N. 48 - Dicembre 2011
(LXXIX)
Che cos’è questo golpe? Io so
Trentasette anni dopo, tentativo di un’analisi
di Giuseppe Formisano
Nel 1969 in Italia iniziò la strategia della tensione, una serie di stragi pilotate dallo Stato italiano, in combutta con i gruppi neofascisti, con l’obiettivo di incutere paura ai cittadini ogniqualvolta il paese era prossimo a un spostamento politico a sinistra. Il disordine creato avrebbe fatto accettare l’imposizione di un ordine autoritario al sapor di fascismo. Questa era la strategia che aveva come formula “destabilizzare per stabilizzare”. Gli anni ’70 in Italia sono ricordati come gli “anni di piombo” anche per tali motivi e non sono per le contrapposizioni tra giovani “rossi” di sinistra e giovani “neri” neofascisti.
Il 14 novembre 1974 Pier
Paolo
Pasolini
pubblicò
il
famosissimo
articolo
intitolato
Che
cos’è
questo
golpe?
Io
so.
Tale
pezzo
mostra
eloquentemente
quanto
Pasolini
fosse
analitico
ed
oggettivo
nelle
sue
riflessioni,
spudoratamente
sincero,
ma
soprattutto
lungimirante.
Pasolini, nell’articolo
in
questione,
dice
di
conoscere
i
nomi
dei
mandanti
e
degli
esecutori
delle
stragi
italiane,
ma
senza
avere
prove
e
neppure
indizi.
Conosce
perché
è
uno
scrittore,
un
intellettuale:
«Probabilmente
i
giornalisti
e i
politici
hanno
anche
delle
prove
o,
almeno,
degli
indizi.
Ora
il
problema
è
questo:
i
giornalisti
e i
politici,
pur
avendo
forse
delle
prove
e
certamente
degli
indizi,
non
fanno
i
nomi.
A
chi
dunque
compete
fare
questi
nomi?
Evidentemente a chi non
solo
ha
il
necessario
coraggio,
ma,
insieme,
non
è
compromesso
nella
carica
del
potere,
e,
inoltre,
non
ha,
per
definizione,
niente
da
perdere:
cioè
un
intellettuale.
Un intellettuale dunque
potrebbe
benissimo
fare
pubblicamente
quei
nomi,
ma
egli
non
ha
né
prove
né
indizi.
Il potere e il mondo
-
prosegue
Pasolini
-,
pur
non
essendo
del
potere,
tiene
rapporti
pratici
col
potere,
ha
escluso
gli
intellettuali
liberi
-
proprio
per
il
modo
in
cui
è
fatto
–
dalla
possibilità
di
avere
prove
e
indizi».
Ecco una prima
similitudine
con
l’Italia
di
oggi:
giornalisti
e
politici
conoscono
fatti
e
nomi
che
non
diranno
mai
pubblicamente.
Per
Pasolini,
l’intellettuale,
nella
sua
libertà
dovuta
all’esclusione
dal
potere,
riesce
a
unire
i
pezzi
mancanti
di
un
puzzle
politico
complicato,
ma
proprio
in
virtù
dell’esclusione
non
ha
prove,
non
ha
nemmeno
indizi.
L’unica
certezza
sta
nella
fiducia
della
sua
mente
da
intellettuale.
Quasi come se fosse una
sentenza,
afferma
che
il «coraggio
intellettuale
della
verità
e la
pratica
politica
sono
due
cose
inconciliabili
in
Italia».
La
pratica
e
l’attività
politica
non
operano
con
essenza
realista.
Il
pensiero
intellettuale
opera
con
spirito
critico
per
comprendere
realmente,
cosa
che
non
è
insito
dell’agire
politico,
mosso
perlopiù
da
interessi
personali
o di
partito,
ma a
volte
anche
nazionali,
che
escludono
di
sbandierare
la
verità
intellettuale.
Aggiunge
che
«non
esiste
solo
il
potere:
esiste
anche
un’opposizione
al
potere.
In
Italia
questa
opposizione
è
così
vasta
e
forte
da
essere
un
potere
essa
stessa:
mi
riferisco
naturalmente
al
Partito
Comunista».
Questa è una seconda
similitudine
con
l’Italia
coeva.
Il
Partito
Comunista
non
esiste
più,
ma
almeno
ideologicamente
dovrebbe
esistere
un’opposizione
al
potere,
però
neanche
più
questa
c’è,
è
diventata
anch’essa
un
potere
(più
di
quanto
lo
fosse
allora).
Oggi
i
partiti
d’opposizione
differiscono
da
quelli
del
potere
per
un
solo
e
orrendo
aspetto
per
la
democrazia:
hanno
enormi
reti
clientelari
differenti!
L’intellettuale friulano
definisce
il
PCI
«un
Paese
pulito
in
un
Paese
sporco,
un
Paese
onesto
in
un
Paese
disonesto,
un
Paese
intelligente
in
un
Paese
idiota,
un
Paese
colto
in
un
Paese
ignorante,
un
Paese
umanistico
in
un
Paese
consumistico
(…)
cioè
come
un
Paese
nel
Paese,
l’opposizione
si
identifica
con
un
altro
potere
che
tuttavia
è
sempre
potere».
Tralasciando la differenza
tra
«un
Paese
umanistico
in
un
paese
consumistico»
perché
queste
poche
parole
potrebbero
dar
luogo
a
vive
e
lunghe
discussioni
(ad
esempio,
partendo
dalla
semplice
domanda:
perché
un
paese
consumistico
non
potrebbe
essere
umanistico?),
il
«Paese
d’opposizione»
–
secondo
Pasolini
– si
identifica
in
un
potere
che
si
oppone
al
potere,
ma
che,
ovviamente,
si
comporta
da
partito
di
potere.
Nel
1974,
quando
furono
scritte
queste
parole,
era
già
evidente
che
anche
il
PCI
avesse
i
suoi
campi
d’azione
nei
quali
poteva
facilmente
camminare
perché
erano
campi
creati
e
gestiti
dal
potere
del
partito?
Era
già
allora
eloquente
a
tutti,
o
solo
ad
un
intellettuale
come
Pasolini,
che
i
partiti,
e
quindi
anche
quello
comunista,
erano
«macchine
di
potere
e
clientela»
come
sette
anni
dopo,
nel
1981,
dirà
il
segretario
nazionale
comunista,
Enrico
Berlinguer?
Ancora un’altra parte
dell’articolo
è
degna
di
analisi:
riferendosi
sempre
all’opposizione
dice
che
«nel
caso
specifico,
che
in
questo
momento
così
drammatico
ci
riguarda,
anch’essi
hanno
deferito
all’intellettuale
un
mandato
stabilito
da
loro.
E,
se,
l’intellettuale
viene
meno
a
questo
mandato
–
puramente
morale
e
ideologico
-
ecco
che
è,
con
somma
soddisfazione
di
tutti,
un
traditore».
Qui Pasolini vuole evidenziare
che
se
l’intellettuale
non
svolge
il
proprio
dovere,
a
secondo
della
delega
datagli
da
questa
opposizione,
viene
tacciato
di
tradimento.
Sembri
che
ci
vuole
avvertire
che
anche
nell’opposizione
si
usano
le
stesse
regole
della
maggioranza
di
potere.
Ora
–
continua
l’articolo
–
perché
neanche
gli
uomini
politici
dell’opposizione
se
hanno
-
come
probabilmente
hanno
–
prove
o
almeno
indizi,
non
fanno
i
nomi
dei
responsabili
reali,
cioè
politici,
dei
comini
golpe
e
delle
spaventose
stragi
di
questi
anni?
E’
semplice:
essi
non
li
fanno
nella
misura
in
cui
distinguono
– a
differenza
di
quanto
farebbe
un
intellettuale
–
verità
politica
da
pratica
politica.
E
quindi,
naturalmente,
neanch’essi
mettono
al
corrente
di
prove
e
indizi
l’intellettuale
non
funzionario:
non
se
lo
sognano
nemmeno,
com’è
del
resto
normale,
data
l’oggettiva
situazione
di
fatto.
Ebbene
–
afferma
lo
scrittore
–
proprio
perché
io
non
posso
fare
i
nomi
dei
responsabili
dei
tentativi
di
colpo
di
Stato
e
delle
stragi
(e
non
al
posto
di
questo)
io
non
posso
pronunciare
la
mia
debole
e
ideale
accusa
contro
l’intera
classe
politica
italiana.
L’autore
in
quest’ultima
frase
è
come
se
smontasse
tutto
ciò
che
ha
detto
riconoscendo
di
non
poter
incriminare
i
politici,
ma è
solo
onestà
intellettuale,
e lo
si
evince
con
quando
segue:
Sono
pronto
a
ritirare
la
mia
mozione
di
sfiducia
(anzi
non
aspetto
altro
che
questo)
solo
quando
un
uomo
politico
–
non
per
opportunità
–
cioè
non
perché
sia
venuto
il
momento,
ma
piuttosto
per
creare
la
possibilità
di
tale
momento
–
deciderà
di
fare
i
nomi
dei
responsabili
del
colpi
di
Stato
e
delle
stragi,
che
evidentemente
egli
sa,
come
me,
non
può
non
aver
prove,
o
almeno
indizi.
Pasolini conclude esplicando
quale
potrebbe
essere
un
vero
golpe:
Probabilmente
– se
il
potere
americano
lo
consentirà
–
magari
decidendo
“diplomaticamente”
di
concedere
a
un’altra
democrazia
ciò
che
la
democrazia
americana
si è
concessa
a
proposito
di
Nixon
–
questi
nomi
prima
o
poi
saranno
detti.
Ma a
dirli
saranno
uomini
che
hanno
condiviso
con
essi
il
potere:
con
minori
responsabilità
contro
maggiori
responsabili
(e
non
è
detto,
come
nel
caso
americano,
che
siano
migliori).
Questo
sarebbe
in
definitiva
in
vero
Colpo
di
Stato.
Un mistero italiano (anche
se
sarebbe
giusto
dire,
un
mistero
nella
sua
parte
italiana)
fu
svelato
da
un
uomo
politico.
Nel
1990
Giulio
Andreotti
in
parlamento
svelò
l’esistenza
in
Italia,
così
come
in
altri
paesi
europei,
di
un
esercito
segreto
di
nome
Gladio
pronto
ad
intervenire
in
caso
di
invasione
sovietica
(e
presumibilmente,
anche
in
caso
di
vittoria
elettorale
del
PCI)
.
Uno
degli
uomini
politici
più
in
vista
della
Repubblica
italiana
aveva
svelato
un
segreto
prima
inconfessabile.
Forse,
se
Pasolini
avesse
potuto
ascoltare
quell’intervento
parlamentare,
avrebbe
ritirato
la
sua
«mozione
di
sfiducia».
Forse,
perché
è
difficile
che
Andreotti
non
abbia
agito
per
opportunità.
Basta
vedere
la
data
del
suo
intervento-confessione:
era
il
1990,
il
muro
di
Berlino
era
già
una
montagna
di
macerie
e le
dichiarazioni
dell’allora
capo
del
governo
non
provocarono
un
«vero
Colpo
di
Stato»
come
vaticinato
da
Pasolini.
Lo
sarebbe
stato
se
Andreotti
avesse
parlato
ai
tempi
in
cui
lo
scrittore
osservava,
pensava,
e
poi
alla
fine,
giudicava.
Nel 1990 quei tempi erano
morti
e
sepolti.
Sotto
le
ceneri
del
Muro.