N. 33 - Settembre 2010
(LXIV)
de IURE CONDITO
racconto sullo stato della giustizia prossimo venturo
di Giuseppe Tramontana
Il
commissario
Atenagora
Merli
aprì
la
porta
senza
bussare.
-
Buongiorno
capitano,
disse
il
poliziotto
seduto
dietro
la
scrivania.
-
Buongiorno,
Piero,
lo
salutò
il
commissario
scorbutico,
novità?
-
Sì,
una
telefonata.
-
Che
dice,
‘sta
telefonata?
-
Che
un
bambino
è
sparito.
-
Sparito
in
che
senso?
-
Sparito
che
non
è
tornato
a
casa
dopo
la
scuola.
-
Che
scuola?
-
Elementare,
commissà,
la
Pascoli.
- E
che
cazzo?
Quanti
hanno
ci
ha?
- La
Pascoli?
- Il
bambino,
Piè,
che
età
ci
ha?
-
Otto
anni,
terza
elementare.
Ha
telefonato
la
madre.
Preoccupata.
Lo
aspettava
per
l’una
e
mezza,
le
due
al
massimo
e
invece
niente.
Come
volatilizzato.
Il
commissario
gettò
uno
sguardo
all’orologio
crocifisso
alla
parete:
le
sette
e
trentadue.
-
Minchia,
tardi
è,
sibilò.
-
Tardissimo,
disse
Piero.
Che
facciamo?
Il
commissario
sbuffò.
-
Alle
otto
e
mezzo
c’è
la
partita,
disse,
ma
ora
andiamo
dalla
madre
del
bambino.
-
Come
si
chiama?
- Il
bambino,
Andrea.
Andrea
Picello.
Abitano
in
via
Monza.
Al
17.
-
Diciassette,
che
culo,
fece
il
commissario.
Speriamo
di
finirla
bene.
-
Speriamo,
disse
Piero.
-
Anche
per
la
partita,
sibilò
il
commissario.
-
Anche
per
la
partita.
- La
partita
che
non
vedremo.
-
Già,
che
non
vedremo.
Via
Monza
era
in
periferia.
Periferia
nord.
Cupa,
squallida.
Dietro
la
stazione
dei
treni.
Un
tempo
doveva
essere
una
zona
residenziale,
poi
deve
essersi
gradatamente
adeguata
all’avanzata
del
progresso.
Palazzi
di
tre-quattro
piani,
fiori
sui
davanzali,
bici
accatastate
davanti
ai
portoni.
Qualche
aiuola
spelacchiata.
Qualcuno
con
in
mano
un
guinzaglio
lungo
come
la
fame
a
cui
stava
attaccato,
all’altro
capo
del
mondo,
un
cane
annusatore.
La
macchina
del
commissario
parcheggiò
al
numero
15.
-
Commissario,
è al
diciassette,
fece
Piero.
- Lo
so,
non
c’è
posto
più
avanti,
fece
il
commissario.
Scesero
stanchi.
Piero
suonò
al
campanello
Picello.
-
Chi
è,
chiese
una
voce
di
donna.
-
Polizia,
rispose
lui.
Il
portone
si
aprì
con
un
clic.
-
Terzo
piano,
li
rincorse
la
voce
al
citofono.
La
casa
era
silenziosa.
Si
poteva
sentire
il
tic-tac
dell’orologio
alla
parete.
La
donna
li
attendeva
sul
pianerottolo.
Dietro
di
lei,
un
uomo,
il
marito.
Il
commissario
e il
poliziotto
entrarono,
si
presentarono.
-
Prego
siedano,
disse
la
donna,
con
la
faccia
preoccupata
e
gli
occhi
arsi
dalle
lacrime.
Si
sedettero
al
tavolo
della
cucina.
-
Grazie
per
essere
venuti,
disse
l’uomo
all’impiedi.
Il
commissario
fece
un
cenno
con
capo:
-
Dovere.
-
Non
si è
fatto
vivo
nessuno?,
chiese
di
botto.
-
Nessuno,
fece
la
donna
con
voce
tremolante.
- Ha
telefonato
ai
compagni?,
chiese
ancora
il
commissario.
-
Tutti,
disse
la
donna.
Nessuno
l’ha
visto
dopo
la
scuola.
Nessuno.
I
quattro
si
guardarono.
Piero
guardò
l’orologio
al
polso.
Le
otto
e
trentaquattro.
Il
commissario
non
sapeva
che
fare,
che
dire,
che
chiedere.
-
Commissario,
non
gli
hanno
fatto
del
male,
vero?,
chiese
la
donna.
-
Speriamo
di
no,
disse
lui.
-
Frequenta
qualche
sala
giochi,
qualche
parco?,
chiese
Piero.
-
No.
Che
noi
sappiano
no,
si
inserì
l’uomo.
- Ha
un
cellulare?,
chiese
il
commissario.
-
Così
piccolo!,
esclamò
la
donna.
No
che
non
ha
un
cellulare.
Non
siamo
i
tipi
che
mettono
in
mano
un
telefonino
al
figlio
di
otto
anni.
Il
commissario
annuì.
I
due
poliziotti
si
rimisero
in
posizione
eretta.
-
Commissario,
me
lo
trovate,
vero?,
li
supplicò
la
madre.
- Ce
la
stiamo
mettendo
tutta,
disse
lui.
- Me
lo
promette,
insistette
lei.
-
Glielo
prometto.
Uscirono
in
silenzio.
Scesero
ascoltando
il
rimbombo
dei
propri
passi
nella
tromba
delle
scale.
Come
storditi.
Salirono
in
macchina.
Piero,
appena
dentro
l’abitacolo,
accese
la
radio.
-
Siamo
al
ventiseiesimo
e il
punteggio
è
ancora
sullo
zero
a
zero,
gracchiava.
-
Che
fai?,
chiese
il
commissario.
- La
partita,
disse
Piero.
-
Spegni
che
mi è
passata
la
voglia.
-
Avanti,
disse
la
voce
oltre
la
porta.
La
porta
si
aprì.
-
Ah,
è
lei,
dottor
Merli,
si
accomodi.
La
voce
della
donna
era
cordiale,
accogliente.
Si
era
spostata
gli
occhiali
dalla
montatura
nera
rettangolare
sulla
testa,
come
un
cerchietto
sui
capelli
biondi.
- A
che
devo
questa
visita?,
chiese.
-
Lavoro,
procuratore.
La
donna
fece
spallucce
ed
allargò
le
braccia.
-
Siamo
qui.
- Un
bambino
di
otto
anni
non
è
tornato
a
casa,
ieri
sera,
attaccò
il
commissario.
-
Scomparso?
Aveva
qualcosa
in
mano?
-
Nulla.
E’
uscito
da
scuola
regolarmente.
Intorno
alle
dodici
e
venti.
Non
ha
preso
il
pullmann.
Non
è
andato
con
gli
altri
compagni.
Non
si
sa
nulla.
Volatilizzato.
Sembra.
Volatilizzato.
Il
procuratore
gettò
uno
sguardo
fuori.
Gli
uccelli
dardeggiavano
nell’azzurro
del
cielo.
Sbuffò.
Stanca.
- E
qui
cominciano
i
guai,
sussurrò.
-
Già,
fece
il
commissario.
Che
si
fa?
- Si
indaga.
-
Come
partiamo?
-
Avete
sentito
qualcuno?
-
Sì,
i
compagni,
due
bidelli,
la
maestra.
Niente.
Tutti
la
stessa
cosa.
-
Che
casino.
-
Già.
Possiamo
cominciare
a
intercettare
le
telefonate.
- Di
chi?
- Di
nessuno
in
particolare.
O
meglio,
di
questi.
Bidelli,
maestre.
- Al
buio.
- Se
preferisce,
al
buio.
Farsi
dare
i
tabulati
delle
celle
vicino
alla
scuola.
Al
solito.
-
Non
si
può.
Non
più,
fece
secca
la
donna.
-
Come
non
più?
-
Non
più.
La
nuova
legge
lo
vieta.
- Ma
c’è
di
mezzo
un
bambino,
si
irrigidì
il
commissario.
-
Anche
se
ci
fosse
di
mezzo
il
Padreterno.
Non
si
può.
Al
buio
o
verso
ignoti
non
si
può.
Perché
a
carico
di
questi
non
ci
sono
mica
indizi
di
colpevolezza,
vero
commissario?
- E
certo
che
no.
Sennò
li
avremmo
già
presi.
- E
quindi
nisba.
- Ma
che
legge
è
questa?
- La
legge
dello
stato.
E’
l’autorità
a
fare
la
legge,
non
la
verità,
dicevano
i
romani.
Il
commissario
sentì
l’amaro
in
bocca.
Socchiuse
gli
occhi
come
per
ripararsi
dal
riverbero
del
sole.
Si
passò
una
mano
sui
capelli
brizzolati.
-
Che
si
fa,
allora?,
chiese.
- Si
torna
all’antico.
Soffiate,
appostamenti,
colloqui,
informatori,
fotografie.
Sperando
che
servano.
-
Sono
servite
di
solito?
-
Quasi
mai.
Solo
nei
film
americani.
E
neanche
sempre.
-
Appunto.
-
Pronto.
Sì.
Glielo
passo
subito,
disse
la
donna
mentre
si
asciugava
le
mani
con
un
canovaccio
a
quadri.
Si
sporse
dalla
porta
del
soggiorno.
-
Atenagora,
al
telefono.
Il
commissario
si
alzò
lentamente,
a
piedi
scalzi,
aggirò
la
poltrona
su
cui
era
spaparanzato
e
andò
ad
afferrare
la
cornetta
lasciata
incustodita
dalla
moglie.
-
Sì,
sono
io,
disse,
con
chi
parlo.
Uhm.
Uhm.
Va
bene.
E
richiuse.
-
Novità?,
chiese
la
moglie
sporgendo
il
capo
dalla
porta.
-
Forse.
-
Per
il
bambino?
-
Probabile.
-
Che
storia,
fece
la
donna.
-
Già,
che
storia.
-
Non
si
sa
ancora
nulla,
vero?
-
Nulla.
Ma
domani
potrebbe
succedere
qualcosa.
-
Era
ora.
E’
passata
quasi
una
settimana.
Tu
che
pensi:
è
vivo?
-
Speriamo.
-
Speriamo.
Poveri
genitori.
- E
poveri
giudici.
-
Giudici?
-
Giudici.
E
poliziotti.
Tutti
con
le
mani
legate.
La
donna
annuì.
Ci
vuole
fortuna
anche
per
cuocere
un
uovo.
Certo.
Ma
prima
ci
vuole
la
gallina
che
lo
fa,
l’uovo.
La
scuola
elementare
Pascoli
era
a
pianta
quadrata.
Tutta
vetro
e
cemento.
Con
un
vasto
cortile
davanti
e
robinie
e
glicini
a
proiettar
ombra.
La
ringhiera,
di
ferro,
alta
un
paio
di
metri,
verde
bottiglia,
correva
per
tutto
il
perimetro.
Il
cancello
di
ingresso
sormontato
dalla
scritta
in
cubitali,
arcuata:
Scuola
elementare
G.
Pascoli.
Di
sotto
passarono
i
due
poliziotti,
dopo
che
qualcuno
aprì.
-
Buongiorno
-
disse
il
commissario
al
bidello
che
li
accoglieva
davanti
alla
porta
a
vetri.
-
Siamo
venuti
all’appuntamento.
- Di
qui
-
fece
il
bidello
indicando
un
corridoio
laterale.
Lo
seguirono.
Le
aule
risuonavano
di
voci
femminili
che
facevano
lezione.
Una
donna
in
fondo
spingeva
un
carrello
con
il
mocio.
Vennero
introdotti
in
una
stanza
spoglia,
una
sorta
di
ripostiglio.
Tre
persone
dentro.
-
Buongiorno,
dissero
il
commissario
e
Piero.
-
Buongiorno,
dissero
in
coro
i
tre.
-
Chi
di
voi
mi
ha
telefonato
ieri
sera?,
chiese
Merli.
-
Io,
si
fece
avanti
un
tarchiato
semicalvo.
Ci
siamo
consultati
tra
di
noi
e
abbiamo
pensato
che
ci
sono
delle
cose
che
dovreste
sapere.
-
Uhm.
-
Dunque,
abbiamo
fatto
mente
locale.
E
mettendo
tutto
in
fila,
ci
siamo
fatti
convinti
che
c’è
qualcosa
di
strano
nella
scomparsa
di
Andrea.
-
Strano?
-
Strano.
Da
qualche
tempo
alcuni
di
noi,
io e
gli
altri
due
colleghi
qui
presenti,
abbiamo
un
tizio
particolare
che
si
aggirava
nei
paraggi.
-
Particolare
come?
L’omino
sorrise,
mostrando
due
denti
guasti.
Sorrise
come
uno
che
la
sa
lunga,
tanto
lunga.
A
cospetto
di
uno
che
non
sa
nulla.
Proprio
nulla.
-
Maresciallo…
- …
Commissario.
- …
Commissario,
questo
tizio
è
conosciuto
come
uno
a
cui
gli
piacciono
i
bambini.
-
Piacciono
piacciono,
nel
senso…
-
Sì,
nel
senso.
- E
avete
avvertito
qualcuno?
- La
segreteria,
che
doveva
avvertire
qualcuno.
Carabinieri.
Polizia.
Non
so.
- Lo
conoscete,
‘sto
tizio?
- Si
chiama
Italo
Fulvio.
Fulvio
di
cognome.
Secco,
nero
di
capelli
e di
carnagione.
Porta
sempre
degli
stivali
marrone.
Fuma.
Scomparso
il
bambino,
scomparso
lui.
-
Pensate
che
siano
collegate,
le
scomparse?,
chiese
Piero.
-
Pensiamo
di
sì.
- E
perché
non
l’avete
detto
prima?,
chiese
Merli.
-
Glielo
abbiamo
detto:
abbiamo
dato
importanza
alla
cosa
quasi
per
caso.
Parlando
tra
di
noi
del
più
e
del
meno.
Ci
dovete
scusare,
ma
le
cose
sono
andate
davvero
così.
-
Già,
fece
Piero.
-
Già,
fecero
gli
altri.
- E
voi
che
pensate,
allora?,
chiese
il
commissario.
-
Noi?
A
pensar
male
si
fa
peccato,
ma
quasi
si
sempre
ci
si
azzecca.
-
Capisco.
Altro
di
‘sto
Fulvio?
-
Niente.
Scapolo.
Passato
losco.
-
Grazie.
-
Grazie
a
voi.
I
poliziotti
strinsero
le
mani
a
tutti
e
uscirono
in
corridoi,
accompagnati
dal
bidello
dell’andata.
- Vi
siamo
stati
utili?,
chiese
l’uomo.
-
Vedremo.
Tutto
è
utile,
disse
Piero.
- Se
non
ti
ammazza,
bofonchiò
Merli.
Il
commissario
entrò
nel
bar.
Tintinnii
di
bicchieri
e
tazzine
in
sottofondo.
Odore
di
caffé.
Un
barista
lungo
lungo
e
magro
come
un’acciuga
che
trafficava
sotto
il
bancone
alzò
lo
sguardo.
Non
fece
nulla.
Come
se
non
l’avesse
neanche
visto.
Merli
gettò
un’occhiata
in
giro.
Al
tavolino
in
all’angolo
in
fondo
notò
la
capigliatura
bionda
del
procuratore.
Si
avvicinò
lentamente,
quasi
con
cautela,
passando
tra
i
tavolini
allineati.
Si
tastò
le
tasche
della
giacca
come
alla
ricerca
di
qualcosa.
Nulla.
-
Buongiorno
dottoressa
Romanut.
La
dottoressa
sollevò
il
capo:
-
Buongiorno
a
lei,
Merli.
L’uomo
scostò
una
sedia
e si
sedette
senza
attendere
l’invito.
Stava
leggendo
il
giornale,
il
magistrato.
Lo
ripiegò
accuratamente
e lo
lasciò
vicino
al
gomito.
-
Novità,
dottore?,
disse,
Come
mai
mi
ha
voluto
vedere
così
di
furia?
Merli
tirò
leggermente
dal
naso.
Si
passò
una
mano
sotto
il
mento
e
poi
l’alzò
per
richiamare
l’attenzione
del
cameriere.
-
Sì,
ci
sono
novità,
pare,
disse
d’un
fiato.
-
Quali?
-
Abbiamo
parlato
con
tre
bidelli
della
scuola.
Alcuni
giorni
prima
della
scomparsa
del
bambino
hanno
visto
aggirarsi
un
tipo.
Uno
che
si
chiama
Fulvio.
Italo
Fulvio.
-
Fulvio?
-
Fulvio
di
cognome.
Si è
fatto
vedere
per
un
paio
di
volte.
Due,
forse
tre.
E’
un
tipo
poco
raccomandabile.
-
Lei
sa
tutto.
-
Quasi.
Quanto
basta
per
adesso,
almeno.
-
Che
si
sa
su
questo?
-
Che
è
stato
indagato
per
possesso
e
traffico
di
materiale
pedopornografico.
Se
l’è
cavata,
però.
E’
stato
dentro
per
atti
osceni
qualche
anno
fa.
Va
dietro
ai
ragazzini.
Gli
piacciono.
Li
guarda,
li
scruta.
-
Inquietante.
-
Inquietante.
E
pericoloso.
- Un
santarellino.
-
Proprio.
E
nel
quartiere
c’è
tanta
chiacchiera
che
gira.
-
Tipo?
-
Questo.
Che
gli
piacciono
i
bambini
e se
ne
procura
sempre.
Arrivò
il
cameriere.
- Un
caffè
per
me,
disse
la
dottoressa.
Lei?
-
Anche
per
me.
E un
bicchiere
d’acqua
fredda.
-
Due
caffè
e un
bicchiere
d’acqua
fredda,
confermò
la
donna.
-
Dicevamo?
-
Dicevamo
che
‘sto
Fulvio
è un
pedofilo.
-
L’avevo
già
capito.
Sposato?
Parenti?
-
No.
Niente
moglie.
Parenti,
solo
la
madre.
Anziana.
Mezza
rimbambita.
- Ci
avete
parlato?
-
Poca
roba.
Come
parlare
al
muro.
Lo
difende,
certo.
Dice
cose
strambe.
Non
lo
vede
da
qualche
settimana.
-
Abita
con
lei?
- Sì
e
no.
Ci
abita
quando
ci
abita.
Sennò
no.
-
Sennò
no,
certo.
-
Avete
dato
un’occhiata
in
giro,
alla
casa?
-
Sì.
Trovato
nulla.
Nulla
di
rilevante,
almeno.
Qualche
rivista
porno
sotto
il
materasso.
- Ma
quelle
ce
le
ha
pure
mio
figlio
di
tredici
anni.
-
Uhm.
Il
cameriere
arrivò
con
il
vassoio.
Poggiò
le
tazzine
ed
il
bicchiere
sul
tavolino.
Le
tazzine
fumavano.
Il
bicchiere
era
opaco
a
causa
dell’acqua
fredda.
Una
gocciolina
scorreva
lungo
la
parete,
aprendosi
la
strada
come
un
Nilo
nel
deserto.
I
due,
in
perfetta
sincronia,
strapparono
un
angolino
delle
bustine
di
zucchero
e lo
versarono
nel
cratere
della
tazzina.
Mescolano
con
i
cucchiaini
appoggiati
al
piattino,
riappoggiarono
gli
stessi
cucchiaini
intinti
di
marrone
sul
piattino
e
bevvero
d’un
fiato.
- Ci
vorrebbe
una
sigaretta,
disse
la
donna.
- Fa
male.
-
Anche
vivere
fa
male.
Ma
siamo
qua.
Dalla
vita
nessuno
ne
esce
vivo.
-
Allora,
che
si
fa?
-Chiese
Merli.
-
Poca
roba.
Poca
scelta.
Insistere.
Solo
questo.
Continuare
a
insistere.
-
Niente
intercettazioni?
-
Non
ancora.
E’
troppo
poco.
-
Come
poco?
Non
ci
sono
abbastanza
indizi
di
reato,
come
si
dice
in
giuridichese?
-
Può
darsi.
Ma
non
è
mica
in
corso.
-
Cioè?
-
Cioè
che
il
reato
deve
essere
in
corso.
Qui
è in
corso?
-
Che
caz…
cosa
significa?
Mi
prende
per
il
cu…
in
giro?
Il
reato
caso
mai
è
stato
-
consumato:
sequestro,
si
chiama.
La
Romanut
sorrise.
- Lo
so
come
si
chiama.
Ma è
così,
ormai.
E’
necessario
che
ci
sia
la
certezza
del
reato.
C’è
la
certezza?
-
Del
reato?
-
Del
reato.
Merli,
tentennò.
- La
certezza
proprio
direi
di
no.
Per
quanto
ne
sappiamo
potrebbe
esserci
stata
una
disgrazia,
anche
se…
-
Anche
se
sospettiamo
di
‘sto
Fulvio.
-
Sospetto
non
è
certezza.
Servono
certezze.
Questo
dice
la
legge.
E
nel
nostro
caso
le
certezze
non
ci
sono.
O mi
sbaglio?
Non
ancora,
almeno.
- Mi
scusi.
-
Disse
il
commissario
scaldandosi
e
scostando
la
sedia
dal
tavolino.
- Se
non
ricordo
male,
gli
indizi
di
reato
sono
quelli
che
servono
per
chiedere
l’arresto.
-
Non
è
così?
La
donna
annuì.
- E
a
cosa
serve
fare
le
intercettazioni
se
si
sa
già,
con
sicurezza,
che
si
sta
commettendo
un
reato?
Questo
non
è
ormai
il
momento
per
mettergli
le
manette
ai
polsi?
La
donna
fece
spallucce.
-
Non
servono
a
nulla.
- E’
irrazionale.
O
sbaglio?
-
Già.
Sed
lex.
- E
mettere
sotto
intercettazione
il
telefono
della
madre?
- La
madre
non
è
lui.
E
non
credo
che
sappia
di
quello
che
sta
combinando
il
figlio.
O
sbaglio.
-
Non
ne
sa
nulla.
L’abbiamo
interrogata.
E’
una
povera
vecchia.
Ma…
- …
Ma
mettere
il
suo
telefono
sotto
controllo
potrebbe
farci
scoprire
dove
si
trova
il
figlio,
giusto?
E’
questo
che
vuole
dire?
-
Esatto.
-
Non
si
può.
Se
non
sa
nulla
di
quello
che
ha
combinato
il
figlio,
non
si
può.
-
Non
si
può?
-
Non
si
può.
-
Sempre
la
legge?
- La
legge.
- Ma
neanche…
-
Neanche.
Merli
si
guardò
attorno.
Un
occhio
gli
cadde
sul
giornale
piegato.
-
Dottoressa,
una
dichiarazione,
almeno,
potrebbe
rilasciarla.
-
Disse.
-
Così,
tanto
per
togliere
di
mezzo
la
cappa
di
silenzio
su
questa
storia.
La
Romanut
sorrise
di
nuovo.
- A
che
pro?
Tenere
desta
l’attenzione?
- E
mettere
in
guardia
la
gente.
Ma
soprattutto
cercare
di
farsi
aiutare.
- E
non
far
sentire
tranquillo
il
tipo.
-
Già.
-
Qualche
trafiletto
è
comparso
sulla
stampa.
-
Solo?
-
Solo.
Io
non
posso
fare
nulla.
Non
posso
violare
il
segreto.
-
Sulle
indagini?
-
Sulle
indagini.
-
Sennò?
-
Sennò
mi
sostituiscono.
O
meglio
mi
possono
denunciare
per
violazione
del
segreto
d’ufficio.
Al
che
i
miei
colleghi
mi
devono
iscrivere
nel
registro
degli
indagati.
Atto
dovuto.
E da
qui
scatta
la
sostituzione.
Out.
-
Che
storia.
Siamo
accerchiati.
-
Può
ben
dirlo.
Il
commissario
si
fermò
nuovamente.
Gettò
un
nuovo
sguardo
al
locale.
Una
donna
gli
passò
davanti.
Lui
non
la
notò,
neanche
fosse
trasparente.
Sbuffò.
Stanco.
Confuso.
Aveva
prosciugato
il
fondo
delle
idee.
-
Che
cazzo
di
leggi,
disse,
mi
scusi
dottoressa.
-
Non
si
preoccupi.
Capita
anche
a
me.
-
Cosa?
- Di
scoraggiarmi.
Di
arrabbiarmi.
E di
usare
certe
parolacce.
Come
legge.
Il
commissario
Merli
guardava
fuori
dalla
finestra.
Tramonto
con
il
sole
a
bagnomaria
sull’orizzonte.
Dietro
i
caseggiati
rosseggianti
della
periferia
si
intuiva
la
pianura
verde,
rombante,
inquinata.
Il
cielo
azzurro
era
percorso
dai
voli
geometrici
dei
passeri
scuri.
Passeri.
Rondini.
Cos’altro?
Osservava
qualcosa
dentro
la
sua
testa.
Un
puntino
luminoso
in
un
mare
di
inchiostro
di
seppia.
La
cravatta
allargata
al
collo,
un
bicchiere
di
carta
con
il
caffè
della
macchinetta
in
mano.
L’altra
mano
infilata
nella
tasca
dei
pantaloni.
Qualcuno
bussò.
Piero.
-
Commissario,
ci
sono
cose
nuove.
Merli
si
voltò.
-
Dimmi.
-
Io,
Jovine
e
Barbon
abbiamo
fatto
il
giro
dei
quartieri.
E’
stata
dura,
ma
qualcosa
è
venuta
fuori.
Nel
quartiere
di
San
Giuliano
abbiamo
parlato
con
un
edicolante.
Ha
riconosciuto
Fulvio.
Fulvio
e il
bambino.
- Il
bambino?
-
Sì,
il
bambino.
-
Insieme?
-
Insieme.
Dice
che
se
lo
ricorda
perché
da
qualche
giorno
veniva
a
prendere
dei
gormiti.
- A
prendere
chi?
E
cosa
sono
‘sti
gomiti?
-
Gormiti,
commissà,
gormiti.
Sono
dei
pupazzetti
di
plastica.
Dei
mostriciattoli.
Che
ai
bambini
piacciono
tanto.
Ci
andava
Fulvio
in
edicola.
E’
lui
che
l’edicolante
dapprincipio
ha
riconosciuto.
E
costano,
‘sti
mostri,
sa.
- E
che
ci
faceva
Fulvio
con
i
pupazzi?
Pensi
quello
che
penso
io?
-
Credo
di
sì.
- E
il
bambino?
-
Ecco
il
bambino.
Dice
sempre
l’edicolante
che
una
ventina
di
giorni
fa.
Si
ricordi:
una
ventina
di
giorni.
- La
scomparsa.
-
Esatto.
La
scomparsa.
Dunque
una
ventina
di
giorni
fa
Fulvio
c’è
andato
con
bambino.
-
Andrea?
-
Lui.
L’ha
riconosciuto
dalla
foto.
Anche
Fulvio
l’ha
riconosciuto
dalla
foto.
Fulvio
ha
comprato
al
bambino
quattro
o
cinque
di
‘sti
pupazzi
e
poi
se
lo
portò
via.
-
Tutto?
-
No.
Qualche
minuto
dopo
ripassarono
davanti
all’edicola.
In
macchina,
stavolta.
Fulvio
alla
guida,
ovviamente,
e il
piccolo
dietro.
Coi
pupazzi
in
mano.
Contento
e
sorridente.
Ora,
non
so
se
lei
sa
dov’è
l’edicola.
E’
in
corso
Umberto.
Sempre
pieno
di
traffico.
Lì
vicino
c’è
un
semaforo
che
dura
quanto
i
cento
metri
per
una
lumaca.
La
macchina
di
Fulvio
si
fermò
davanti
all’edicola.
In
coda.
Andrea
dietro.
Lo
chiamò
persino,
all’edicolante.
Gli
mostrò
da
lontano
i
pupazzi
che
aveva
in
mano.
-
Chiamò
l’edicolante?
-
L’edicolante.
-
Chiamalo.
Voglio
parlarci.
-
Non
c’è
bisogno:
è
qua
davanti
che
aspetta.
-
Bravo.
Fallo
entrare.
Chiama
Jovine
per
la
deposizione.
E la
Romanut.
Passamela,
poi.
- Il
procuratore?
-
Quante
Romanut
conosci
tu?
-
Solo
quella.
-
Ecco.
Piero
girò
sui
tacchi,
afferrò
la
maniglia
per
uscire,
ma
si
bloccò.
Girò
la
testa
verso
Merli,
abbassandola
un
po’.
-
Commissà,
che
dice,
ci
siamo?
-
Chi
lo
sa.
Il
cellulare
gli
squillò
nella
tasca
interna
della
giacca.
Gli
saltellò
dentro
come
un
animaletto
epilettico.
-
Pronto,
disse
Merli.
-
Pronto,
sior
commissario,
fece
la
voce
all’altro
capo.
-
Ah,
sei
tu,
Barbon.
Tutto
a
posto?
-
Sì.
Gh’
avèmo
il
decreto.
Ma,
sior
commissario,
gh’hanno
fato
un
film.
-
Che
film.
-
Eh,
che
film.
Schersa
lei,
sior
commissario.
Ma
ci
hanno
fato
ritornar
dopo
una
settimana
perché
i se
dovea
riunir.
Tre
giudici
se
dovea
riunir.
Dicono
che
xe
la
lege.
Lo
sa
lei?
Mi
no
de
certo.
Ora,
finalmente,
avemo
l’autorizzasion.
-
Uhm.
Bravo.
Bravi
tutti.
-
Grassie.
Speremo
che
serva
sennò
semo
fregà.
-
Dove
siete?
-
Par
strada.
-
Portate
tutto
alla
Romanut.
Ora
la
chiamo
e
l’avviso.
-
Occhei,
commissario.
A
dopo.
Richiuse.
Fece
il
numero
della
Romanut.
-
Pronto,
dottoressa.
Jovine
e
Barbon
sono
per
strada.
Hanno
autorizzazione
per
le
intercettazioni.
-
Sì.
Lo
penso
anch’io.
E’
passato
troppo
tempo.
Se
quello
non
è
fesso,
ha
almeno
cambiato
numero.
O
cellulare.
Arrivederci.
Quello,
in
effetti,
non
era
fesso.
O
almeno
non
quanto
speravano
loro.
Il
numero
era
disattivato.
Muto.
Numero
inesistente,
diceva
la
signorina
del
servizio
telefonico.
-
Tutto
da
rifare.
-
Disse
il
commissario.
-
‘Sto
cazzo
di
legge
è
fatta
per
i
criminali.
Altro
che.
Una
tagliola,
ecco
cos’è.
E il
tempo
è la
tagliola
di
tutti.
Gioca
contro
di
noi.
E a
favore
loro.
Si
slacciò
la
cravatta
e la
gettò
sul
divano.
Appoggiò
i
piedi
sul
tavolino
basso.
Le
punte
delle
scarpe
erano
impolverate.
Le
strofinò
sui
polpacci.
Prima
l’una
e
poi
l’altra.
Tornò
a
fissarle.
- Ci
vuole
un
altro
colpo
di
culo,
sussurrò.
La
moglie
gli
portò
il
caffè.
Adorava
il
caffè
dopo
cena.
-
Nicolò?,
chiese.
- In
camera
sua.
Fa i
compiti.
-
Non
è
tardi?
-
Forse.
Lo
sa
lui.
Ormai
chi
gli
può
dire
niente!
Merli
tacque
di
nuovo.
Pensieroso.
Si
alzò,
andò
alla
libreria
ed
afferrò
un
romanzo
di
Mario
Soldati.
Lo
sfogliò
distrattamente.
Si
fermò
a
guardare
il
muro
compatto
di
copertine.
Ma
inseguiva
qualche
pensiero
dentro
di
sé.
- A
che
pensi?,
chiese
la
moglie.
-
Nulla.
Che
è
tutto
da
rifare.
-
Sembri
Bartali.
Lui
sorrise.
-
Perché
è
tutto
da
rifare?
-
Perché
il
cellulare
del
tizio
è
morto.
-
Che
vuol
dire?
-
Questo.
Vuol
dire
che
non
ne
possiamo
fare
né
utile
né
capitale.
- E
ora?
-
Ora
niente.
Così.
Bisogna
guardare
in
faccia
la
realtà.
Così
almeno
ci
può
prendere
per
il
culo
come
vuole.
-
Chi?
- La
realtà.
Lei
annuì.
-
Punto
e a
capo,
allora?
-
Tutto
da
zero.
Vediamo.
Fece
schioccare
la
lingua:
ho
la
bocca
dolciastra
-
Disse.
Il
caffè
era
troppo
dolce.
-
Due
cucchiaini
come
piace
a
te.
Sarà
lo
zucchero.
- O
i
cucchiaini.
- O
il
caffè.
- Ma
quanto
tempo
è
passato?,
chiese
Jovine
quasi
sovrappensiero.
-
Quasi
un
mese
e
mezzo,
disse
Piero.
E
ancora
siamo
al
punto
di
partenza.
E’
la
millesima
volta
che
facciamo
‘sta
strada.
- E
meno
male
che
quello
del
negozio
si è
ricordato.
Sennò
col
cazzo.
-
Meno
male.
L’auto
con
a
bordo
i
due
filava
liscia
sulla
statale.
Sul
sedile
posteriore
dormicchiava
la
nuova
cartella
con
al
documentazione
del
tribunale.
Verde,
con
due
strisce
orizzontali
nere.
Dentro,
tra
l’altro,
anche
la
nuova
autorizzazione
per
le
intercettazioni.
Il
nuovo
numero
l’avevano
trovato
grazie
ai
ricordi
del
commesso
di
un
negozio
di
cellulari
e
roba
del
genere.
Si
ricordava
di
Fulvio.
Non
sapeva
perché.
Se
lo
ricordava
e
basta.
La
Romanut
li
aspettava.
Di
nuovo.
Seduta
alla
scrivania.
La
cicca
accesa
nel
posacenere
che
emetteva
un
filo
di
fumo.
Spulciava
atti,
documenti,
fogli.
Poi
alzava
la
testa,
guardando
di
fronte,
portandosi
una
matita
alle
labbra
e
sistemandosi
gli
occhiali
sul
naso.
Pensierosa.
O
perplessa.
Ve
lo
dico
subito:
la
storia
non
finì
bene.
Non
è il
paese
dei
lieto
fine,
questo.
E
poi
non
è
che
debbano
finire
bene
per
forza.
Anzi.
Il
mestiere
che
facevo
mi
ha
insegnato
che
sono
poche
le
storie
che
finiscono
come
devono
finire.
Tu
vai
avanti,
ti
impegni,
sudi
come
un
cane,
speri
di
dare
il
tuo
contributo.
Ma
c’è
sempre
qualcuno
che
ti
va
contro.
Che
trama
contro
il
tuo
lavoro,
le
tue
speranze,
contro
di
te.
La
sensazione
ce
l’hai
spesso,
ma
tiri
avanti
lo
stesso.
Cosa
vuoi
che
accada,
ti
dici,
peggio
per
loro.
Io
ho
la
forza
delle
mie
idee
e
del
mio
impegno.
Macché.
Alla
fine,
la
spuntano
loro.
Per
questo
‘sto
paese
sta
andando
a
rotoli.
Tutto
comincia
da
piccoli.
Se a
un
bambino
insegnano
a
dire
noi,
ma a
pensare
io,
è
già
tutto
perduto.
E
così
è
stato
da
noi.
Ognuno
per
sé.
E la
legge
fatta
per
ciascuno,
non
per
tutti.
Rispettare
che?
Rispettare
cosa?
Il
mio
privilegio.
Poi
si
cambia
il
senso
delle
parole.
Lentamente.
Impercettibilmente,
come
dicono
quelli
che
hanno
studiato
tanto.
Come
la
rana
messa
a
cuocere
a
fuoco
lento
sul
fornello.
La
sapete
la
storia?
Una
rana
viene
messa
in
un
bel
pentolone
d’acqua
da
uno
scienziato.
L’acqua
è a
temperatura
ambiente.
La
rana
ci
si
trova
bene.
Tutto
occhei.
La
pentola
poi
viene
messa
sul
fornello.
E
l’acqua
comincia
a
riscaldarsi.
Lentamente.
All’inizio
diventa
tiepida.
La
rana
ci
si
trova
benissimo.
E’
allegra,
canta
e
ride,
se
volete
immaginarvela
così.
Non
ha
nessuna
intenzione
di
uscire.
Ma a
poco
a
poco
l’acqua
diventa
sempre
più
calda.
La
rana
ci
si
trova
ancora
bene.
Però
a
poco
a
poco,
man
mano
che
l’acqua
si
riscalda,
sente
le
forze
che
l’abbandonano.
Ma
non
fa
nulla.
Si
trova
ancora
bene.
E
poi
non
ha
molta
voglia
di
lasciare
quel
calduccio.
Sta
bene.
Certo
un
po’
di
caldo,
ma
sta
bene.
La
temperatura
aumenta.
Le
forze
abbandonano
sempre
più
la
rana.
Ora
è
decisamente
stanca,
quasi
cotta,
diremmo.
Si
accorge
del
pericolo,
ma
ormai
non
ha
più
le
energie
per
fare
un
balzo
e
scappare.
Il
caldo
aumenta
e
anche
la
sua
angoscia,
mentre
la
sua
debolezza
è
massima.
Alla
fine,
quando
si
rende
conto
di
sta
per
morire,
tenta
disperatamente
di
salvarsi.
Ma
ormai
è
troppo
tardi.
E
muore
cotta.
E’
stato
furbo
l’uomo
che
l’ha
messa
in
pentola.
L’ha
fatta
bollire
lentamente.
Senza
dare
nell’occhio,
senza
allarmare
la
rana.
Se,
invece,
l’avesse
gettata
fin
dall’inizio
nell’acqua
bollente,
lei
si
sarebbe
ribellata,
con
balzo
sarebbe
schizzata
via.
Invece,
con
il
metodo
della
lenta
cottura,
piano
piano,
è
riuscita
a
fregarla.
Così
siamo
noi,
nel
nostro
paese.
Hanno
cambiato
il
senso
di
alcune
parole
e
hanno
spacciato
il
privilegio
per
libertà.
Hanno
spacciato
l’egoismo
per
iniziativa
e
l’arbitrio
per
privacy.
E io
non
ce
la
facevo
più.
Il
voltastomaco
non
mi
faceva
dormire
la
notte.
Prima
di
dimettermi
ci
ho
pensato
bene,
naturalmente.
Ma
più
ci
pensavo,
più
cresceva
lo
schifo
e
più
mi
convincevo
di
dovermene
andare.
Per
tornare
a
noi,
il
bambino
non
lo
trovammo.
Ma
scoprimmo
che
fine
fece.
Impotenti.
Ce
lo
sfilarono
da
sotto
il
naso.
Lo
scoprimmo,
ma
non
riuscimmo
a
fare
nulla.
Il
massimo
dell’impotenza.
I
genitori
me
li
sono
sempre
immaginati
disperati,
con
gli
occhi
rossi
di
collera.
Giustamente.
Non
so
se
hanno
capito
di
chi
fosse
la
colpa.
Non
mi
stupirebbe
che
se
la
fossero
presa
con
noi.
Noi
poliziotti,
dico.
O
se
si
resero
conto
che
tutto
nasceva
dall’alto,
dalla
politica,
dal
potere,
dalla
legge
che
dovrebbe
tutelarci
e
farci
sentire
tranquilli.
Non
gliel’ho
mai
chiesto.
Non
li
ho
mai
incontrati.
Mai.
Impotenti,
siamo.
Impotenti.
E
soli.
Squallidamente
soli.
Dopo
sessanta
giorni
di
intercettazioni
avevamo
poco
o
nulla
in
mano.
Bla
bla,
bla
bla.
Quello,
Fulvio
credo
si
chiamasse,
parlava
parlava
ma
non
si
scomponeva.
Il
tempo
passava
e
quello
non
si
scopriva.
Sapeva
che
stavamo
all’ascolto?
Può
darsi.
O lo
intuiva
almeno.
Stupido
non
era.
Per
cui,
probabilmente,
c’era
arrivato
che
noi
lo
sentivamo.
E
noi
ad
ascoltare.
Quello
nulla.
E il
tempo
filava
come
una
goccia
nella
siringa.
Settantacinque
giorni.
Settantacinque
notti.
Due
mesi
e
mezzo.
Tanto
per
legge
potevamo
ascoltare.
Non
un
giorno
in
più.
A
mezzanotte
del
settantacinquesimo
giorno,
zac:
staccare
tutto.
Tutto
questo
è il
tempo
massimo
che,
in
Italia,
si
può
perdere
per
salvare
la
vita
di
un
bambino.
La
legge.
L’ultimo
giorno
doveva
essere
il
29
settembre.
Sono
forte
con
i
numeri,
io.
Mi
ricordo
le
date.
Tutte
le
date.
L’attentato
di
Sarajevo
e la
strage
di
Ustica,
l’omicidio
di
Moro,
la
vittoria
ai
mondiali
del
1982
e
quella
del
2006.
Tutte.
Il
29
settembre,
dicevo,
scadevano
i
settantacinque
giorni.
Il
30
sarebbe
stato
troppo
tardi.
Anzi,
alle
0,01
del
30
sarebbe
stato
già
tardi.
Poco
prima
di
staccare,
però,
abbiamo
avuto
l’imbocco
giusto.
Si
capiva
tutto.
Mi
sono
sempre
chiesto
se
il
tizio
l’avesse
fatto
apposta,
se
conosceva
la
normativa,
se
aveva
volto
prenderci
per
il
culo.
Qualche
risposta
me
la
sono
data,
ma
me
la
tengo
per
me.
Insomma,
tutto
fu
chiaro
all’improvviso.
Alla
fine.
Quando
ormai
non
c’era
più
tempo.
Io e
Jovine
stavamo
ad
ascoltare.
Barbon
non
c’era
quella
notte.
C’era
uno
della
scientifica,
di
cui
non
mi
ricordo
il
nome,
Frigerio
forse,
non
so.
Si
parlava
di
soldi.
Si
parlava
del
regalo
che
era
poi
il
bambino.
"Piè"
-
disse
Jovine
-
"Se
lo
stanno
vendendo
come
carne
da
macello".
Non
lo
potrò
mai
dimenticare.
A
chi?
Bè,
pedofili
forse.
Trapianti,
forse.
Sicuramente
non
a
suore
di
carità.
"Piè
se
lo
vendono"
- mi
disse
ancora
Jovine
con
le
lacrime
agli
occhi.
Ascoltammo
ancora.
Speravamo
che
si
tradissero,
che
si
lasciassero
sfuggire
il
luogo
della
consegna.
Nulla.
L’ultima
cosa
che
quello
disse
fu:
"Ti
chiamo
domani
per
dirti
dove".
Domani
era
tardi.
Ci
guardammo
io,
Jovine,
il
commissario,
l’altro
tecnico.
Silenzio.
Impotenti,
sconfitti.
Dalla
legge,
sconfitti.
Forse
fu
quello
il
momento
in
cui
presi
la
decisione
dell’addio.
Tornai
a
casa
dopo
aver
girato
per
i
bar
aperti
di
mezza
città.
In
mente
mi
rimbombavano
le
parole
di
mio
padre:
"Fa’
la
cosa
giusta
e se
noi
puoi
farla
giusta,
falla
e
basta".
E mi
dimisi.
L’indomani
presentai
le
dimissioni.
Nessuno
tentò
di
farmi
cambiare
idea.
Nessuno
ci
sarebbe
riuscito,
d’altronde.
Divenni
un
ex.
Ex
poliziotto,
ex
servitore
di
uno
Stato
ex.
Solo
la
mia
dignità
non
si
era
dimessa,
non
era
diventata
ex.
Per
questo
mollai
tutto.
Per
non
essere
preso
per
il
culo.
Da
nessuno.
Neppure
dalla
legge.