N. 88 - Aprile 2015
(CXIX)
La roma dei gracchi
I grandi cambiamenti del II secolo a.C.
di Andrea Contorni
La
Roma
dei
Gracchi
era
una
polveriera
pronta
a
esplodere
da
un
momento
all’altro.
La
Res
Publica
Populi
Romani
era
nata,
secondo
le
fonti,
nel
509
a.C.
in
seguito
alla
caduta
dell’ultimo
re
di
stirpe
etrusca,
Tarquinio
il
Superbo.
Tiberio,
il
maggiore
dei
fratelli
Gracchi,
nel
133
a.C.
ascese
al
tribunato
della
plebe.
La Repubblica finì di esistere nel 27 a.C. quando Gaio Giulio Cesare
Ottaviano
ricevette
dal
Senato
il
titolo
di
Augusto,
divenendo
(anche
se
mai
ufficialmente)
il
primo
imperatore
dell’Urbe.
Si
comprende
con
facilità
come
la
Res
Publica
romana
abbia
seguito
il
suo
iter
parabolico
con
un’ascesa,
un
picco
massimo
e
una
lenta
ed
inesorabile
discesa
verso
il
baratro
rappresentato
dalla
crisi
delle
istituzioni
e
dalla
guerra
civile.
Non che in questo tortuoso percorso di grandezza non ci
siano
stati
ulteriori
apici
di
drammaticità
ma a
ben
pensarci
ogni
evento
sembra
essere
stato
“costruito”
in
virtù
di
una
sorta
di
processo
evolutivo
di
fatti
concatenati
gli
uni
agli
altri.
I
Gracchi
con
la
loro
forza
riformatrice
agirono
in
quel
lasso
temporale
che
segnò
l’inizio
dell’epilogo
repubblicano
o
forse
furono
proprio
loro
a
provocarlo.
Facciamo
qualche
passo
indietro
nel
tempo.
Roma giunse alla Seconda Guerra Punica datata 218-202 a.C.
come
una
nascente
potenza
del
Mediterraneo.
Spadroneggiava
in
Italia
con
qualche
difficoltà
e
contava
un
paio
di
province
strappate
proprio
ai
cartaginesi
nel
corso
del
primo
conflitto
punico
(264-241
a.C.),
ovvero
parte
della
Sicilia
e la
Sardegna-Corsica.
Tra le due guerre aveva esteso la propria influenza sulle
coste
illiriche
e in
Gallia.
Sconfiggendo
a
Telamone
gli
Insubri,
si
era
appropriata
della
loro
capitale,
Mediolanum,
fondando
le
due
colonie
latine
di
Cremona
e
Piacenza.
Il
confronto
con
Annibale
aveva
messo
a
dura
prova
le
forze
della
Repubblica,
aggravate
per
di
più
dall’entrata
in
scena
di
Filippo
V di
Macedonia
(due
guerre
macedoniche
nel
215/205
e
nel
200/196
a.C.).
Ergendosi vincitrice in entrambi gli scenari, l’Urbe si
catapultava
in
una
nuova
realtà,
quella
di
assoluta
potenza
del
Mediterraneo.
Figurarsi
che
nel
146
a.C.
data
che
segnò
la
fine
di
Cartagine,
rasa
al
suolo
da
Scipione
“Emiliano”
in
seguito
al
terzo
conflitto
punico,
Roma
poteva
contare
possedimenti
e
province
in
Spagna,
Africa
e
Macedonia,
alleanze
e
influenze
politiche
in
diverse
realtà
dell’Asia
Minore
(da
ricordare
la
guerra
contro
Antioco
III
dal
190
al
188
a.C.
e la
storica
alleanza
con
Pergamo)
e in
Grecia
(Corinto
fu
distrutta
nel
146
a.C.
e la
Lega
Etolica
sciolta).
La società romana assorbì come una spugna il cosmopolitismo
ellenico,
quasi
ubriacandosene
e
facendolo
suo.
L’antica
cultura
dei
patres,
basata
sui
valori
della
tradizione,
sui
costumi
pratici
e
morigerati,
sul
benessere
della
collettività,
sulla
figura
del
contadino-soldato
pronto
a
lasciare
la
zappa
per
correre
in
difesa
della
propria
patria
cedettero
il
passo
a
visioni
dagli
orizzonti
più
ampi,
proiettate
verso
quel
meraviglioso
mondo
greco/orientale
costituito
di
individualismo,
arte
e
complessità
del
pensiero.
Quasi imbarazzanti i tentativi di Marco Porcio Catone “Censore”
(234-149
a.C.)
di
ostacolare
tale
naturale
processo
di
crescita,
scagliandosi
con
rabbia
contro
il
circolo
degli
Scipioni,
massima
espressione
del
filo-ellenismo
romano
post
conflitto
annibalico.
I
processi
contro
Lucio
Cornelio
Scipione
e il
ben
più
famoso
fratello
Publio
“Africano”,
datati
187
e
184
a.C.,
accusati
di
malversazione
del
bottino
di
guerra
di
Antioco
III,
assestarono
un
duro
colpo
ai
filo-ellenici,
pur
non
riuscendo
a
fermare
l’inarrestabile
evoluzione
della
cultura
capitolina.
Nel 186 a.C. fu anche emanato un Senatus consultum ultimum
de
bacchanalibus
che
intendeva
applicare
una
repressione
del
culto
greco
di
Dionisio
in
Italia,
considerato
un
pericolo
per
l’ordine
pubblico.
Nel
corso
del
II
secolo
a.C.,
alla
diffusione
dell’ellenismo
si
affiancarono
altri
importanti
mutamenti
degli
equilibri
sociali
che
contribuirono
alla
profonda
trasformazione
della
realtà
economica
dell’Urbe.
Maggiori
conquiste
comportarono
l’afflusso
a
Roma
di
immense
ricchezze
e di
schiavi.
L’apertura di nuovi mercati nel Mediterraneo incrementarono
giri
di
affari
sempre
più
favorevoli
per
i
negotiatores
romani
ed
italici.
L’estensione
territoriale
dei
domini
fece
aumentare
a
dismisura
l’ager
publicus,
ovvero
il
terreno
agricolo
che
poteva
essere
affidato
dallo
Stato
ai
privati
cittadini.
La
nobilitas
romana,
formata
non
solo
dagli
appartenenti
alle
antiche
stirpi
patrizie
ma
anche
dai
nuovi
ricchi
di
estrazione
plebea,
si
divise
in
due
fazioni
dagli
interessi
contrapposti.
Da
un
lato
gli
optimates,
rispettosi
dell’autorità
del
Senato
e
della
tradizione,
conservatori
dello
status
quo,
dall’altro
i
populares,
riformatori
convinti
e
sostenitori
del
popolo.
Proprio l’ager publicus costituì negli anni che anticiparono
la
riforma
gracchiana
un
problema
di
prim’ordine.
Vediamone
il
perché.
Tutto
questo
terreno
entrato
nelle
proprietà
della
Repubblica,
era
difficilmente
controllabile
dall’autorità
centrale.
Poco
alla
volta,
i
grandi
proprietari
terrieri,
esponenti
della
nobilitas
sopra
trattata,
se
ne
erano
appropriati
per
dedicarlo
alla
pastorizia
o a
culture
intensive
ai
fini
dell’esportazione.
Nella penisola italica la situazione era ancora peggiore.
Le
tante
guerre
combattute
fuori
confine
avevano
coscritto
la
maggior
parte
dei
contadini.
Molti
erano
morti
sui
campi
di
battaglia.
I
saccheggi
e le
devastazioni
annibaliche
avevano
aperto
profonde
ferite
nel
tessuto
sociale
ed
agricolo,
soprattutto
nel
meridione.
Queste situazioni determinarono la fine della piccola proprietà
terriera
a
favore
di
immensi
latifundia
coltivati
da
frotte
di
schiavi,
tenuti
insieme
a
suon
di
frustate
da
vilici,
spesso
schiavi
a
loro
volta.
Dietro
i
latifondi
maturavano
gli
interessi
di
senatori,
cavalieri
e
nuovi
ricchi.
Chi
tornava
dalle
guerre,
impossibilitato
a
riprendere
in
mano
le
sorti
del
proprio
podere
era
costretto
a
vendere.
Un
esercito
di
nullatenenti,
spesso
strozzati
dai
debiti,
si
riversò
a
Roma
in
cerca
di
una
possibilità
per
riemergere.
Lo straordinario afflusso comportò serie problematiche di
sussistenza.
I
secoli
II e
I
a.C.
furono
quelli
delle
tante
leges
atte
a
promuovere
o
meno
le
frumentazioni,
ovvero
le
distribuzioni
gratuite
o a
prezzo
irrisorio
di
grano
ai
nullatenenti
romani.
Si
iniziò
nel
123
a.C.
con
un
provvedimento
di
Gaio
Gracco.
Silla, dittatore dal 82 al 79 a.C. le abolì del tutto. Nel
78
a.C.
il
console
Marco
Emilio
Lepido
le
rimise
a
prezzo
politico
per
giungere
nel
58
a.C.
a
Publio
Clodio,
contestato
e
violento
tribuno
della
plebe
che
le
rese
gratuite
per
una
vastissima
fetta
della
popolazione
urbana
causando
immensi
problemi
di
approvvigionamento
granario.
Giulio Casere, dittatore perpetuo dal 48 a.C. alle Idi di
Marzo
del
44
a.C.
le
rese
disponibili
per
chi
effettivamente
ne
avesse
bisogno,
depennando
tutti
coloro
che
ne
usufruivano
a
sbafo
grazie
alla
lex
Clodia
frumentaria.
L’ager publicus, una questione lontana nel tempo
Nel 367 a.C. le famose leges Licinie Sextie sancirono
che
un
console
dovesse
essere
di
estrazione
plebea.
Stabilirono
inoltre
dei
limiti
(mai
applicati)
rispetto
a
quanto
ager
publicus
potesse
essere
occupato
dai
privati
cittadini.
Portarono
anche
migliori
condizioni
di
pagamento
per
tutti
coloro
che
avessero
contratto
debiti.
Queste
leggi
sembrano
davvero
profetiche
di
problematiche
che
esplosero
con
drammaticità
oltre
due
secoli
dopo.
Mi sovviene un altro fatto curioso riguardo l’ager publicus.
Nel
232
a.C.
il
tribuno
della
plebe,
Caio
Flaminio
ebbe
la
geniale
idea
di
distribuire
ai
cittadini
romani
le
terre
strappate
(ager
gallicus)
ai
Senoni.
Il
provvedimento
provocò
l’insurrezione
dei
vicini
Boi
e
Insubri.
Flaminio se ne andò all’altro mondo nel 217 a.C. nella disgraziata
disfatta
del
Trasimeno.
Che
poi
a
ragionarci
bene
sopra,
la
fine
della
piccola
proprietà
terriera
significava
di
fatto
la
fine
dell’esercito
romano.
L’arruolamento
infatti
avveniva
per
coscrizione
grazie
alle
cinque
classi
di
censo,
risalenti
secondo
la
tradizione,
all’epoca
del
sesto
re
di
Roma,
Servio
Tullio.
Tale suddivisione timocratica era alla base dell’ordinamento
centuriato
che
formava
i
Comitia
Centuriata,
l’assemblea
del
popolus
exercitus,
ovvero
di
tutti
coloro
in
grado
di
portare
armi.
La
“sesta
classe”
non
dichiarata
era
formata
dai
capite
censi,
cioè
dai
nullatenenti
che
non
potevano
essere
arruolati
in
quanto
impossibilitati
a
comprarsi
le
armi.
I
contadini-soldato
formavano
un
tempo
il
maggiore
bacino
di
coscrizione,
l’ossatura
della
legione.
Tiberio Gracco, salito al tribunato della plebe nel 133
a.C.
deve
aver
riflettuto
a
fondo
su
questo
fatto
in
quanto
la
sua
riforma
fu
tesa
in
primis
a
favorire
la
rinascita
della
piccola
proprietà
agricola.
I
Comitia
Tributa
(altra
assemblea
del
popolo
romano,
riunito
stavolta
in
base
alle
tribù
territoriali
di
appartenenza)
nominarono
una
commissione
triumvirale
formata
dai
due
fratelli
Gracchi
e
dal
princeps
senatus
Appio
Claudio
Pulcro
che
era
anche
il
suocero
di
Tiberio.
Si procedette pertanto alla riorganizzazione dell’ager
publicus,
stabilendo
un
limite
massimo
di
500
iugeri
(125
ettari)
a
quanto
terreno
potesse
essere
occupato
da
un
privato.
Si
poteva
arrivare
a
1000
iugeri
(250
ettari)
per
famiglie
con
più
figli.
Tutto
l’ager
occupato
in
esubero
sarebbe
stato
requisito
per
essere
suddiviso
in
piccoli
lotti
e
assegnato
ai
cittadini
più
poveri
dell’Urbe.
Il tesoro di re Attalo III di Pergamo, (l’attalide spirò
nel
133
a.C.
lasciando
regno
e
tesoro
in
eredità
ai
capitolini),
venne
destinato
a
coprire
le
spese
relative
agli
indennizzi
e
alla
riforma.
Ovvio
che
la
nobilitas
si
oppose
strenuamente
a
questi
provvedimenti.
L’altro tribuno della plebe per l’anno in questione, Marco
Ottavio,
fu
mosso
dal
senato
per
porre
il
veto
alle
proposte
del
collega.
Ricordo
a
tal
riguardo
che
ogni
tribuno
della
plebe
possedeva
lo
ius
intercessionis,
ovvero
la
facoltà
di
porre
il
veto
contro
provvedimenti
emanati
da
altri
magistrati,
che
danneggiassero
i
diritti
della
plebe.
Appare
quantomeno
curioso
che
Marco
Ottavio
abbia
posto
la
sospensione
a
una
proposta
di
legge
nata
per
favorire
in
primis
gli
interessi
della
plebe
urbana.
Tiberio infatti si rivolse con determinazione all’assemblea,
denunciando
il
collega
di
non
assolvere
al
compito
per
il
quale
era
stato
eletto.
Ne
pretese
la
destituzione
che
il
popolo
approvò.
Purtroppo
la
costituzione
romana
non
prevedeva
ancora
che
una
stessa
carica
potesse
essere
reiterata
per
più
anni
di
fila.
Tiberio sapeva quanto la sua vita fosse a rischio. Necessitava
di
un
secondo
mandato
tribunizio
per
poter
avvalersi
dell’inviolabilità
che
spettava
alla
sua
figura
magistratuale.
Presentò
la
candidatura
per
l’anno
132
a.C.
dinanzi
al
Concilium
tributa
plebis.
Gli avversari politici lo accusarono apertamente di aspirare
al
potere
personale.
Scoppiarono
tumulti
e
armati
mandati
dal
Senato,
con
la
scusa
di
provvedere
all’ordine
pubblico,
compirono
una
carneficina
di
gracchiani.
Tiberio
Sempronio
Gracco
fu
ucciso
a
bastonate
e il
suo
cadavere
gettato
nel
Tevere.
Avanti con la riforma
Incredibile a dirsi ma il Senato non ebbe il coraggio di
bloccare
la
riforma
che
andò
avanti
grazie
alla
commissione
triumvirale
rinnovata
di
continuo.
In
mezzo
il
tentativo
di
Publio
Cornelio
Scipione
“Emiliano”,
colui
che
cosparse
di
sale
le
rovine
di
Cartagine
nel
146
a.C.,
di
ostacolarne
l’iter,
interpretando
il
volere
della
nobilitas
sia
romana
che
italica.
L’Emiliano venne eliminato in circostanze misteriose. Interessante
il
“lapis
Polla”
che
risale
proprio
a
questo
periodo.
Trattasi
di
un’iscrizione
epigrafica,
rinvenuta
su
un
cippo
miliario
sulla
strada
che
da
Capua
portava
a
Reggio.
Recita
così:
“Feci
la
via
da
Reggio
a
Capua
e in
quella
via
posi
tutti
i
ponti,
i
milliari
e i
tabellarii.
Da
questo
punto
a
Nocera
51
miglia,
a
Capua
84,
a
Morano
74,
a
Cosenza
123,
a
Vibo
Valentia
180,
allo
Stretto
presso
la
Statua
231,
a
Reggio
237.
da
Capua
a
Reggio
in
totale
321
miglia.
E io
stesso,
pretore
in
Sicilia,
catturai
e
riconsegnai
gli
schiavi
fuggitivi
degli
Italici,
per
un
totale
di
917
uomini,
e
parimenti
per
primo
feci
in
modo
che
sull’agro
pubblico
i
pastori
cedessero
agli
agricoltori.
In
questo
luogo
eressi
un
foro
e un
tempio
pubblici”.
Non sappiamo il nome del magistrato in questione, ma egli
si
vanta
di
aver
costruito
strade
ed
edificato
ponti,
di
essere
intervenuto
in
Sicilia
in
qualità
di
pretore
nella
caccia
agli
schiavi
fuggitivi
(forse
fu
attivo
durante
la
feroce
rivolta
servile
del
140
a.C.).
Quanto più ci interessa è che fu il primo a detta sua a
sottrarre
ager
publicus
alla
pastorizia
intensiva
per
restituirlo
ai
contadini.
Comunque
il
clima
politico
nella
penisola
italica
era
davvero
arroventato
quando
Fulvio
Flacco,
triumviro
della
commissione,
propose
di
estendere
la
cittadinanza
romana
agli
alleati
italici.
Per
poco
non
venne
crocifisso
sull’Appia.
Siamo giunti all’ascesa di Caio Gracco. Correva l’anno 123
a.C.
e al
tribunato
della
plebe
veniva
eletto
il
più
giovane
dei
Gracchi.
Egli
riprese
in
mano
la
riforma
di
Tiberio,
arricchendola
di
una
serie
di
provvedimenti
legislativi
davvero
importanti.
In
primis
varò
una
lex
frumentaria
per
la
distribuzione
di
grano
a
prezzo
irrisorio
al
proletariato
romano.
Di seguito una lex iudiciaria che affidava le giurie
dei
tribunali
permanenti
(le
questiones
perpetuae
istituite
nel
149
a.C.)
ai
cavalieri,
chiamati
a
giudicare
nei
processi
contro
le
malversazioni
dei
governatori
provinciali,
tutti
di
rango
senatoriale.
Per
gli
equestri
venne
emanata
anche
una
lex
de
provincia
Asia
relativa
all’amministrazione
finanziaria
dei
domini
lasciati
in
eredità
da
Attalo
III
di
Pergamo.
Per
sgravare
l’Urbe
dalle
frotte
di
nullatenenti,
Caio
Gracco
propose
la
fondazione
di
ben
tre
colonie
latine,
due
in
Italia
e
una
sulle
rovine
di
Cartagine.
Infine, seguendo i dettami di Fulvio Flacco, ritirò in ballo
la
questione
della
cittadinanza
romana
ai
latini
e
del
diritto
latino
agli
altri
alleati
italici.
A
tal
riguardo
qualche
anno
prima,
la
colonia
di
Fregellae
era
stata
rasa
al
suolo
per
essersi
ribellata
sbandierando
la
volontà
di
ottenere
gli
stessi
diritti
dei
cittadini
capitolini.
Le proposte gracchiane vennero approvate tutte tranne la
lex
de
civitate.
Caio
e
Flacco
partirono
per
l’Africa,
felici
di
poter
fondare
la
loro
prima
colonia
oltremare.
Fu
un
tremendo
errore.
L’altro
tribuno
della
plebe,
un
tal
Marco
Livio
Druso,
mosso
dal
Senato,
propose
una
serie
infinita
di
provvedimenti
ben
impregnati
di
demagogia
e
populismo.
L’azione fu talmente ben diretta che quando Caio rientrò a
Roma
constatò
che
il
suo
astro
politico
era
in
caduta
libera.
Nel
121
a.C.
tentò
di
farsi
eleggere
di
nuovo
al
tribunato
della
plebe
ma
non
venne
preso
in
considerazione.
Inoltre
riguardo
la
fondazione
di
una
nuova
colonia
sul
suolo
di
Cartagine,
corsero
voci
di
presunte
maledizioni
divine
e
segni
contrari.
I
Comitia
Tributa
votarono
che
il
provvedimento
dovesse
essere
revocato.
Caio
Gracco
e
Flacco
si
opposero
con
forza
e ne
nacque
una
rissa
con
gravi
disordini
per
l’ordine
pubblico.
Il Senato non aspettava altro. Ricorse ad un espediente
costituzionale
davvero
interessante,
ovvero
la
procedura
del
Senatus
consultum
ultimum
la
quale
investiva
i
consoli
di
turno
del
compito
di
“salvare
l’Urbe”
con
qualunque
mezzo
a
disposizione.
Il console Opimio promosse il massacro di tutti i Gracchiani
che
fu
attuato
con
particolare
ferocia.
Flacco
fu
ucciso
in
strada
mentre
Caio
Gracco
si
dava
la
morte
con
l’ausilio
di
un
suo
schiavo.
Considerazioni finali e cittadinanza romana
Come successo nel 133 a.C., neppure in seguito ai moti del
121,
il
Senato
ebbe
il
coraggio
di
abolire
la
riforma
agraria
dei
gracchiani
che
proseguì
grazie
al
rinnovo
delle
commissioni
triumvirali.
L’ager publicus venne consegnato in piccoli lotti ai
nullatenenti
romani
ma
il
provvedimento
non
portò
i
risultati
sperati
dai
due
fratelli.
La
piccola
proprietà
agricola
rimaneva
in
uno
stato
di
profonda
crisi
e
ben
presto
la
nobilitas
riprese
ad
accaparrarsi
il
terreno
pubblico
e
quello
degli
indebitati,
addizionandolo
in
immensi
latifundia.
L’esercito romano non era in una situazione migliore, venendo
a
mancare
i
bacini
di
reclutamento.
Il
patrimonio
richiesto
per
far
parte
dell’ultima
classe
dell’ordinamento
centuriato
(in
origine
minimo
11.000
assi)
era
stato
abbassato
nel
corso
degli
anni
a
cifre
davvero
irrisorie
per
permettere
la
coscrizione
di
sempre
più
cittadini.
Lo Stato romano si era persino impegnato a fornire gli armamenti.
Rimanevano
fuori
i
capite
censi,
cioè
coloro
che
non
avevano
reddito
e
che,
incredibile
a
dirsi,
costituivano
una
parte
davvero
consistente
della
popolazione
capitolina.
Gaio Mario, console nel 107 a.C., per combattere la guerra
giugurtina
(112-105
a.C.)
decise
di
arruolare
al
soldo
tutti
coloro
che
si
offrissero
volontari.
Per
i
nullatenenti,
la
legione
rappresentò
la
possibilità
di
una
vita
dignitosa
e di
un
futuro
migliore.
Tramontava
l’ideale
del
contadino-soldato
e
iniziava
l’epopea
dei
grandi
eserciti
di
professionisti
legati
per
la
vita
ai
propri
generali.
Venendo
alla
questione
della
cittadinanza.
Nel 91 a.C. esplodeva la grande guerra sociale. Il casus
belli
fu
determinato
dall’uccisione
del
tribuno
Marco
Livio
Druso
(figlio
del
padre
omonimo
incontrato
in
precedenza)
il
quale
si
era
battuto
per
far
ottenere
la
piena
cittadinanza
romana
agli
alleati
italici.
Nel 95 a.C. era inoltre intervenuta ad aggravare la situazione
la
lex
Licinia
Mucia
che
in
pratica
scandagliava
chiunque
avesse
la
cittadinanza
romana
alla
ricerca
di
l’avesse
ottenuta
senza
requisiti
per
possederla.
Con
l’esclusione
di
Etruschi,
Umbri
e
alcune
ex
colonie
magnogreche,
tutti
gli
italici
presero
le
armi
contro
Roma.
Sanniti,
Irpini,
Lucani,
Marsi,
Peligni,
Apuli,
Campani,
Piceni
etc
etc
si
dotarono
di
una
propria
capitale,
Corfinium
(ribattezzata
poi
Italica)
e
misero
a
ferro
e
fuoco
la
penisola.
Già nel 90 a.C. l’Urbe corse ai ripari con la lex Iulia
de
civitate
del
console
Lucio
Giulio
Cesare.
Il
provvedimento
concedeva
la
cittadinanza
alle
comunità
italiche
rimaste
fedeli
e a
tutte
quelle
che
deponevano
le
armi
in
tempi
brevi.
Nel
89
a.C.
troviamo
la
lex
Plautia
Papiria
la
quale
distribuiva
la
cittadinanza
a
tutti
coloro
che
la
richiedevano
al
pretore
di
Roma
entro
sessanta
giorni
dall’emanazione
della
legge
stessa.
Il fronte italico fu spezzato in due tronconi. Chi voleva
la
cittadinanza
romana
fu
accontentato.
Gli
irriducibili,
fautori
di
un
nuovo
ordine
che
non
contemplasse
la
pressante
presenza
dell’Urbe
rimasero
in
campo.
Il
console
Cneo
Pompeo
Strabone,
padre
di
Pompeo
Magno,
concesse
il
diritto
latino
alle
comunità
transpadane
nel
89
a.C.
grazie
alla
lex
Pompeia.
Silla procedette ad abbattere le ultime sacche di resistenza.
La
penisola
si
riunì
definitivamente
sotto
l’egemonia
romana.
Scomparvero
gradualmente
le
caratteristiche
delle
singole
comunità
italiche
in
quanto
predominò
il
concetto
di
cittadino
romano,
in
grado
di
partecipare
e
votare
nei
Comitia
popolari
e di
concorrere
per
le
cariche
magistratuali.
Nel prologo della crisi della Repubblica, si apriva una
nuova
fase
nella
storia
delle
istituzioni
romane.