N. 95 - Novembre 2015
(CXXVI)
I conti napoletani del Gran Capitano
Il mito di un (falso) caso di corruzione
di Fabio Foria
Si racconta, per enfatizzarne la straordinaria impresa, che la gesta più memorabile di Gonzalo Fernández de Córdoba, il Gran Capitano, fu moltiplicare pane e pesci durante la quinquennale campagna italiana che lo vide protagonista assoluto consacrandolo tra i più valorosi e astuti condottieri della storia.
Di
fronte
alla
resistenza
dimostrata
da
re
Luigi
XII
di
Francia
nel
mantenere
il
possesso
del
Regno
di
Napoli,
conquistato
in
seguito
al
declino
irreversibile
del
ramo
napoletano
degli
aragonesi
nella
figura
di
Federico
I di
Napoli,
la
Monarchia
Spagnola
decise
di
affidare
al
comandante
cordovese
la
missione
di
riassoggettare
i
territori
del
Mezzogiorno.
I
mezzi
a
disposizione,
rispetto
al
nemico,
erano
nettamente
inferiori:
solo
6000
soldati
di
fanteria,
la
maggior
parte
dei
quali
castigliani,
e
700
cavallerizzi.
Non
andò
meglio
con
i
fondi
erogati
dalle
casse
reali
ma,
nonostante
lo
svantaggio,
gli
spagnoli
riuscirono
a
imporsi,
per
di
più
contro
un
esercito
superiore
finanche
come
preparazione
ed
equipaggiamento.
Per
questo
sorprende
la
richiesta
che
re
Ferdinando
II
d’Aragona,
il
Cattolico,
avrebbe
fatto
a
don
Gonzalo
al
termine
della
Guerra
d’Italia,
esigendogli
un
bilancio
completo
delle
spese
dietro
il
sospetto
che
il
Gran
Capitano
potesse
aver
sottratto
delle
somme
per
puro
beneficio
personale.
La
(presunta)
replica
del
comandante
cordovese
restò
immortalata
in
un
aneddoto
ancora
oggi
in
voga
nella
cultura
popolare
iberica:
«Per
pale
e
picconi,
cento
milioni
di
ducati;
per
frati
e
monache
affinché
pregassero
per
gli
spagnoli,
centocinquanta
milioni
di
ducati;
per
guanti
profumati
affinché
i
soldati
non
sentissero
l’odore
delle
battaglie,
duecento
milioni
di
ducati;
per
riporre
le
campane
rovinate
dal
continuo
suonare
per
le
vittorie,
centosettantamila
ducati;
per
la
pazienza
da
tenere
di
fronte
alle
piccolezze
del
re
al
quale
ho
appena
regalato
un
regno,
cento
milioni
di
ducati».
Parole
che
in
Spagna
si
usano
quando
si
ritiene
esagerato
o
fuori
luogo
un
rendiconto
spese
o
semplicemente
per
non
dare
una
spiegazione
non
dovuta.
Ma
quanto
c’è
di
vero
in
questo
detto?
La
risposta
si
inserisce
nell’annosa
questione
della
rivalità
tra
Ferdinando
e il
Gran
Capitano,
che
affonderebbe
le
proprie
radici
nell’adolescenza
del
generale
andaluso
quando
avrebbe
avuto
una
relazione
con
una
giovanissima
Isabella
di
Castiglia,
poi
consorte
del
sovrano
aragonese.
Secondo
la
ricostruzione
di
una
parte
di
storici,
questa
rivalità
sarebbe
stata
mistificata
dopo
la
morte
del
Fernández
de
Córdoba
nel
solco
di
quella
tradizione
letteraria
greco-romana
basata
sull’opposizione
di
un
eroe
a un
essere
a
lui
superiore
(umano
o
divino)
che,
per
impedirgli
di
fare
ritorno
a
casa
e
quindi
liberarsi
di
lui,
lo
obbliga
a
estenuanti
battaglie,
molte
delle
quali
superflue
o
direttamente
senza
alcun
senso.
E
don
Gonzalo
uscì
vittorioso
dal
labirinto
italiano
dopo
una
guerra
durata
cinque
lunghissimi
anni,
a
dispetto
dei
tanti
ostacoli
che
gli
piazzarono
i
suoi
nemici
così
come
il
suo
stesso
re.
Lo
screzio
va
contestualizzato
all’interno
degli
eventi
del
1506,
quando
il
Re
Cattolico
sbarcò
per
la
prima
volta
a
Napoli
poco
dopo
la
notizia
della
morte
di
Filippo
I di
Castiglia,
il
Bello,
suo
avversario
presso
la
corte
castigliana,
e
con
la
situazione
italiana
in
corso
di
stabilizzazione.
Forte
della
firma
del
Trattato
di
Blois,
Ferdinando
mirava
a
rafforzare
il
controllo
nel
lungo
periodo
del
regno
napoletano
ed
era
pronto
a
concedere
favori
e
concessioni
alla
nobiltà
locale,
le
stesse
fino
a
quel
momento
toccate
al
Gran
Capitano
e ai
suoi
fedelissimi
come
premio
per
il
loro
trionfo.
In
questa
occasione
il
re
avrebbe
preteso
dal
cordovese
una
lista
esaustiva
delle
spese
sostenute
durante
la
Guerra
d’Italia,
alimentando
un
clima
di
ingratitudine
e
risentimento
che
si
trascinava
dalla
morte
della
regina
Isabella.
In
effetti,
senza
l’ingombrante
presenza
della
regina,
Ferdinando
si
sentì
libero
di
investigare
sugli
affari
napoletani
di
don
Gonzalo.
Sospettava
non
solo
che
avesse
sottratto
indebitamente
fondi
destinati
all’ardua
campagna,
ma
persino
che
fosse
pronto
a
passare
dalla
parte
del
nemico
cedendo
alle
sirene
di
re
Luigi
XII
di
Francia,
anche
lui
colpito
dalle
straordinarie
capacità
militari
del
comandante
spagnolo,
la
cui
fama
si
era
diffusa
ormai
in
tutta
Europa.
Concretamente
non
esistono
prove
della
richiesta
del
re
spagnolo
né
della
risposta
stizzita
del
generale,
ma
il
rendiconto
spese
della
Guerra
d’Italia
redatto
personalmente
dal
Gran
Capitano
sì
esiste
ed è
attualmente
custodito
presso
l’Archivio
Generale
di
Simancas,
nell’odierna
regione
di
Castiglia
e
León.
Il
documento,
meticoloso
e
veridico
nelle
informazioni,
dimostra
l’estraneità
totale
del
Fernández
de
Córdoba
dalle
accuse
di
corruzione
e
malversazione
di
fondi.
Perché
mai
è
stata
associata
al
Gran
Capitano
quella
frase
così
forte
e,
in
egual
misura,
così
pittoresca?
Don
Gonzalo
incarnava
il
tipico
soldato
spagnolo,
fedele
ma
orgoglioso,
indifferente
alle
ricchezze
materiali
ma
bramoso
di
sfide
epiche
nelle
quali
dimostrare
la
sua
valentia
e
temerarietà,
nonostante
i
risvolti
brutali
e
sanguinolenti.
Lo
stesso
vale
per
re
Ferdinando
II
d’Aragona,
il
cui
ruolo
che
gli
si
attribuisce
nella
vicenda
nasce
non
tanto
da
immancabili
topos
bensì
dalla
sua
coriacea
personalità.
Difatti
il
Trastámara
era
un
monarca
di
incredibile
astuzia
e
freddezza
politica,
calcolatore
e
cinico,
crudele
e
diffidente
per
natura,
come
è
stato
opportunamente
dipinto
dalla
penna
del
Machiavelli
nel
ritratto
a
lui
dedicato
nelle
preziose
pagine
de
Il
Principe.
Nel
1507,
come
ultimo
atto
della
sua
visita
italiana,
il
Re
Cattolico
decise
di
rimuovere
il
Gran
Capitano
dal
ruolo
di
viceré
di
Napoli
per
affidargli
un
incarico
di
scarsissimo
rilievo,
quello
di
sindaco
del
piccolo
comune
andaluso
di
Loja,
dopo
dieci
anni
di
lontananza
dalla
madrepatria.
I
due
tornarono
insieme
in
Spagna
e
don
Gonzalo,
pur
mantenendo
una
granitica
fedeltà
nei
confronti
del
suo
re,
decise
comunque
di
lottare
per
un
destino
diverso,
migliore.
Cercò
a
tutti
i
costi
di
essere
nominato
Maestro
dell’Ordine
di
Santiago
così
da
poter
tornare
a
capo
delle
milizie
spagnole
e
lanciarsi
in
nuove
avventure,
ma
l’aragonese
non
fu
dello
stesso
avviso
ritenendo
di
averlo
già
abbondantemente
ricompensato
per
le
sue
imprese.
Più
di
una
volta
pensò
persino
di
rispedirlo
di
nuovo
in
Italia
ma
con
funzioni
di
secondo
piano
e ad
alto
rischio,
idea
poi
scartata.
I
giorni
dell’esilio
forzato
in
Andalusia
non
si
contraddistinsero
per
pena
e
dolore,
tutt’altro.
Il
Gran
Capitano
visse
in
tranquillità
fino
a
quando,
all’età
di
62
anni,
morì
per
un
attacco
di
febbre
quartana.
La
tragedia
era
servita
sul
piatto
d’argento
dei
cronisti
della
neonata
Monarchia
Spagnola,
soprattutto
nella
fase
successiva
con
i
regni
di
Carlo
V
d’Asburgo
e
Filippo
II
di
Spagna,
entrambi
alla
ricerca
urgente
di
eroi
per
fortificare
gli
animi
della
gente
e
consacrare
un
impero
al
massimo
dello
splendore.
Tra
le
lettere
di
condoglianze
che
arrivarono
alla
famiglia
di
don
Gonzalo
non
mancarono
quelle
di
re
Ferdinando,
nella
quale
ricordava
la
loro
vecchia
amicizia
e ne
esaltava
le
gesta,
e
del
giovane
Carlo,
che
durante
la
fanciullezza
aveva
seguito
con
entusiasmo
la
sua
odissea
italiana.
Casualmente
il
re
aragonese
morì
appena
un
mese
dopo:
era
il
23
gennaio
1516
e,
con
l’addio
a
due
protagonisti
essenziali,
si
chiuse
una
tappa
seminale
nella
costruzione
del
siglo
de
oro
spagnolo.