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N. 75 - Marzo 2014 (CVI)

LA FAIDA, IL GUIDRIGILDO E L’ORDALIA
LA GIUSTIZIA TRA LE POPOLAZIONI GERMANICHE

di Andrea Zito

 

Il termine “faida” è oggi comunemente e tristemente conosciuto a causa dei fatti di cronaca legati agli scontri tra gruppi criminali organizzati: nello specifico, ci si riferisce alle guerre tra cosche mafiose, camorriste o ‘ndranghetiste per il controllo delle attività criminali (estorsione, spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, contrabbando ecc.) in un determinato territorio. Fatti di sangue che spesso per anni riempiono le colonne dei giornali e che troppe volte coinvolgono vittime innocenti.

 

In realtà, la parola “faida” ha origini antichissime, da ricercare nel diritto delle Popolazioni Germaniche che abitavano il Nord e l’Est Europa non romanizzato.

 

Si tratta di popoli originariamente nomadi, che pur riuscendo spesso a essere sottomessi alla dominazione romana, soprattutto a partire dal I secolo a.C. (ricordiamo a tal proposito le intense e impegnative campagne di conquista delle Gallie ad opera di Caio Giulio Cesare tra il 58 e il 50 a.C., anche se le origini dei conflitti con le popolazioni locali risalgono al IV secolo a.C.), mantennero sempre un’osservanza ossequiosa e devota delle tradizioni giuridiche locali, forti della tolleranza di Roma nei confronti di tali costumi.

 

I popoli barbari (laddove “barbaro” è da intendersi “straniero”, secondo l’accezione greca più ortodossa) erano composti ciascuno da diversi gruppi familiari o tribù: non vi era un sovrano, un’autorità superiore che governasse stringendo il bastone del comando, né per designazione popolare né per presa di potere violenta.

 

Non accadeva mai, tranne nei casi di conflitti con popoli vicini o, in seguito, con Roma stessa: solo in tali circostanze, gli uomini che dimostravano maggiore abilità nell’uso delle armi venivano acclamati come leader militari, mentre il resto degli uomini bellicamente validi venivano organizzati secondo una precisa gerarchia, in base alla quale si distingueva: il decanus, a capo di dieci uomini, il centenarius di cento, il millenarius di mille, il comes, che guidava uno schieramento sostanzioso, presumibilmente alcune migliaia di unità, e il dux, che assurgeva ai vertici dell’apparato militare.

 

Il titolo di rex era invece utilizzato per indicare il ruolo assunto da un personaggio specifico a guida dell’intero popolo o addirittura di intere coalizioni: un esempio per tutti è Vercingetorige (80 a.C. – 46 a.C.), re degli alverni, a capo di una fortissima coalizione di popoli gallici, che dette grosso filo da torcere a Roma prima di essere sconfitto e catturato da Cesare nel 52 a.C.

 

Naturalmente, tutti questi titoli militari sono frutto di un “sincretismo” terminologico di chiara influenza romana, in quanto tali popolazioni avevano altri modi per designare tale struttura gerarchica e le singole cariche.

 

È normale pensare che, in una società come quella dei popoli germanici, caratterizzata da un’organizzazione militare fortemente legata alla contingenza, il diritto vigente all’interno di ciascun popolo fosse di natura esclusivamente consuetudinaria, legata cioè ad usi e costumi trasmessi in forma orale di generazione in generazione, senza alcuna codificazione scritta e con rarissime integrazioni e/o modifiche: quando infatti si rendeva necessario integrare, chiarire, precisare o modificare un uso, veniva indetta un’assemblea dei capi-famiglia con cui l’integrazione veniva ufficialmente riconosciuta ed entrava a far parte delle consuetudini già possedute e praticate.

 

Tra di esse figura, appunto, la “faida”: dall’antico tedesco fehide, a sua volta derivante dal longobardo faihida (ostilità, lite, inimicizia), questo termine indicava quell’istituto giuridico non scritto in virtù del quale la famiglia di un soggetto ucciso o danneggiato dal membro di un’altra poteva vendicarne la lesione non solo contro il diretto responsabile, ma nei confronti della sua intera parentela, restituendone il torto subito in egual misura; perciò si riteneva legittima quella che oggi potremmo comunemente definire la “vendetta trasversale”: tant’è vero che alcune fonti giuridiche longobarde, in età alto-medievale, tradussero questo concetto con l’espressione vindicta parentum.

 

E poco importava che il danno fosse derivato da un fatto involontario o da una causa di forza maggiore (per esempio, provocato da un animale domestico di proprietà della famiglia ritenuta responsabile, dal fuoco lasciato acceso durante la notte, dal crollo di una palizzata ecc.): il danno poteva e doveva, comunque essere vendicato, per poter ripristinare l’equilibrio sociale violato.

 

L’entità della lesione era valutata unicamente dai parenti del soggetto leso. Ma proprio per evitare indiscriminate azioni sperequate la cui portata vendicativa, dettata da un giudizio unilaterale e arbitrario, poteva risultare superiore rispetto al valore effettivo del danno, ben presto fu introdotto un istituto civilmente più evoluto: il “guidrigildo” (dal longobardo wergild, ossia “prezzo dell’uomo”), ovvero un’indennità in bestiame e successivamente in danaro, da parte della famiglia del reo a vantaggio dell’offeso, per ripagare il danno arrecato.

 

Il fine era identico a quello della faida (ripristinare l’equilibrio socio-economico violato) ma senza atti cruenti o scriteriati: infatti il guidrigildo era indicato dai Romani col termine di compositio, a sottolineare la sua funzione ristabilizzatrice. L

 

a cosa interessante è che questo istituto introdusse un vero e proprio “prezzario” delle offese non solo in base alla tipologia di lesione, ma anche e soprattutto in base allo status sociale della vittima: presso alcune popolazione come i Franchi, i Bavari, i Turingi, il risarcimento per l’uccisione di un nobile era di 300 solidi (moneta aurea di origine romana ma diffusa anche tra i barbari), 200 se si trattava di un “arimanno” (ossia un uomo libero, dedito alle armi), 100 in caso nel caso di un aldio (uomo semilibero, dotato di una certa autonomia anche economica ma di limitata libertà). All’ultimo gradino si collocavano i “servi” il cui valore era inferiore, equiparato a quello del bestiame: in genere si trattava di prigionieri di guerra schiavizzati, votati all’agricoltura e all’artigianato, totalmente privi di libertà, esclusi dall’esercito e dall’assemblea del popolo, legati alla terra e ai loro padroni.

 

In età alto-medievale l’Editto di Rotari (606-652 d.C.), che costituisce la prima raccolta scritta di leggi longobarde, promulgato appunto dal re che ne dà il nome nel 643 d.C., fissa in 900 solidi il risarcimento per la morte di un uomo libero ma va oltre, stabilendo anche l’entità risarcitoria per danni minori: 8 solidi per ciascun dente fatto cadere all’avversario (cap.52), 16 solidi per una ferita al volto (cap.54), metà del prezzo dell’intero uomo per un naso tagliato (cap.49) o per un occhio (cap.48), un quarto per un orecchio (cap.53).

 

L’assassinio del coniuge viene valutato invece diversamente a seconda del sesso dell’omicida: una moglie che uccida il marito viene condannata a morte, il marito uxoricida invece al pagamento di 1200 solidi, cifra spropositata anche per un libero, tant’è che spesso gli uxoricidi vedevano commutarsi la pena in lavori forzati. Ma tale Editto rappresenta ormai, in età alto-medievale, un’evoluzione in senso normativo ma anche sociale delle antiche pratiche consuetudinarie dei Popoli Germanici.

 

Tornando ad essi: qual era lo strumento probatorio a disposizione dell’accusato? Come era possibile difendersi, nel caso di un’accusa di danneggiamento ritenuta ingiusta? Oppure, quale era il parametro di giudizio utilizzato nel caso in cui due soggetti fossero stati egualmente accusati o rivendicassero un medesimo diritto? Ecco che la soluzione della controversia era affidata dall’assemblea popolare all’ ordàlia (o ordalìa, secondo la pronuncia francese), termine che deriva dal longobardo ordail e che indicava il “giudizio di Dio”.

 

Si trattava di una prova fisica a cui il soggetto accusato di colpevolezza veniva sottoposto: se riusciva a superarla in forma indenne, evidentemente egli era considerato benvoluto dagli dei che non procurandogli sofferenza ne garantivano in tal modo l’onestà; l’assemblea perciò lo dichiarava incontestabilmente innocente. Una variante consisteva nel duello giudiziario o “di Dio”, ossia un combattimento a mano armata tra i due contendenti il medesimo diritto, e chi ne risultava vincitore ne veniva riconosciuto come titolare. Gli esiti di queste prove erano del tutto inappellabili, provenendo tali giudizi direttamente dalla sfera divina. Tali istituti giuridici esprimono la profonda fede, ancorché primitiva e irrazionale, che legava la mentalità collettiva di questi popoli alla superstizione e alla credenza popolare, come denota anche la particolare cruenza di alcune di queste prove fisiche.

 

Tre, in particolare, erano quelle più diffuse:

 

- la prova del “fuoco” o “del ferro”: l’accusato doveva passare a piedi nudi su carboni ardenti, esporsi alle fiamme o, più spesso, stringere un ferro arroventato. La totale assenza di lesioni o la guarigione in tempi brevi ne decretava l’innocenza. Una variante era l’immersione di un arto in acqua bollente, con valutazione degli esiti pressocché simile;

- la prova dell’ “acqua”: l’accusato veniva gettato legato in acqua, e se dopo un certo intervallo di tempo veniva riportato in superficie ancora vivo, era considerato innocente, se invece riusciva a liberarsi da solo o galleggiava o nel frattempo era morto, ciò era segno di colpevolezza (questo tipo di prova, accompagnato da diverse formule liturgiche, era persino tollerato dalla Chiesa, in epoca medievale). Gregorio di Tours, nel VII sec., ci fornisce una spiegazione opposta, descrivendo il supplizio di Quirino, vescovo di Sissek, il quale fu gettato dai pagani con una pietra al collo in un fiume, ma cadendo non fu tirato giù bensì rimase in superficie, sostenuto dalla grazia divina;

- la prova del “veleno”: l’accusato era costretto a ingerire una sostanza velenosa, e gli effetti di essa sulla sua salute, così come la sopravvivenza o la soccombenza, erano considerati segni di colpevolezza o innocenza.

 

A queste se ne aggiunsero molte altre, a seconda dei popoli e dei luoghi, ed è interessante notare come tali “prove” saranno presenti in Europa con sfumature diverse fino addirittura al XIII secolo, ma con strascichi fino al XVII: per fare un esempio, la pratica della tortura nella persecuzione delle streghe, che insanguinò l’Europa tra il Basso Medioevo e l’Età Moderna, per alcuni aspetti può essere considerata una forma di legittimazione codificata dell’ordalia, nella convinzione che l’innocenza dell’imputata non avrebbe procurato dolore né morte (ricordiamo il Malleus Maleficarum dei domenicani Sprenger e Institor del 1487, una vera e propria guida operativa per gli inquisitori, che tra l’altro descrive come ottenere una confessione valida da una strega sospetta attraverso torture efferate).

 

A testimonianza che, anche nell’Europa Cristiana, pratiche considerate oggi “barbare” e irrazionali erano largamente tollerate, diffuse e persino incoraggiate.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Mario Caravale, “Diritto senza legge”, G. Giappichelli Ed., Torino 2013, pp. 1-17
Marc Bloch, “La società feudale”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1999
Gabriele Pepe, “Il Medioevo Barbarico d’Italia”, Einaudi, Torino 1971
Federico Patetta, “Le Ordalie: Studio Di Storia del Diritto E Scienza del Diritto Comparato”, Fratettli Bocca Editori, Torino 1890
Antonio Padoa Schioppa, “Storia del diritto in Europa dal medioevo all’età contemporanea”, Il Mulino Bologna 2007
Walter Pohl, “L’universo barbarico” in “Storia Medievale, Donzelli, Milano 1998
Enciclopedia Italiana Treccani, voci: Faida, Guidrigildo, Ordalia (1932-35)



 

 

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