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N. 49 - Gennaio 2012 (LXXX)

Il gollismo
teoria di una democrazia efficiente

di Danilo Caruso

Il generale Charles de Gaulle (1890-1970) ha lasciato alla storia, non solo della Francia, un pesante retaggio di idee e di prassi assorto a ideologia che da lui prende nome. Cominciò a maturare il proprio pensiero negli anni ’30 nel contesto di ambienti di sinistra democristiana e di tendenza filosofica personalista.

Durante la seconda guerra mondiale fu sottosegretario al ministero della guerra (giugno ’40) e dal 18 giugno 1940 organizzò la resistenza contro l’occupazione e il controllo nazisti del suo paese.

Tra il 3 luglio 1944 e il 20 gennaio 1946 fu espressamente capo di governo. Mantenne un orientamento interno di cosiddetta destra sociale: operò il miglioramento del welfare, attuò delle nazionalizzazioni e inoltre introdusse il suffragio femminile. Il gollismo non accetta in pieno la dottrina economica liberista.

Propone una terza via che superi la contrapposizione tra socialismo e capitalismo, non si colloca né a destra né a sinistra e rifiuta l’ottica della divisione sociale poiché le parti non manifestano l’impegno a curare il bene dell’intera nazione.

Prevede un approccio ai fatti a prescindere da un punto di vista obiettivo, propone di risolvere pragmaticamente i problemi e privilegia la volontà, determinante per agire a scapito dell’attesa di fronte allo svolgersi degli eventi o peggio ancora di una sottomissione al cospetto di una forza ritenuta superiore e a cui non sembra possibile opporsi.

De Gaulle dopo aver auspicato negli ultimi anni di guerra un utopico e circoscritto connubio tra Londra e Parigi nei primi del dopoguerra avanzò il progetto (bocciato dagli Inglesi) di una confederazione di Stati europei.

Questa sarebbe stata favorita dall’avvicinamento tra la Francia, il suo fulcro, e la Germania libera: avvicinamento ricostruttivo non solo in relazione all’allora recente passato ma anche in rapporto alla divisione nell’843 del Sacro Romano Impero in tre Stati dalla quale sorsero le due moderne nazioni.

La confederazione sarebbe stata da sostituirsi al poco incisivo Consiglio d’Europa, e da istituirsi attraverso delle adesioni nazionali espresse da referendum e poi con l’elaborazione di una costituzione varata dal consesso delle rappresentanze dei vari Paesi aderenti.

Gli Stati confederati uniti da un atto inter-e-sovra-nazionale avrebbero perso della propria sovranità la sola parte delegata all’unione confederale europea, cui sarebbe spettata la gestione delle materie più importanti (commercio estero, difesa, etc.).

De Gaulle, che tra l’altro è stato fautore della moneta unica, prospettava come modello di amministrazione un consiglio dei capi di governo accanto a un organo giudiziario e a due assemblee (un classico parlamento e un altro di espressione regionale e corporativa). Tuttavia una Comunità europea di difesa (CED, creata nel ’52), fallì ben presto a causa del problema della ricostituzione di un esercito della Repubblica federale tedesca.

La cosa era gradita agli USA in funzione anticomunista nel conflitto di allora tra le due Coree, però temuta dai gollisti che in patria s’impegnarono a non far mantenere gli accordi di fondazione nel ’54. De Gaulle lamentava pure l’ingerenza della NATO e la mancanza di un valido sostrato unitario europeo, necessario a suo avviso nella creazione e nel mantenimento di una comune e autonoma forza militare.

Nel ’53 il generale si ritirò una prima volta dalla politica spinto dal rifiuto dell’impianto costituzionale della IV Repubblica, posizione che aveva fatto passare il proprio partito dagli iniziali successi a forti perdite di consensi. Nel ’57 nacque la CEE.

Rientrò sulla scena, a conclusione dell’incruenta evoluzione di un golpe filogollista iniziato il 13 maggio 1958, il primo giugno dello stesso anno quando, appoggiato dai sostenitori, assunse la guida del governo francese in seguito alla crisi della IV Repubblica, imperniata sul parlamentarismo, che aveva avuto nel ’46 una genesi travagliata e poi espresso esecutivi deboli, per via del frazionamento partitico, e prodotto conseguenti insuccessi (motivo del colpo di mano) nel tentativo di mantenere i domini coloniali: gli ultimi in Algeria (che culmineranno nonostante tutto nel ’62 con la concessione dell’indipendenza).

Perciò il governo gollista propose un diverso disegno costituzionale approvato dall’85,1% dei votanti al referendum del 28 settembre. Il gollismo predilige uno schema politico bipolare e un’architettura dello Stato in cui l’organo di governo, legato alla figura del presidente della repubblica (eletto in maniera diretta dai cittadini), abbia larghi poteri allo scopo di privilegiare un legame verticale “base/leader”).

In base a questa nuova costituzione il capo dello Stato, che non è chiamato politicamente a rispondere del suo operato davanti al parlamento: nomina (e revoca) come “luogotenente”, allorché vi abbia il sostegno della maggioranza, il capo dell’esecutivo (le cui riunioni presiede comunque e che entra in carica subito senza voto di fiducia); ha la possibilità di indire elezioni di rinnovo dell’Assemblea nazionale (la quale ha il potere di sfiduciare il governo) sciogliendola anticipatamente; indica il presidente della corte costituzionale e gode, mentre è in carica, della temporanea sospensione di eventuali procedimenti giudiziari a suo carico.

L’esecutivo può pure proporre delle leggi ai deputati per mezzo di una procedura particolare in funzione della quale queste si intendono approvate se non sono respinte da sfiducia al governo. Quindi alla fine del ’58 de Gaulle fu eletto col 78,5 % dei voti primo presidente della V Repubblica, ma indirettamente da 80.000 grandi elettori (parlamentari e consiglieri di vari livelli amministrativi): verrà rieletto a suffragio universale diretto, al ballottaggio, nel ’65 dopo la contrastata innovazione da lui voluta nel ’62.

Nell’uso delle notevolissime prerogative presidenziali, previste dalla costituzione, oltre a usare in questo citato caso la facoltà di presentare referendum legislativi (art. 11) in modo inappropriato e far introdurre l’avversata norma non ordinaria (il cui varo avrebbe necessitato dell’approvazione parlamentare stando a quanto dettato dall’art. 89), in precedenza nel ’61 aveva esercitato per alcuni mesi leciti poteri dittatoriali, in virtù dell’art. 16, al fine di sventare l’attuazione di un colpo di Stato.

Questo autoritarismo democratico fu agevolato da un lato dall’impossibilità costituzionale dei cittadini a promuovere referendum (attenuata nel 2008) e dall’altro dal sistema elettivo dei deputati basato su un maggioritario a doppio turno con soglia di sbarramento al primo (in luogo del proporzionale della IV Repubblica) che contribuì a ridurre la rappresentanza parlamentare delle sinistre e a far scomparire molti partiti dallo scenario.

Negli affari esteri de Gaulle manifestò in principio la volontà di seguire il cammino comunitario europeo a dispetto della contrarietà di una parte dei gollisti che paventavano la cancellazione dell’identità e della sovranità francesi. Fu dell’inizio degli anni ’60 una proposta di ulteriore associazione politica, denominata “piano Fouchet”, non andata in porto.

Motivi ostacolanti furono i rifiuti transalpini della NATO, dell’ingresso inglese nella CEE e del verticismo antinazionale degli organi della Comunità: in particolare Londra, che rifiutava l’idea confederativa di de Gaulle, era giudicata rappresentante delle convenienze proprie e americane.

Tale piano contemplava in più alla guida un collegio presidenziale (composto da capi di Stato e primi ministri) supportato da tre commissioni ministeriali (formate dagli incaricati di difesa, esteri e istruzione per una gestione unificata delle materie), da un consiglio di burocrati dei vari ministeri degli esteri e da un parlamento dotato di poteri consultivi. Malgrado il fallimento un accordo tra Parigi e Bonn nel ’63 ne mise in atto l’aspirazione verso alcuni aspetti.

De Gaulle nel ’65 si oppose ad alcuni adeguamenti degli organi della CEE già previsti che, secondo lui, avrebbero ridimensionato il ruolo della Francia e la tutela di qualsiasi parte a beneficio di un’artificiosa sfera di potere sovranazionale e di un meccanismo integrativo che avrebbe appiattito le specificità popolari di natura culturale e spirituale. Il confronto si ricompose all’inizio dell’anno seguente grazie all’adozione di misure che mitigavano la precedente programmazione comunitaria: l’auspicio gollista era una confederazione di Stati, in linea formale col pensiero esposto nel tempo di un’Europa unita a due livelli (la singola componente statale-nazionale legata agli altri da un’egida.

L’ambizione di un’Europa che diventasse coesa (dall’Atlantico agli Urali, con la Germania riunificata) e ago della bilancia nella politica mondiale (auspicato terzo polo a vocazione anticomunista, autonomo rispetto agli Stati Uniti) portò le forze militari francesi, a gradi tra il ’59 e il ’66, fuori dell’inquadramento nelle strutture della NATO (ci sono ritornate nel 2009) e l’Eliseo a dotarsi di sue armi nucleari.

Un piano segreto franco-italo-tedesco, stipulato nel ’56, volto a produrre armi atomiche a difesa di questi Paesi, non era andato più avanti a causa della diffidenza e della defezione del ritornato de Gaulle.

Il settore industriale nazionale però non era così sviluppato al punto di accompagnare le mire del generale conquistando significativi e ampi spazi economici all’estero che ne avrebbero meglio sostenuto la strategia internazionale.

I progetti di innovazione interna della seconda metà degli anni ’60 che contemplavano una scuola più professionalizzata e tagli per i lavoratori animarono un grande moto di contestazione che toccò l’apice nel maggio del ’68. Superò abilmente quel momento di difficoltà e sciolta l’Assemblea nazionale ottenne un successo elettorale a giugno.

La personale parabola neocesariana del generale, accusato di antisemitismo d’occasione all’epoca della guerra dei sei giorni (fu ostile a Israele, alleato degli USA, cui aveva applicato l’embargo nel ’67) si concluse con le dimissioni il 28 aprile 1969 – che aveva prospettato in caso di esito negativo – a seguito della sconfitta in un referendum legislativo che avrebbe trasformato il senato francese (eletto da una corpo di grandi elettori costituito da deputati e pubblici amministratori) in una camera corporativa delle regioni e decentrato delle funzioni agli enti amministrativi regionali.



 

 

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