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N. 112 - Aprile 2017 (CXLIII)

GNAEUS NEVIUS
 PARTE II - PRODUZIONE TEATRALE TRA MODELLI GRECI E INNOVAZIONE

di Daniela Maria Graziano

 

Della sua attività teatrale rimangono sei titoli di tragedie cothurnatae (di argomento greco, dette così per il fatto che gli attori indossavano i cothurni, sandali greci): Aesiona, Danae, Equos Troianus, Iphigenia, Hector Proficiscens, Lycurgus. La tragedia meglio conosciuta è il Lycurgus, di cui rimangono 24 frammenti: Licurgo, re di Tracia, viene punito da Bacco, poiché aveva cacciato dalla sua terra il dio e le Baccanti.

 

L’innovazione che Nevio portò nel panorama letterario latino fu l’introduzione della fabula praetexta (tragedia di argomento romano, così chiamata per il fatto che gli attori indossavano la toga praetexta). Ne conosciamo due titoli, che mettono in luce gli interessi del poeta per la storia e il mito: Romolus o Lupus (sulla fondazione di Roma) e Clastidium (celebrazione di Marco Claudio Marcello, vincitore dei Galli Insubri nella battaglia di Casteggio nel 222 a. C.).

 

Ottenne, però, maggior successo con le commedie, che ne fanno un degno predecessore di Plauto. Si conoscono 28 titoli e un’ottantina di frammenti, tra cui ricordiamo titoli di derivazione greca, come Agrypnuntes («Gli insonni»), Colax («L’adulatore»), Acontizomenos («Il colpito da un dardo») e altri che ricalcano la farsa italica, come Carbonaria («La commedia del carbone»), Testicularia («La commedia dei testicoli»), Tunicularia («La commedia della camicia»). La commedia che è possibile ricostruire nella trama, per i frammenti pervenuti, è Tarentilla («La ragazza di Taranto»): due giovani, recatisi a Taranto,  conducono una vita dissoluta e, innamoratisi della Tarentilla, una ragazza dai costumi discutibili, dilapidano il patrimonio paterno. Solo l’intervento dei due genitori riporta i giovani ai sani costumi della tradizione. Segue un frammento della commedia, che sembra anticipare la verve comica plautina.

 

Quasi pila

in choro ludens datatim dat se et communem facit.

Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.

Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem,

anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,

cum alio cantat, adtamen alii suo dat digito litteras.

Tarentilla, fr.2

 

«Come giocando con la palla in gruppo a turno si offre e si concede a tutti: ad uno annuisce, ad uno ammicca, uno ama, un altro tiene stretto. Da una parte la mano è occupata, ad un altro stuzzica il piede, ad uno dà a vedere l’anello, un altro chiama a fior di labbra, con un altro canta, ma nel frattempo ad un altro traccia lettere con il suo dito».

 

L’arte di Nevio consiste nella vivacità della rappresentazione, con prestiti dalla farsa italica e dall’atellana, intessuta da una sapiente varietà di lessico e a giochi di parole e di suoni (ripetizioni, allitterazioni, assonanze), in un originale combinazione di modelli greci e innovazione.

Secondo un celebre passo del prologo dell’Andria di Terenzio, in cui l’autore stesso si difende dall’accusa di contaminatio, Nevio avrebbe fatto per primo uso di tale procedimento letterario, ossia avrebbe attinto a diversi modelli greci.

 

Id isti vituperant factum atque in eo disputant

contaminari non decere fabulas.

Faciuntne intellegendo ut nil intellegant?

Qui quom hunc accusant, Naevium Plautum Ennium

accusant quos hic noster auctores habet,

quorum aemulari exoptat neglegentiam

potius quam istorum obscuram diligentiam.

Andria, vv. 15-21

 

«È questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come e qualmente non sia lecito contaminare delle commedie. Ma non mostrano, facendo vedere di capire, di non sapere nulla? Coloro che accusano il nostro autore, accusano Nevio, Plauto, Ennio, che egli ritiene come maestri e dei quali aspira a imitare la disinvoltura piuttosto che l’oscura diligenza di questi altri».

 

La sua opera maggiore è, però, il Carmen belli Punici, conosciuto come Bellum Poenicum, scritto in saturni, sulla prima guerra punica. Come riferisce Cicerone (Brut., 49-50) fu composto probabilmente durante la vecchiaia, nel 209 a. C. (Nihil est otiosa senectute iucundius…Quam gaudebat Bello suo Punico Naevius!, «Niente è più piacevole di una vecchiaia libera da occupazioni…Quanto si rallegrava Nevio del suo Bellum Poenicum!»). È il primo poema epico della letteratura latina, permeato da uno spirito fortemente nazionalistico, di circa 4000-5000 versi, di cui rimangono circa sessanta versi. Inizialmente carmen continuum, fu suddiviso in sette libri dal grammatico Ottavio Lampadione nel II sec. d.C.. (Svet., De gram.,2, Octavius Lampadio Naevii Punicum bellum… uno volumine et continenti scriptura expositum divisit in septem libros, «Ottavio Lampadione divise il Bellum Poenicum scritto in un solo volume e con una struttura continua in sette libri»).

 

La profonda conoscenza della letteratura greca (del resto la Campania era una terra di cultura e lingua greca), trova riscontro fin dall’invocazione alle Muse, che costituiva l’incipit del poema: Novem Iovis concordes filiae sorores («O nove sorelle concordi figlie di Giove»), con chiaro richiamo al v. 76 della Teogonia di Esiodo (ννα θυγατρες μεγλου Δις κγεγαυαι, «Nove figlie nate dal grande Zeus»), definite proprio μφρονας («concordi») al v.60.

 

Dai frammenti pervenuti (sia storici sia mitici, legati alle origini di Roma) non è possibile ricostruire con certezza la struttura originaria dell’opera. Nevio seguiva uno schema annalistico, dalle origini di Roma fino al conflitto punico, o partiva da questo conflitto per recuperare le vicende legate alla venuta di Enea nel Lazio e alle origini di Roma (la cosiddetta “archeologia”)? Sembra molto più verosimile la seconda ipotesi.

Il poema continuò a essere letto e apprezzato nelle epoche successive. Una nota di biasimo al poema, però, venne da Ennio, che, probabilmente rivale di Nevio, negli Annales così spiega la ragione per cui non tratta la prima guerra punica, con evidente allusione al poeta campano, accusato di rozzezza di stile e di aver adoperato il saturnio invece dell’esametro:

 

Scripsere alii rem

versibus quos olim Faunei vatesque canebant

cum neque Musarum scopulos quisquam superarat

nec dicti studiosus erat.

Annales, fr.133

 

«Altri scrissero su questo tema nei versi che un tempo Fauni e vati cantavano, quando nessuno aveva superato gli scogli delle Muse né si curava del bello stile».

 

Cicerone, invece, ribatte l’offesa di Ennio e paragona il Bellum Poenicum a un’opera di Mirone, mettendone in luce l’arcaicità e la grandezza:

 

Tamen illius, quem in vatibus et Faunis adnumerat Ennius, bellum Punicum quasi Myronis opus delectat.

Brut., 75

 

«Tuttavia il Bellum Poenicum, opera di colui che Ennio annovera tra i vati e i Fauni, mi piace come una statua di Mirone».

 

Anche Orazio testimonia che il poema era ancora molto diffuso e conosciuto ai suoi tempi:

 

Naevius in manibus non est et mentibus haeret

paene recens? Adeo sanctum est vetus omne poema.

Ep., II, 1, 50

 

«Non è forse Nevio nelle mani di tutti e non è fisso nelle menti come se fosse un poeta moderno? Fino a tal punto è sacro ogni poema antico».



 

 

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