N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
la parabola di Gneo Pompeo il Magnus
Dalla gloria dei trionfi alla solitudine della fuga
di Paola Scollo
«Mi
è
caro
il
figlio
del
padre
che
odio»
(TGF
fr.201
Nauck).
Con
questo
verso,
tratto
dal
Prometeo
liberato
di
Eschilo,
Plutarco
sintetizza
il
sentimento
(pathos)
che
il
popolo
romano
nutre
nei
confronti
di
Gneo
Pompeo
Magno.
Infatti,
spiega
nell’incipit
della
Vita
di
Pompeo,
«i
Romani
non
mostrarono
nei
confronti
di
alcun
altro
generale
un
odio
più
tenace
e
violento
di
quello
riservato
a
Strabone,
il
padre
di
Pompeo
[…].
Viceversa,
nessun
Romano
godette
più
di
Pompeo
da
parte
del
popolo
di
una
benevolenza
così
grande,
che
così
presto
si
manifestasse,
crescesse
coi
successi
e
rimanesse
inalterata
nonostante
le
sconfitte»
(Pomp.
I).
Plutarco
pone
alle
origini
dell’odio
per
Strabone
l’insaziabile
desiderio
di
ricchezze,
laddove
la
semplicità
del
tenore
di
vita,
l’abilità
militare,
l’eloquenza,
la
lealtà
del
carattere,
l’affabilità
nei
rapporti
umani,
la
capacità
di
donare
senza
alterigia
e di
ricevere
con
dignità
vengono
considerate
le
molteplici
cause
dell’amore
(agape)
verso
Pompeo.
Qualità
che,
peraltro,
vanno
ad
aggiungersi
alla
bellezza
fisica,
che
«contribuì
in
modo
considerevole
a
guadagnargli
consensi
ancor
prima
di
aprire
bocca».
Nell’immagine
di
Plutarco,
il
successo
di
Pompeo
deriva
dalla
capacità
di
proporsi
quale
paradeigma
per
i
suoi
concittadini
grazie
a un
modus
operandi
ispirato
ai
boni
mores.
Figlio
del
generale
Gneo
Pompeo
Strabone,
senatore
nell’89
a.C.,
sin
da
giovanissimo
Pompeo
partecipa,
al
seguito
del
padre,
a
numerosi
conflitti,
acquisendo
ottime
capacità
in
campo
militare.
Quando
Silla
sbarca
a
Brindisi,
ne
diviene
sostenitore.
Nell’80
a.C.
in
Africa,
dove
è
stato
inviato
per
combattere
contro
i
seguaci
di
Mario,
viene
accolto
dai
soldati
con
l’appellativo
di
Magnus,
Grande,
il
solo
dopo
Alessandro.
Nel
79
a.C.,
a 29
anni,
celebra
a
Roma
il
suo
primo
trionfo.
Ed è
proprio
a
partire
da
questo
momento
che
i
rapporti
con
Silla
iniziano
a
deteriorarsi.
Spiega,
infatti,
Plutarco:
«Silla
si
amareggiava
vedendo
a
quale
punto
di
fama
e di
potenza
Pompeo
stesse
innalzandosi
ma,
avendo
ritegno
a
opporsi,
non
prese
alcuna
iniziativa,
eccetto
in
un
caso,
e
cioè
quando
costui,
con
la
forza
e
contro
il
suo
volere,
impose
Lepido
come
console,
sostenendone
la
candidatura
e
procurandogli
il
favore
del
popolo
grazie
al
proprio
credito»
(Pomp.
XV).
In
seguito
al
ritiro
di
Silla
dalla
scena
politica,
Pompeo
è
impegnato
in
vari
conflitti,
per
cui
può
fare
ritorno
a
Roma
soltanto
nel
71,
dopo
sei
anni
di
assenza.
Nell’Urbe
gli
viene
decretato
un
secondo
trionfo,
dopo
quello
del
79,
per
aver
contribuito
alla
riaffermazione
della
dignità
del
tribunato
della
plebe
attraverso
la
lex
Aurelia
iudiciaria,
proposta
da
Cotta.
Ma i
successi
non
esaltano
Pompeo:
per
natura
(physei)
è
saggio
e
moderato
nei
desideri.
Nel
corso
dello
stesso
anno,
mettendo
da
parte
ogni
contrasto,
stringe
un’alleanza
con
Crasso
al
fine
di
ottenere
l’elezione
al
consolato
per
il
70.
I
due
sostenitori
di
Silla
vengono
eletti
consoli
con
un
programma
popolare.
Sin
da
subito
promuovono
riforme
volte
a
sottrarre
alla
nobilitas,
incapace
di
amministrare
la
res
publica,
l’auctoritas
che
le
era
stata
accordata
da
Silla.
In
generale,
Crasso
esercita
maggiore
influenza
sul
senato,
laddove
Pompeo
gode
di
maggior
favore
presso
il
popolo.
Al
termine
dell’incarico,
Pompeo
si
mostra
raramente
in
pubblico.
Secondo
Plutarco,
«pensava
di
dover
preservare
la
propria
dignità
da
contatti
e da
rapporti
pubblici.
Il
portare
la
toga
-osserva
il
biografo-
rischia,
in
verità,
di
eclissare
la
gloria
di
coloro
che
hanno
acquisito
fama
in
guerra
e
che
male
si
adattano
all’uguaglianza
della
vita
democratica:
essi
pretendono
di
eccellere
nella
vita
civile
come
in
quella
militare,
mentre
gli
altri,
che
meno
si
sono
distinti
in
quest’ultima,
non
accettano
di
non
primeggiare
almeno
nella
prima»
(Pomp.
XXIII).
Pompeo
rimane
in
attesa
dell’evoluzione
degli
eventi
e,
in
effetti,
l’occasione
propizia
non
si
fa
attendere.
L’eccellenza
raggiunta
dall’organizzazione
delle
forze
dei
pirati
è
motivo
di
forti
preoccupazioni
per
Roma.
I
pirati
penetrano
con
estrema
facilità
in
tutto
il
Mediterraneo,
attaccando
e
assediando
numerose
città.
Stando
alle
fonti,
quattrocento
città
sarebbero
state
prese,
isole
come
Delo
ed
Egina
devastate,
città
e
templi
depredati.
In
Italia
le
coste
maggiormente
esposte
al
pericolo
pirateria
sembra
siano
state
quelle
di
Brundisium,
della
Campania
e
dell’Etruria.
Nonostante
l’iniziale
opposizione
del
senato,
viene
approvata
la
lex
Gabinia
de
piratis
persequendi
con
cui
vengono
affidati
a
Pompeo
poteri
proconsolari
illimitati,
per
una
durata
di
tre
anni,
da
esercitare
su
tutto
il
Mediterraneo
e
sulle
zone
costiere,
per
un
totale
di
50
miglia
dal
mare
in
profondità.
Stando
a
Plutarco,
il
giorno
previsto
per
la
votazione
della
legge,
Pompeo
si
ritira
in
campagna.
Informato
della
ratifica,
ritorna
a
Roma
di
notte,
temendo
di
essere
oggetto
di
invidia.
Il
giorno
seguente,
compie
un
sacrificio,
si
reca
in
assemblea
e
ottiene
il
doppio
dei
mezzi,
ossia
20
legioni,
una
flotta
di
500
navi
e
6.000
talenti.
La
campagna
militare
ha
inizio
nella
primavera
del
67
a.C.
e,
dopo
soli
quaranta
giorni,
Pompeo
riesce
a
liberare
i
mari
occidentali
dai
pirati.
Resa
sicura
Roma,
si
volge
quindi
all’Oriente,
offrendo,
ancora
una
volta,
dimostrazione
di
eccellenti
abilità
tattiche
e
strategiche.
Con
un
notevole
dispiegamento
di
forze,
divide
il
Mediterraneo
e il
Mar
Nero
in
tredici
settori,
ognuno
dei
quali
è
affidato
al
controllo
di
un
suo
legato.
In
tre
mesi
riesce
a
sottrarre
ai
pirati
l’isola
di
Creta,
le
coste
della
Cilicia,
della
Panfilia
e
della
Licia.
Provvede
poi
ai
sopravvissuti,
disponendo
di
farli
trasferire
in
regioni
interne
e in
città
spopolate.
Infine,
affida
a
Cecilio
Metello
la
gestione
dei
pirati
cretesi,
in
quanto
si
prepara
a
un’impresa
più
ardua:
la
continuazione
della
guerra
contro
Mitridate
e
Tigrane,
la
cui
gestione
era
stata
affidata
da
tempo
a
Lucullo.
Di
fronte
ai
clamorosi
successi
di
Pompeo,
il
tribuno
della
plebe
Manilio
avanza
una
proposta
di
legge,
la
cosiddetta
Pro
lege
Manilia
de
imperio
Cnei
Pompei,
in
base
alla
quale
il
generale
avrebbe
ottenuto
i
paesi
e
gli
eserciti
sottoposti
a
Lucullo,
la
Bitinia
e il
comando
della
guerra
contro
i re
Tigrane
e
Mitridate,
con
a
disposizione
la
flotta
e il
potere
sul
mare.
In
sintesi,
secondo
Plutarco,
«lo
Stato
romano
veniva
affidato
al
governo
di
un
solo
uomo:
infatti,
le
uniche
province
che,
in
base
alla
legge
precedente,
sembrava
gli
fossero
sfuggite,
ovvero
Frigia,
Licaonia,
Galazia,
Cappadocia,
Cilicia,
Colchide
Superiore
e
Armenia,
gli
venivano
tutte
affidate
insieme
agli
eserciti
e al
potere
di
cui
aveva
disposto
Lucullo
nelle
sue
campagne
contro
Mitridate
e
Tigrane»
(Pomp.
XXX).
Nel
giudizio
di
Plutarco,
i
senatori
non
si
rammaricano
per
la
sostituzione
di
Lucullo
al
comando
della
guerra:
nutrono,
piuttosto,
il
timore
che
l’imperium
di
Pompeo
possa
costituire
una
seria
minaccia
per
la
libertas
dello
Stato,
degenerando
in
una
vera
e
propria
tirannide.
Tuttavia,
al
momento
di
decidere,
per
timore
del
popolo
i
senatori
rimangono
in
silenzio.
Soltanto
Catulo
inizia
a
gridare
dalla
tribuna,
«sollecitando
i
senatori
a
cercare,
come
i
loro
antenati,
un
monte
e
una
rupe
scoscesa
per
trovarvi
riparo
e
salvare
la
libertà»
(Pomp.
XXX).
La
legge
viene
approvata
e
Pompeo
riceve
«quasi
tutti
i
poteri
che
aveva
ottenuto
Silla
impadronendosi
di
Roma
con
la
forza
delle
armi»
(Pomp.
XXX).
In
breve
tempo,
il
Magnus
vanifica
l’operato
di
Lucullo,
soltanto
per
gelosia
e
per
dimostrare
ai
sostenitori
di
averlo
ridotto
all’impotenza.
Lucullo
è
maggiore
per
età
e
per
dignità
consolare,
ma
Pompeo
gode
di
un
prestigio
superiore
grazie
ai
due
trionfi.
L’inasprimento
dei
rapporti
induce
Pompeo
e
Lucullo
a
concordare
un
incontro
in
Galizia.
Come
spiega
Plutarco,
nel
corso
dei
colloqui
i
due
non
riescono
a
trovare
punti
di
incontro;
anzi,
arrivano
agli
insulti
perché
Pompeo
rimprovera
a
Lucullo
la
sua
cupidigia
e
Lucullo
a
Pompeo
la
sete
di
potere.
Lucullo
riparte.
Pompeo,
dopo
aver
posto
sotto
il
controllo
della
flotta
il
mare
compreso
tra
la
Fenicia
e il
Bosforo,
si
dirige
contro
Mitridate,
che
dispone
di
un
esercito
di
trentamila
fanti
e
duemila
cavalieri,
senza
tuttavia
attaccare
battaglia
(XXXII).
Pompeo
priva
gradualmente
Mitridate
dell’appoggio
dei
suoi
alleati,
a
partire
da
Tigrane.
Nel
64
a.C.,
dopo
aver
sconfitto
le
ultime
resistenze
di
Iberi
e
Albani,
conquista
il
Ponto,
che
diviene
provincia
romana.
Lo
straordinario
successo
consacra
Pompeo
quale
erede
di
Lucullo,
l’uomo
chiamato
dal
destino
a
difesa
della
res
publica.
Successivamente,
riprende
il
viaggio
«ormai
con
maggiore
solennità»,
dando
prova
della
sua
grandezza
d’animo.
A
Mitilene
concede
libertà,
per
rispetto
di
Teofane,
e
prende
parte
al
certame
poetico
in
onore
delle
sue
gesta;
a
Rodi
ascolta
i
sofisti
e
dona
loro
un
talento
come
premio;
ad
Atene
ascolta
i
filosofi
e
dona
cinquanta
talenti
alla
città
per
i
lavori
di
restauro.
Dopo
aver
sconfitto
quattordici
nazioni,
aver
offerto
un
nuovo
assetto
alle
province
d’Oriente
e
aver
fondato
numerose
città,
Pompeo
decide
di
ritornare
in
Italia,
con
la
speranza
di
presentarsi
come
il
più
illustre
degli
uomini.
Tuttavia,
scrive
Plutarco,
«quel
dio
(daimon),
che
ha
sempre
cura
di
mescolare
una
parte
di
infelicità
ai
grandi
e
splendidi
doni
della
fortuna,
gli
teneva
in
serbo
già
da
tempo
un
ritorno
doloroso».
Il
generale
sbarca
a
Brindisi
nel
dicembre
del
62
e, a
dispetto
di
ogni
previsione,
scioglie
l’esercito.
Questa
decisione
gli
procura
molte
simpatie.
Un
cospicuo
numero
di
Romani
si
riversa
sulle
strade
per
accoglierlo:
«erano
una
massa
di
persone
superiore
agli
effettivi
del
suo
esercito,
così
che,
se
allora
avesse
pensato
di
rovesciare
il
governo
e di
fare
la
rivoluzione,
non
avrebbe
avuto
bisogno
delle
sue
truppe»
(Pomp.
XLIV).
Il
senato
lo
saluta
con
l’appellativo
di
Magnus
e
decreta
in
suo
onore
un
trionfo
per
il
29
settembre
del
61.
Si
tratta
del
terzo
trionfo.
A
dire
il
vero,
come
nota
Plutarco,
anche
altri
in
passato
avevano
ricevuto
tre
trionfi,
ma
Pompeo,
«avendo
trionfato
per
la
prima
volta
sull’Africa,
la
seconda
sull’Europa
e,
infine,
sull’Asia,
sembrava
aver
sottomesso
in
qualche
modo,
con
i
tre
trionfi,
il
mondo
intero
(oikoumene)»
(Pomp.
XLV).
Le
celebrazioni
proseguono
per
due
giorni,
«un
tempo
insufficiente
rispetto
all’importanza»
(Pomp.
XLIV).
Le
insegne
indicano
Paesi
e
popolazioni
sottomessi:
Ponto,
Armenia,
Paflagonia,
Cappadocia,
Media,
Colchide,
Iberi,
Albani,
Siria,
Cilicia,
Mesopotamia,
Fenicia,
Palestina,
Giudea,
Arabia.
A
ciò
occorre
aggiungere
mille
fortezze,
quasi
novecento
città
e
ottocento
navi
strappate
ai
pirati,
oltre
che
la
fondazione
di
trentanove
città
e
svariati
tributi
e
trofei.
In
ricordo
dello
straordinario
evento,
viene
avviata
la
costruzione
nel
Campo
Marzio
del
primo
teatro
permanente
in
pietra
con
un
tempio
dedicato
a
Venere
Victrix.
Il
confronto
con
Alessandro
Magno
è
inevitabile,
così
come
inevitabile
si
configura
l’amara
osservazione
di
Plutarco:
«Quanto
avrebbe
guadagnato
a
concludere
la
sua
vita
allora,
quando
aveva
la
fortuna
di
Alessandro!
Gli
anni
successivi,
infatti,
gli
recarono
invidiabili
successi,
ma
anche
sventure
irrimediabili»
(Pomp.
XLVI).
Nella
sua
corsa
verso
il
dominio,
Pompeo
trascura
un
aspetto
decisamente
importante.
Un
nuovo
personaggio
si
affaccia
sulla
scena
politica
di
Roma:
Caio
Giulio
Cesare.
Infatti,
è
proprio
grazie
all’appoggio
di
Pompeo
che
Cesare
riesce
a
conquistare
il
potere.
Una
volta
rientrato
dalla
trionfale
spedizione
in
Gallia,
che
gli
era
valsa
grandi
consensi,
Cesare
aspira
al
primo
consolato.
Per
questa
ragione,
decide
di
sfruttare
le
tensioni
politiche
interne
alleandosi,
in
un
primo
momento,
sia
con
Pompeo
sia
con
Crasso.
Si
tratta
del
primo
triumvirato
della
storia
di
Roma.
L’alleanza
tra
Pompeo
e
Cesare
si
rafforza
quando
nel
59
a.C.
Pompeo
sposa
Giulia,
figlia
di
Cesare,
ottenendo
così
il
governo
della
Spagna
Ulteriore.
Tuttavia,
a
partire
dal
56
a.C.,
i
rapporti
fra
i
triumviri
cominciano
a
incrinarsi.
Nel
corso
di
una
riunione
segreta
a
Lucca,
Cesare
decide
di
rinnovare
il
consolato
di
Crasso
e
Pompeo
per
il
55.
Cesare
ottiene
in
tal
modo
il
prolungamento
del
potere
proconsolare
per
altri
cinque
anni,
Crasso
il
governo
della
Siria
e
Pompeo
il
governo
in
absentia
della
Spagna.
Nonostante
gli
accordi,
la
situazione
è
critica:
l’ipotesi
della
guerra
civile
è
ormai
concreta
realtà.
Dapprima,
Pompeo
crede
di
poter
sconfiggere
Cesare.
In
effetti,
stando
a
Plutarco,
all’età
di
cinquantotto
anni
è
ancora
perfettamente
in
grado
di
combattere
a
piedi
armato,
di
montare
a
cavallo,
di
sguainare
la
spada
in
scioltezza,
imprimendo
velocità
al
cavallo,
e di
deporla
con
destrezza.
Rivela
poi
molta
precisione
nel
lancio
del
giavellotto
e,
soprattutto,
grande
capacità
nel
raggiungere
distanze
difficili
da
superare
anche
per
i
giovani.
Re e
principi
stranieri
affollano
il
suo
campo
e lo
stesso
Cicerone
pare
si
sia
vergognato
di
non
figurare
nella
schiera
di
coloro
che
affrontavano
il
pericolo
per
la
patria
(Pomp.
LXIV).
L’atteggiamento
di
Pompeo
in
battaglia
infonde
coraggio
ai
soldati
che,
esaltati
dai
successi
iniziali,
cercano
di
affrettare
lo
scontro.
Ma,
quando
nella
primavera
del
49
a.C.
Cesare
oltrepassa
il
Rubicone,
Pompeo
ordina
alle
sue
truppe
di
fuggire:
preferisce
evitare
lo
scontro
diretto,
limitandosi
a
inseguire,
assediare
e
logorare
il
nemico
con
la
mancanza
di
rifornimenti.
I
pompeiani
raggiungono
Brindisi,
da
dove
salpano
per
l’Oriente.
Pompeo
riesce
a
conquistare
Dyrrachium,
ma
non
è
capace
di
sfruttare
favorevolmente
la
situazione.
Come
afferma
lo
stesso
Cesare,
citato
da
Plutarco,
«il
nemico
avrebbe
vinto,
se
avesse
avuto
un
comandante
che
era
un
vincitore»
(Pomp.
LXV).
Lo
scontro
decisivo
avviene
a
Farsalo,
in
Grecia,
nel 48.
Le
sorti
della
battaglia
appaiono
chiare
a
Pompeo
in
un
sogno
premonitore:
«[…]
gli
sembrava
di
entrare
nel
suo
teatro
fra
gli
applausi
della
folla
per
ornare
con
molte
spoglie
il
tempio
di
Venere
Vittoriosa.
Tale
visione,
se
da
una
parte
lo
incoraggiò,
dall’altra
lo
angustiò,
perché
gli
sembrava
di
essere
lui
stesso
la
causa
di
fama
e di
gloria
per
Cesare,
la
cui
stirpe
risaliva
a
Venere.
Un
subbuglio,
indizio
di
panico,
che
pervadeva
il
campo,
lo
svegliò.
Invece,
al
di
sopra
del
campo
di
Cesare,
dove
regnava
la
massima
tranquillità,
al
cambio
della
guardia
del
mattino
risplendette
una
gran
luce,
da
cui
si
levò
una
fiamma
ardente
che
andò
ad
abbattersi
sul
campo
di
Pompeo.
Lo
stesso
Cesare
afferma
di
aver
visto
questo
prodigio
mentre
passava
in
rassegna
le
prestazioni
di
guardia»
(Pomp.
LXVIII).
Una
volta
dato
il
segnale
di
combattimento,
pochi
Romani,
i
migliori
secondo
Plutarco,
e
alcuni
Greci,
estranei
al
combattimento,
vedendo
avvicinarsi
il
momento
fatale,
riflettevano
«su
come
la
smania
di
prevalere
e
l’ambizione
avessero
trascinato
l’impero
sino
a
quel
punto.
Infatti
-prosegue
il
biografo-
si
trovavano
di
fronte
armi
ed
eserciti
dello
stesso
sangue
e
della
stessa
razza,
insegne
comuni,
tante
truppe
valorose
e
possenti
di
una
stessa
città,
che
se
ne
serviva
per
rivolgerle
contro
se
stessa.
Ciò
sta
a
dimostrare
che
la
natura
umana,
quando
è
dominata
dalla
passione,
è
cieca
e
folle»
(Pomp.
LXX).
Il
combattimento
viene
avviato
con
colpi
di
spada.
Le
perdite
sono
numerose.
I
seguaci
di
Pompeo
cercano
di
circondare
il
nemico
ma,
proprio
mentre
procedono
all’accerchiamento,
non
riescono
a
sostenere
l’urto:
vengono
travolti
e
cadono
essi
stessi
vittime
della
manovra.
Plutarco
afferma
di
non
essere
in
grado
di
stabilire
con
certezza
quali
pensieri
affollassero
la
mente
di
Pompeo
in
quei
terribili
attimi
dello
sfondamento,
laddove
la
disfatta
della
cavalleria
doveva
apparire
certa.
Con
ogni
probabilità,
il
suo
aspetto
doveva
essere
«quello
di
un
folle
e di
un
forsennato
che
non
si
ricordava
neppure
di
essere
Pompeo
Magno».
Con
questa
espressione,
il
generale
doveva
procedere
a
passi
lenti,
di
nascosto,
indossando
«un
abito
adatto
alla
sventura
del
momento»
(Pomp.
LXXII).
Per
la
prima
volta,
dopo
trentaquattro
anni
di
dominio
incontrastato
e di
vittorie,
Pompeo
fa
esperienza
della
sconfitta.
I
trionfi
sono
ormai
arcano
ricordo.
E,
in
questa
dimensione
di
precarietà,
non
vi è
più
nulla
in
lui
dell’antica
magnitudo:
improvvisamente,
si
rivela
un
essere
piccolo,
insignificante.
Nel
momento
della
difficoltà,
quando
non
è
più
assiso
sul
currus
triumphalis,
quando
la
Venere
Victrix
non
ne
asseconda
e
sostiene
l’azione,
il
Magnus
si
ritrova
solo,
abbandonato
da
tutti.
Ed è
costretto
a
darsi
alla
fuga.
A
bordo
di
una
nave
raggiunge
Anfipoli,
quindi
Mitilene
per
prendere
con
sé
la
moglie
Cornelia.
Alla
vista
del
marito,
pare
che
Cornelia
abbia
affermato:
«Io
ti
vedo,
marito
mio,
per
opera
non
già
della
tua
fortuna
ma
della
mia,
sbattuto
in
quest’unica
imbarcazione,
tu
che,
prima
di
sposare
Cornelia,
navigavi
su
questo
mare
con
cinquecento
navi!
Perché
sei
venuto
a
trovarmi
e
non
hai
abbandonato
al
suo
triste
destino
colei
che
ha
colmato
anche
te
di
tanta
sventura?
Che
donna
fortunata
sarei
stata
se
fossi
morta
prima
di
sapere
che
Publio,
il
mio
primo
marito,
era
caduto
combattendo
contro
i
Parti,
e
come
sarei
stata
saggia
se,
dopo
di
lui,
avessi
rinunciato
alla
vita
come
ero
sul
punto
di
fare!
L’ho
conservata
soltanto
per
causare
la
rovina
di
Pompeo
Magno!».
La
risposta
di
Pompeo
non
si
fa
attendere:
«Tu
conoscevi,
dunque,
Cornelia,
solo
una
parte
della
mia
fortuna,
la
migliore,
ed
essa
ti
ha
ingannato,
forse
perché
è
durata
più
a
lungo
del
solito.
Ma
noi
dobbiamo
sopportare
anche
questo,
perché
siamo
uomini,
e
tentare
di
nuovo
il
destino.
Non
si
deve
disperare
di
tornare
dalla
condizione
presente
a
quella
passata,
se
da
quella
si è
passati
a
questa»
(Pomp.
LXXIV).
Di
fronte
alla
drammaticità
degli
eventi
e ai
sensi
di
colpa
di
Cornelia,
Pompeo
continua
a
mostrare
coraggio
e
fiducia
nel
futuro,
mantenendo
inalterata
la
grandezza
propria
dei
magni
viri.
Con
la
moglie
e
alcuni
amici
prosegue
il
viaggio,
alla
ricerca
di
un
approdo
sicuro.
Sceglie
l’Egitto
e
mai
scelta
si
rivelò
essere
per
lui
più
funesta.
Infatti,
alla
corte
di
Tolemeo,
«quel
dio
(daimon),
che
ha
sempre
cura
di
mescolare
una
parte
di
infelicità
ai
grandi
e
splendidi
doni
della
fortuna»
gli
avrebbe
sferrato
l’estremo
fatale
colpo.
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