese).
Mentre leggevo, mi domandavo se in realtà il Grand Fillmore
Hotel
fosse
il
paesaggio
interiore
dell’autore
in
cui
si
muovevano
le
infestate
anime
dell’artista:
da
Giorgio
che
rappresenta
l’innocenza
violata
ad
Alex
che
altro
non
è se
non
un
agnello
che
gioca
a
fare
il
lupo,
passando
per
Pia
che
rappresenta
la
maniacale
necessità
dell’autore
di
possedere
per
sé
le
sue
creature
e
privarle
della
felicità,
e
così
via…
C’è, nel romanzo, una grande assente che, a mio avviso,
rappresenta
l’unico
punto
debole
della
narrazione:
la
salvezza
interiore.
Alla fine del libro, la matassa si sbroglia – almeno quella
principale
– ma
intorno
a sé
lascia
un
enorme
vuoto
di
significato:
il
testo
presenta
una
soluzione,
questo
è
vero,
ma
non
la
salvezza.
I
personaggi
restano
bloccati
nel
loro
limbo
e
anche
i
“buoni”
non
ottengono
un
riscatto
interiore:
la
mortificazione
dei
personaggi
si
concretizza
di
fronte
a
un’introspezione
che
è in
grado
solamente
di
riconoscere
una
barriera
–
quella
del
male
–
impossibile
da
superare.
Per questo motivo l’unica via di uscita è una soluzione
esterna
(e
non
una
liberazione
interna)
e
per
questo
motivo
tutti
i
personaggi
sono
grandi
sconfitti,
vittime
mutilate
nella
loro
umanità
da
un
determinismo
implacabile
(«Credete
che
vada
fiero
di
una
cosa
del
genere?
Neanche
per
sogno,
è
ovvio,
ma
non
posso
farci
niente.
[…]
Le
cose,
semplicemente,
vanno
avanti
così»
p.
118).
Il Grand Fillmore Hotel (GB Editoria 2015) è il primo
passo
–
spero
– di
una
promettente
carriera
letteraria
e
merita
di
essere
letto
non
solo
come
un
semplice
romanzo,
ma
come
il
grido
di
denuncia
di
una
generazione
nei
confronti
di
una
società
che
non
è
più
in
grado
di
dare
una
risposta
di
senso
alla
vita
(«Questa
storia
[...]
puzza
di
verità;
di
schifossisima
verità»
p.
132).
E in questo Mattia Insolia lancia una grande sfida a tutti
noi
lettori:
siamo
pronti
a
licenziarci
e
abbandonare
il
nostro
Fillmore?