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N. 33 - Settembre 2010 (LXIV)

de IURE CONDITO
racconto sullo stato della giustizia prossimo venturo

di Giuseppe Tramontana

 

Il commissario Atenagora Merli aprì la porta senza bussare.

 

- Buongiorno capitano, disse il poliziotto seduto dietro la scrivania.

- Buongiorno, Piero, lo salutò il commissario scorbutico, novità?

- Sì, una telefonata.

- Che dice, ‘sta telefonata?

- Che un bambino è sparito.

- Sparito in che senso?

- Sparito che non è tornato a casa dopo la scuola.

- Che scuola?

- Elementare, commissà, la Pascoli.

- E che cazzo? Quanti hanno ci ha?

- La Pascoli?

- Il bambino, Piè, che età ci ha?

- Otto anni, terza elementare. Ha telefonato la madre. Preoccupata. Lo aspettava per l’una e mezza, le due al massimo e invece niente. Come volatilizzato.

 

Il commissario gettò uno sguardo all’orologio crocifisso alla parete: le sette e trentadue.

 

- Minchia, tardi è, sibilò.

- Tardissimo, disse Piero. Che facciamo?

 

Il commissario sbuffò.

- Alle otto e mezzo c’è la partita, disse, ma ora andiamo dalla madre del bambino.

- Come si chiama?

- Il bambino, Andrea. Andrea Picello. Abitano in via Monza. Al 17.

- Diciassette, che culo, fece il commissario. Speriamo di finirla bene.

- Speriamo, disse Piero.

- Anche per la partita, sibilò il commissario.

- Anche per la partita.

- La partita che non vedremo.

- Già, che non vedremo.


Via Monza era in periferia. Periferia nord. Cupa, squallida. Dietro la stazione dei treni.

 

Un tempo doveva essere una zona residenziale, poi deve essersi gradatamente adeguata all’avanzata del progresso. Palazzi di tre-quattro piani, fiori sui davanzali, bici accatastate davanti ai portoni. Qualche aiuola spelacchiata. Qualcuno con in mano un guinzaglio lungo come la fame a cui stava attaccato, all’altro capo del mondo, un cane annusatore.

 

La macchina del commissario parcheggiò al numero 15.

 

- Commissario, è al diciassette, fece Piero.

- Lo so, non c’è posto più avanti, fece il commissario.

 

Scesero stanchi. Piero suonò al campanello Picello.

 

- Chi è, chiese una voce di donna.

- Polizia, rispose lui.

 

Il portone si aprì con un clic.

 

- Terzo piano, li rincorse la voce al citofono.

 

La casa era silenziosa. Si poteva sentire il tic-tac dell’orologio alla parete. La donna li attendeva sul pianerottolo. Dietro di lei, un uomo, il marito. Il commissario e il poliziotto entrarono, si presentarono.

 

- Prego siedano, disse la donna, con la faccia preoccupata e gli occhi arsi dalle lacrime. Si sedettero al tavolo della cucina.

 

- Grazie per essere venuti, disse l’uomo all’impiedi.

 

Il commissario fece un cenno con capo: - Dovere.

 

- Non si è fatto vivo nessuno?, chiese di botto.

- Nessuno, fece la donna con voce tremolante.

- Ha telefonato ai compagni?, chiese ancora il commissario.

- Tutti, disse la donna. Nessuno l’ha visto dopo la scuola. Nessuno.

 

I quattro si guardarono. Piero guardò l’orologio al polso. Le otto e trentaquattro. Il commissario non sapeva che fare, che dire, che chiedere.

 

- Commissario, non gli hanno fatto del male, vero?, chiese la donna.

- Speriamo di no, disse lui.

- Frequenta qualche sala giochi, qualche parco?, chiese Piero.

- No. Che noi sappiano no, si inserì l’uomo.

- Ha un cellulare?, chiese il commissario.

- Così piccolo!, esclamò la donna. No che non ha un cellulare. Non siamo i tipi che mettono in mano un telefonino al figlio di otto anni.

 

Il commissario annuì. I due poliziotti si rimisero in posizione eretta.

 

- Commissario, me lo trovate, vero?, li supplicò la madre.

- Ce la stiamo mettendo tutta, disse lui.

- Me lo promette, insistette lei.

- Glielo prometto.

 

Uscirono in silenzio. Scesero ascoltando il rimbombo dei propri passi nella tromba delle scale. Come storditi. Salirono in macchina. Piero, appena dentro l’abitacolo, accese la radio.

 

- Siamo al ventiseiesimo e il punteggio è ancora sullo zero a zero, gracchiava.

 

- Che fai?, chiese il commissario.

- La partita, disse Piero.

- Spegni che mi è passata la voglia.
 

- Avanti, disse la voce oltre la porta. La porta si aprì.

- Ah, è lei, dottor Merli, si accomodi.

 

La voce della donna era cordiale, accogliente. Si era spostata gli occhiali dalla montatura nera rettangolare sulla testa, come un cerchietto sui capelli biondi.

 

- A che devo questa visita?, chiese.

- Lavoro, procuratore.

 

La donna fece spallucce ed allargò le braccia.

 

- Siamo qui.

- Un bambino di otto anni non è tornato a casa, ieri sera, attaccò il commissario.

- Scomparso? Aveva qualcosa in mano?

- Nulla. E’ uscito da scuola regolarmente. Intorno alle dodici e venti. Non ha preso il pullmann. Non è andato con gli altri compagni. Non si sa nulla. Volatilizzato. Sembra. Volatilizzato.

 

Il procuratore gettò uno sguardo fuori. Gli uccelli dardeggiavano nell’azzurro del cielo. Sbuffò. Stanca.

 

- E qui cominciano i guai, sussurrò.

- Già, fece il commissario. Che si fa?

- Si indaga.

- Come partiamo?

- Avete sentito qualcuno?

- Sì, i compagni, due bidelli, la maestra. Niente. Tutti la stessa cosa.

- Che casino.

- Già. Possiamo cominciare a intercettare le telefonate.

- Di chi?

- Di nessuno in particolare. O meglio, di questi. Bidelli, maestre.

- Al buio.

- Se preferisce, al buio. Farsi dare i tabulati delle celle vicino alla scuola. Al solito.

- Non si può. Non più, fece secca la donna.

- Come non più?

- Non più. La nuova legge lo vieta.

- Ma c’è di mezzo un bambino, si irrigidì il commissario.

- Anche se ci fosse di mezzo il Padreterno. Non si può. Al buio o verso ignoti non si può. Perché a carico di questi non ci sono mica indizi di colpevolezza, vero commissario?

- E certo che no. Sennò li avremmo già presi.

- E quindi nisba.

- Ma che legge è questa?

- La legge dello stato. E’ l’autorità a fare la legge, non la verità, dicevano i romani.

 

Il commissario sentì l’amaro in bocca. Socchiuse gli occhi come per ripararsi dal riverbero del sole. Si passò una mano sui capelli brizzolati.

 

- Che si fa, allora?, chiese.

- Si torna all’antico. Soffiate, appostamenti, colloqui, informatori, fotografie. Sperando che servano.

- Sono servite di solito?

- Quasi mai. Solo nei film americani. E neanche sempre.

- Appunto.

 

- Pronto. Sì. Glielo passo subito, disse la donna mentre si asciugava le mani con un canovaccio a quadri.

 

Si sporse dalla porta del soggiorno.

 

- Atenagora, al telefono.

 

Il commissario si alzò lentamente, a piedi scalzi, aggirò la poltrona su cui era spaparanzato e andò ad afferrare la cornetta lasciata incustodita dalla moglie.

 

- Sì, sono io, disse, con chi parlo. Uhm. Uhm. Va bene. E richiuse.

- Novità?, chiese la moglie sporgendo il capo dalla porta.

- Forse.

- Per il bambino?

- Probabile.

- Che storia, fece la donna.

- Già, che storia.

- Non si sa ancora nulla, vero?

- Nulla. Ma domani potrebbe succedere qualcosa.

- Era ora. E’ passata quasi una settimana. Tu che pensi: è vivo?

- Speriamo.

- Speriamo. Poveri genitori.

- E poveri giudici.

- Giudici?

- Giudici. E poliziotti. Tutti con le mani legate.

 

La donna annuì. Ci vuole fortuna anche per cuocere un uovo. Certo. Ma prima ci vuole la gallina che lo fa, l’uovo.

 

La scuola elementare Pascoli era a pianta quadrata. Tutta vetro e cemento. Con un vasto cortile davanti e robinie e glicini a proiettar ombra. La ringhiera, di ferro, alta un paio di metri, verde bottiglia, correva per tutto il perimetro. Il cancello di ingresso sormontato dalla scritta in cubitali, arcuata: Scuola elementare G. Pascoli. Di sotto passarono i due poliziotti, dopo che qualcuno aprì.

 

- Buongiorno - disse il commissario al bidello che li accoglieva davanti alla porta a vetri. - Siamo venuti all’appuntamento.

 

- Di qui - fece il bidello indicando un corridoio laterale.

 

Lo seguirono. Le aule risuonavano di voci femminili che facevano lezione. Una donna in fondo spingeva un carrello con il mocio. Vennero introdotti in una stanza spoglia, una sorta di ripostiglio. Tre persone dentro.

 

- Buongiorno, dissero il commissario e Piero.

- Buongiorno, dissero in coro i tre.

- Chi di voi mi ha telefonato ieri sera?, chiese Merli.

- Io, si fece avanti un tarchiato semicalvo. Ci siamo consultati tra di noi e abbiamo pensato che ci sono delle cose che dovreste sapere.

- Uhm.

- Dunque, abbiamo fatto mente locale. E mettendo tutto in fila, ci siamo fatti convinti che c’è qualcosa di strano nella scomparsa di Andrea.

- Strano?

- Strano. Da qualche tempo alcuni di noi, io e gli altri due colleghi qui presenti, abbiamo un tizio particolare che si aggirava nei paraggi.

- Particolare come?

 

L’omino sorrise, mostrando due denti guasti. Sorrise come uno che la sa lunga, tanto lunga. A cospetto di uno che non sa nulla. Proprio nulla.

 

- Maresciallo…

- … Commissario.

- … Commissario, questo tizio è conosciuto come uno a cui gli piacciono i bambini.

- Piacciono piacciono, nel senso…

- Sì, nel senso.

- E avete avvertito qualcuno?

- La segreteria, che doveva avvertire qualcuno. Carabinieri. Polizia. Non so.

- Lo conoscete, ‘sto tizio?

- Si chiama Italo Fulvio. Fulvio di cognome. Secco, nero di capelli e di carnagione. Porta sempre degli stivali marrone. Fuma. Scomparso il bambino, scomparso lui.

- Pensate che siano collegate, le scomparse?, chiese Piero.

- Pensiamo di sì.

- E perché non l’avete detto prima?, chiese Merli.

- Glielo abbiamo detto: abbiamo dato importanza alla cosa quasi per caso. Parlando tra di noi del più e del meno. Ci dovete scusare, ma le cose sono andate davvero così.

- Già, fece Piero.

- Già, fecero gli altri.

- E voi che pensate, allora?, chiese il commissario.

- Noi? A pensar male si fa peccato, ma quasi si sempre ci si azzecca.

- Capisco. Altro di ‘sto Fulvio?

- Niente. Scapolo. Passato losco.

- Grazie.

- Grazie a voi.

 

I poliziotti strinsero le mani a tutti e uscirono in corridoi, accompagnati dal bidello dell’andata.

 

- Vi siamo stati utili?, chiese l’uomo.

- Vedremo. Tutto è utile, disse Piero.

- Se non ti ammazza, bofonchiò Merli.

 

Il commissario entrò nel bar. Tintinnii di bicchieri e tazzine in sottofondo. Odore di caffé. Un barista lungo lungo e magro come un’acciuga che trafficava sotto il bancone alzò lo sguardo. Non fece nulla. Come se non l’avesse neanche visto.

 

Merli gettò un’occhiata in giro. Al tavolino in all’angolo in fondo notò la capigliatura bionda del procuratore. Si avvicinò lentamente, quasi con cautela, passando tra i tavolini allineati. Si tastò le tasche della giacca come alla ricerca di qualcosa. Nulla.

 

- Buongiorno dottoressa Romanut.

La dottoressa sollevò il capo: - Buongiorno a lei, Merli.

 

L’uomo scostò una sedia e si sedette senza attendere l’invito. Stava leggendo il giornale, il magistrato. Lo ripiegò accuratamente e lo lasciò vicino al gomito.

 

- Novità, dottore?, disse, Come mai mi ha voluto vedere così di furia?

 

Merli tirò leggermente dal naso. Si passò una mano sotto il mento e poi l’alzò per richiamare l’attenzione del cameriere.

 

- Sì, ci sono novità, pare, disse d’un fiato.

- Quali?

- Abbiamo parlato con tre bidelli della scuola. Alcuni giorni prima della scomparsa del bambino hanno visto aggirarsi un tipo. Uno che si chiama Fulvio. Italo Fulvio.

- Fulvio?

- Fulvio di cognome. Si è fatto vedere per un paio di volte. Due, forse tre. E’ un tipo poco raccomandabile.

- Lei sa tutto.

- Quasi. Quanto basta per adesso, almeno.

- Che si sa su questo?

- Che è stato indagato per possesso e traffico di materiale pedopornografico. Se l’è cavata, però. E’ stato dentro per atti osceni qualche anno fa. Va dietro ai ragazzini. Gli piacciono. Li guarda, li scruta.

- Inquietante.

- Inquietante. E pericoloso.

- Un santarellino.

- Proprio. E nel quartiere c’è tanta chiacchiera che gira.

- Tipo?

- Questo. Che gli piacciono i bambini e se ne procura sempre.

 

Arrivò il cameriere.

 

- Un caffè per me, disse la dottoressa. Lei?

- Anche per me. E un bicchiere d’acqua fredda.

- Due caffè e un bicchiere d’acqua fredda, confermò la donna.

- Dicevamo?

- Dicevamo che ‘sto Fulvio è un pedofilo.

- L’avevo già capito. Sposato? Parenti?

- No. Niente moglie. Parenti, solo la madre. Anziana. Mezza rimbambita.

- Ci avete parlato?

- Poca roba. Come parlare al muro. Lo difende, certo. Dice cose strambe. Non lo vede da qualche settimana.

- Abita con lei?

- Sì e no. Ci abita quando ci abita. Sennò no.

- Sennò no, certo.

- Avete dato un’occhiata in giro, alla casa?

- Sì. Trovato nulla. Nulla di rilevante, almeno. Qualche rivista porno sotto il materasso. - Ma quelle ce le ha pure mio figlio di tredici anni.

- Uhm.

 

Il cameriere arrivò con il vassoio. Poggiò le tazzine ed il bicchiere sul tavolino. Le tazzine fumavano. Il bicchiere era opaco a causa dell’acqua fredda. Una gocciolina scorreva lungo la parete, aprendosi la strada come un Nilo nel deserto. I due, in perfetta sincronia, strapparono un angolino delle bustine di zucchero e lo versarono nel cratere della tazzina. Mescolano con i cucchiaini appoggiati al piattino, riappoggiarono gli stessi cucchiaini intinti di marrone sul piattino e bevvero d’un fiato.

 

- Ci vorrebbe una sigaretta, disse la donna.

- Fa male.

- Anche vivere fa male. Ma siamo qua. Dalla vita nessuno ne esce vivo.

- Allora, che si fa? -Chiese Merli.

- Poca roba. Poca scelta. Insistere. Solo questo. Continuare a insistere.

- Niente intercettazioni?

- Non ancora. E’ troppo poco.

- Come poco? Non ci sono abbastanza indizi di reato, come si dice in giuridichese?

- Può darsi. Ma non è mica in corso.

- Cioè?

- Cioè che il reato deve essere in corso. Qui è in corso?

- Che caz… cosa significa? Mi prende per il cu… in giro? Il reato caso mai è stato - consumato: sequestro, si chiama.

 

La Romanut sorrise.

- Lo so come si chiama. Ma è così, ormai. E’ necessario che ci sia la certezza del reato. C’è la certezza?

- Del reato?

- Del reato.

 

Merli, tentennò.

- La certezza proprio direi di no. Per quanto ne sappiamo potrebbe esserci stata una disgrazia, anche se…

- Anche se sospettiamo di ‘sto Fulvio.

- Sospetto non è certezza. Servono certezze. Questo dice la legge. E nel nostro caso le certezze non ci sono. O mi sbaglio? Non ancora, almeno.

- Mi scusi. - Disse il commissario scaldandosi e scostando la sedia dal tavolino.

- Se non ricordo male, gli indizi di reato sono quelli che servono per chiedere l’arresto. - Non è così?

 

La donna annuì.

- E a cosa serve fare le intercettazioni se si sa già, con sicurezza, che si sta commettendo un reato? Questo non è ormai il momento per mettergli le manette ai polsi?

 

La donna fece spallucce.

- Non servono a nulla.

- E’ irrazionale. O sbaglio?

- Già. Sed lex.

- E mettere sotto intercettazione il telefono della madre?

- La madre non è lui. E non credo che sappia di quello che sta combinando il figlio. O sbaglio.

- Non ne sa nulla. L’abbiamo interrogata. E’ una povera vecchia. Ma…

- … Ma mettere il suo telefono sotto controllo potrebbe farci scoprire dove si trova il figlio, giusto? E’ questo che vuole dire?

- Esatto.

- Non si può. Se non sa nulla di quello che ha combinato il figlio, non si può.

- Non si può?

- Non si può.

- Sempre la legge?

- La legge.

- Ma neanche…

- Neanche.

 

Merli si guardò attorno. Un occhio gli cadde sul giornale piegato.

- Dottoressa, una dichiarazione, almeno, potrebbe rilasciarla. - Disse.

- Così, tanto per togliere di mezzo la cappa di silenzio su questa storia.

 

La Romanut sorrise di nuovo.

- A che pro? Tenere desta l’attenzione?

- E mettere in guardia la gente. Ma soprattutto cercare di farsi aiutare.

- E non far sentire tranquillo il tipo.

- Già.

- Qualche trafiletto è comparso sulla stampa.

- Solo?

- Solo. Io non posso fare nulla. Non posso violare il segreto.

- Sulle indagini?

- Sulle indagini.

- Sennò?

- Sennò mi sostituiscono. O meglio mi possono denunciare per violazione del segreto d’ufficio. Al che i miei colleghi mi devono iscrivere nel registro degli indagati. Atto dovuto. E da qui scatta la sostituzione. Out.

- Che storia. Siamo accerchiati.

- Può ben dirlo.

 

Il commissario si fermò nuovamente. Gettò un nuovo sguardo al locale. Una donna gli passò davanti. Lui non la notò, neanche fosse trasparente. Sbuffò. Stanco. Confuso. Aveva prosciugato il fondo delle idee.

 

- Che cazzo di leggi, disse, mi scusi dottoressa.

- Non si preoccupi. Capita anche a me.

- Cosa?

- Di scoraggiarmi. Di arrabbiarmi. E di usare certe parolacce. Come legge.

 

Il commissario Merli guardava fuori dalla finestra. Tramonto con il sole a bagnomaria sull’orizzonte. Dietro i caseggiati rosseggianti della periferia si intuiva la pianura verde, rombante, inquinata. Il cielo azzurro era percorso dai voli geometrici dei passeri scuri. Passeri. Rondini. Cos’altro? Osservava qualcosa dentro la sua testa. Un puntino luminoso in un mare di inchiostro di seppia. La cravatta allargata al collo, un bicchiere di carta con il caffè della macchinetta in mano. L’altra mano infilata nella tasca dei pantaloni. Qualcuno bussò. Piero.

 

- Commissario, ci sono cose nuove.

 

Merli si voltò.

- Dimmi.

- Io, Jovine e Barbon abbiamo fatto il giro dei quartieri. E’ stata dura, ma qualcosa è venuta fuori. Nel quartiere di San Giuliano abbiamo parlato con un edicolante. Ha riconosciuto Fulvio. Fulvio e il bambino.

- Il bambino?

- Sì, il bambino.

- Insieme?

- Insieme. Dice che se lo ricorda perché da qualche giorno veniva a prendere dei gormiti.

- A prendere chi? E cosa sono ‘sti gomiti?

- Gormiti, commissà, gormiti. Sono dei pupazzetti di plastica. Dei mostriciattoli. Che ai bambini piacciono tanto. Ci andava Fulvio in edicola. E’ lui che l’edicolante dapprincipio ha riconosciuto. E costano, ‘sti mostri, sa.

- E che ci faceva Fulvio con i pupazzi? Pensi quello che penso io?

- Credo di sì.

- E il bambino?

- Ecco il bambino. Dice sempre l’edicolante che una ventina di giorni fa. Si ricordi: una ventina di giorni.

- La scomparsa.

- Esatto. La scomparsa. Dunque una ventina di giorni fa Fulvio c’è andato con bambino.

- Andrea?

- Lui. L’ha riconosciuto dalla foto. Anche Fulvio l’ha riconosciuto dalla foto. Fulvio ha comprato al bambino quattro o cinque di ‘sti pupazzi e poi se lo portò via.

- Tutto?

- No. Qualche minuto dopo ripassarono davanti all’edicola. In macchina, stavolta. Fulvio alla guida, ovviamente, e il piccolo dietro. Coi pupazzi in mano. Contento e sorridente. Ora, non so se lei sa dov’è l’edicola. E’ in corso Umberto. Sempre pieno di traffico. Lì vicino c’è un semaforo che dura quanto i cento metri per una lumaca. La macchina di Fulvio si fermò davanti all’edicola. In coda. Andrea dietro. Lo chiamò persino, all’edicolante. Gli mostrò da lontano i pupazzi che aveva in mano.

- Chiamò l’edicolante?

- L’edicolante.

- Chiamalo. Voglio parlarci.

- Non c’è bisogno: è qua davanti che aspetta.

- Bravo. Fallo entrare. Chiama Jovine per la deposizione. E la Romanut. Passamela, poi.

- Il procuratore?

- Quante Romanut conosci tu?

- Solo quella.

- Ecco.

 

Piero girò sui tacchi, afferrò la maniglia per uscire, ma si bloccò. Girò la testa verso Merli, abbassandola un po’.

- Commissà, che dice, ci siamo?

- Chi lo sa.
 

Il cellulare gli squillò nella tasca interna della giacca. Gli saltellò dentro come un animaletto epilettico.

 

- Pronto, disse Merli.

- Pronto, sior commissario, fece la voce all’altro capo.

- Ah, sei tu, Barbon. Tutto a posto?

- Sì. Gh’ avèmo il decreto. Ma, sior commissario, gh’hanno fato un film.

- Che film.

- Eh, che film. Schersa lei, sior commissario. Ma ci hanno fato ritornar dopo una settimana perché i se dovea riunir. Tre giudici se dovea riunir. Dicono che xe la lege. Lo sa lei? Mi no de certo. Ora, finalmente, avemo l’autorizzasion.

- Uhm. Bravo. Bravi tutti.

- Grassie. Speremo che serva sennò semo fregà.

- Dove siete?

- Par strada.

- Portate tutto alla Romanut. Ora la chiamo e l’avviso.

- Occhei, commissario. A dopo.

 

Richiuse. Fece il numero della Romanut.

- Pronto, dottoressa. Jovine e Barbon sono per strada. Hanno autorizzazione per le intercettazioni.

- Sì. Lo penso anch’io. E’ passato troppo tempo. Se quello non è fesso, ha almeno cambiato numero. O cellulare. Arrivederci.

 

Quello, in effetti, non era fesso. O almeno non quanto speravano loro. Il numero era disattivato. Muto. Numero inesistente, diceva la signorina del servizio telefonico.

 

- Tutto da rifare. - Disse il commissario.

- ‘Sto cazzo di legge è fatta per i criminali. Altro che. Una tagliola, ecco cos’è. E il tempo è la tagliola di tutti. Gioca contro di noi. E a favore loro.

 

Si slacciò la cravatta e la gettò sul divano. Appoggiò i piedi sul tavolino basso. Le punte delle scarpe erano impolverate. Le strofinò sui polpacci. Prima l’una e poi l’altra. Tornò a fissarle.

 

- Ci vuole un altro colpo di culo, sussurrò.

 

La moglie gli portò il caffè. Adorava il caffè dopo cena.

 

- Nicolò?, chiese.

- In camera sua. Fa i compiti.

- Non è tardi?

- Forse. Lo sa lui. Ormai chi gli può dire niente!

 

Merli tacque di nuovo. Pensieroso. Si alzò, andò alla libreria ed afferrò un romanzo di Mario Soldati. Lo sfogliò distrattamente. Si fermò a guardare il muro compatto di copertine. Ma inseguiva qualche pensiero dentro di sé.

 

- A che pensi?, chiese la moglie.

- Nulla. Che è tutto da rifare.

- Sembri Bartali.

Lui sorrise.

 

- Perché è tutto da rifare?

- Perché il cellulare del tizio è morto.

- Che vuol dire?

- Questo. Vuol dire che non ne possiamo fare né utile né capitale.

- E ora?

- Ora niente. Così. Bisogna guardare in faccia la realtà. Così almeno ci può prendere per il culo come vuole.

- Chi?

- La realtà.

 

Lei annuì.

- Punto e a capo, allora?

- Tutto da zero. Vediamo. Fece schioccare la lingua: ho la bocca dolciastra - Disse.

Il caffè era troppo dolce.

 

- Due cucchiaini come piace a te. Sarà lo zucchero.

- O i cucchiaini.

- O il caffè.

 

- Ma quanto tempo è passato?, chiese Jovine quasi sovrappensiero.

- Quasi un mese e mezzo, disse Piero. E ancora siamo al punto di partenza. E’ la millesima volta che facciamo ‘sta strada.

- E meno male che quello del negozio si è ricordato. Sennò col cazzo.

- Meno male.

 

L’auto con a bordo i due filava liscia sulla statale. Sul sedile posteriore dormicchiava la nuova cartella con al documentazione del tribunale. Verde, con due strisce orizzontali nere. Dentro, tra l’altro, anche la nuova autorizzazione per le intercettazioni. Il nuovo numero l’avevano trovato grazie ai ricordi del commesso di un negozio di cellulari e roba del genere. Si ricordava di Fulvio. Non sapeva perché. Se lo ricordava e basta.

 

La Romanut li aspettava. Di nuovo. Seduta alla scrivania. La cicca accesa nel posacenere che emetteva un filo di fumo. Spulciava atti, documenti, fogli. Poi alzava la testa, guardando di fronte, portandosi una matita alle labbra e sistemandosi gli occhiali sul naso. Pensierosa. O perplessa.


Ve lo dico subito: la storia non finì bene. Non è il paese dei lieto fine, questo. E poi non è che debbano finire bene per forza. Anzi. Il mestiere che facevo mi ha insegnato che sono poche le storie che finiscono come devono finire. Tu vai avanti, ti impegni, sudi come un cane, speri di dare il tuo contributo. Ma c’è sempre qualcuno che ti va contro. Che trama contro il tuo lavoro, le tue speranze, contro di te.

 

La sensazione ce l’hai spesso, ma tiri avanti lo stesso. Cosa vuoi che accada, ti dici, peggio per loro. Io ho la forza delle mie idee e del mio impegno. Macché.

 

Alla fine, la spuntano loro. Per questo ‘sto paese sta andando a rotoli. Tutto comincia da piccoli. Se a un bambino insegnano a dire noi, ma a pensare io, è già tutto perduto. E così è stato da noi. Ognuno per sé. E la legge fatta per ciascuno, non per tutti. Rispettare che? Rispettare cosa? Il mio privilegio.

 

Poi si cambia il senso delle parole. Lentamente. Impercettibilmente, come dicono quelli che hanno studiato tanto. Come la rana messa a cuocere a fuoco lento sul fornello. La sapete la storia? Una rana viene messa in un bel pentolone d’acqua da uno scienziato. L’acqua è a temperatura ambiente. La rana ci si trova bene. Tutto occhei. La pentola poi viene messa sul fornello. E l’acqua comincia a riscaldarsi. Lentamente. All’inizio diventa tiepida. La rana ci si trova benissimo. E’ allegra, canta e ride, se volete immaginarvela così. Non ha nessuna intenzione di uscire. Ma a poco a poco l’acqua diventa sempre più calda. La rana ci si trova ancora bene. Però a poco a poco, man mano che l’acqua si riscalda, sente le forze che l’abbandonano. Ma non fa nulla. Si trova ancora bene. E poi non ha molta voglia di lasciare quel calduccio. Sta bene. Certo un po’ di caldo, ma sta bene. La temperatura aumenta. Le forze abbandonano sempre più la rana. Ora è decisamente stanca, quasi cotta, diremmo. Si accorge del pericolo, ma ormai non ha più le energie per fare un balzo e scappare. Il caldo aumenta e anche la sua angoscia, mentre la sua debolezza è massima. Alla fine, quando si rende conto di sta per morire, tenta disperatamente di salvarsi. Ma ormai è troppo tardi. E muore cotta.

 

E’ stato furbo l’uomo che l’ha messa in pentola. L’ha fatta bollire lentamente. Senza dare nell’occhio, senza allarmare la rana. Se, invece, l’avesse gettata fin dall’inizio nell’acqua bollente, lei si sarebbe ribellata, con balzo sarebbe schizzata via. Invece, con il metodo della lenta cottura, piano piano, è riuscita a fregarla.

 

Così siamo noi, nel nostro paese. Hanno cambiato il senso di alcune parole e hanno spacciato il privilegio per libertà. Hanno spacciato l’egoismo per iniziativa e l’arbitrio per privacy. E io non ce la facevo più. Il voltastomaco non mi faceva dormire la notte. Prima di dimettermi ci ho pensato bene, naturalmente. Ma più ci pensavo, più cresceva lo schifo e più mi convincevo di dovermene andare.

 

Per tornare a noi, il bambino non lo trovammo. Ma scoprimmo che fine fece. Impotenti. Ce lo sfilarono da sotto il naso. Lo scoprimmo, ma non riuscimmo a fare nulla. Il massimo dell’impotenza. I genitori me li sono sempre immaginati disperati, con gli occhi rossi di collera. Giustamente. Non so se hanno capito di chi fosse la colpa. Non mi stupirebbe che se la fossero presa con noi. Noi poliziotti, dico.

 

O se si resero conto che tutto nasceva dall’alto, dalla politica, dal potere, dalla legge che dovrebbe tutelarci e farci sentire tranquilli. Non gliel’ho mai chiesto. Non li ho mai incontrati. Mai. Impotenti, siamo. Impotenti. E soli. Squallidamente soli.

 

Dopo sessanta giorni di intercettazioni avevamo poco o nulla in mano. Bla bla, bla bla. Quello, Fulvio credo si chiamasse, parlava parlava ma non si scomponeva. Il tempo passava e quello non si scopriva. Sapeva che stavamo all’ascolto? Può darsi. O lo intuiva almeno. Stupido non era. Per cui, probabilmente, c’era arrivato che noi lo sentivamo. E noi ad ascoltare. Quello nulla. E il tempo filava come una goccia nella siringa. Settantacinque giorni. Settantacinque notti. Due mesi e mezzo. Tanto per legge potevamo ascoltare. Non un giorno in più.

 

A mezzanotte del settantacinquesimo giorno, zac: staccare tutto. Tutto questo è il tempo massimo che, in Italia, si può perdere per salvare la vita di un bambino. La legge. L’ultimo giorno doveva essere il 29 settembre.

 

Sono forte con i numeri, io. Mi ricordo le date. Tutte le date. L’attentato di Sarajevo e la strage di Ustica, l’omicidio di Moro, la vittoria ai mondiali del 1982 e quella del 2006. Tutte. Il 29 settembre, dicevo, scadevano i settantacinque giorni. Il 30 sarebbe stato troppo tardi. Anzi, alle 0,01 del 30 sarebbe stato già tardi. Poco prima di staccare, però, abbiamo avuto l’imbocco giusto. Si capiva tutto.

 

Mi sono sempre chiesto se il tizio l’avesse fatto apposta, se conosceva la normativa, se aveva volto prenderci per il culo. Qualche risposta me la sono data, ma me la tengo per me. Insomma, tutto fu chiaro all’improvviso. Alla fine. Quando ormai non c’era più tempo. Io e Jovine stavamo ad ascoltare. Barbon non c’era quella notte. C’era uno della scientifica, di cui non mi ricordo il nome, Frigerio forse, non so. Si parlava di soldi. Si parlava del regalo che era poi il bambino. "Piè" - disse Jovine - "Se lo stanno vendendo come carne da macello". Non lo potrò mai dimenticare. A chi? Bè, pedofili forse. Trapianti, forse. Sicuramente non a suore di carità. "Piè se lo vendono" - mi disse ancora Jovine con le lacrime agli occhi. Ascoltammo ancora. Speravamo che si tradissero, che si lasciassero sfuggire il luogo della consegna. Nulla. L’ultima cosa che quello disse fu: "Ti chiamo domani per dirti dove". Domani era tardi. Ci guardammo io, Jovine, il commissario, l’altro tecnico. Silenzio. Impotenti, sconfitti. Dalla legge, sconfitti.

 

Forse fu quello il momento in cui presi la decisione dell’addio. Tornai a casa dopo aver girato per i bar aperti di mezza città. In mente mi rimbombavano le parole di mio padre: "Fa’ la cosa giusta e se noi puoi farla giusta, falla e basta". E mi dimisi.

 

L’indomani presentai le dimissioni. Nessuno tentò di farmi cambiare idea. Nessuno ci sarebbe riuscito, d’altronde. Divenni un ex. Ex poliziotto, ex servitore di uno Stato ex.

 

Solo la mia dignità non si era dimessa, non era diventata ex. Per questo mollai tutto. Per non essere preso per il culo. Da nessuno. Neppure dalla legge.


 

 

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