N. 109 - Gennaio 2017
(CXL)
Giuseppe Prina, il torto di servire lo Stato
Storie napoleoniche
di Gaetano Cellura
L’omicidio
barbaro
del
conte
Giuseppe
Prina,
ministro
delle
finanze
del
Regno
Italico,
è
riportato
da
Stendhal
nella
Certosa
di
Parma.
Insieme
alla
grande
soddisfazione
che
ne
ebbe
il
marchese
del
Dongo.
Il
padre
di
Fabrizio,
eroe
del
romanzo
stendhaliano,
era
filo
austriaco
sino
al
fanatismo:
odiava
Napoleone
e le
nuove
idee:
vedeva
giacobini
dappertutto;
e
per
diciotto
anni
–
quanti
durarono
la
Repubblica
Cisalpina,
la
Repubblica
Italiana
e il
Regno
Italico
e
quanti
ne
trascorsero
per
il
ritorno
degli
austriaci
a
Milano
– se
ne
restò
chiuso
“a
brontolare”
nel
suo
castello
di
Griante
sul
lago
di
Como.
Napoleone
Bonaparte,
dopo
esserne
stato
proclamato
presidente
a
Lione,
affidò
a
Melzi
d’Eril
il
governo
della
Cisalpina.
Oltre
a
lui
ne
facevano
parte
Prina,
appunto;
Marescalchi
come
ministro
degli
esteri,
ma
con
l’obbligo
di
risiedere
a
Parigi;
al
ministero
dell’interno
si
avvicendarono,
senza
brillare,
Villa
e
Felici.
Guardasigilli
era
il
giurista
Spannocchi
e
ministro
della
guerra
il
conte
Trivulzio.
Consacrato
imperatore
il
2
dicembre
del
1804,
Bonaparte
obbligò
la
Repubblica
Cisalpina
a
cambiare
le
sue
istituzioni.
Disse
a
Marescalchi
e a
Melzi
di
far
votare
alla
Consulta
una
legge
che
la
trasformava
in
regno
ereditario
di
cui
lui
naturalmente
assumeva
la
Corona
Ferrea
nel
1805.
Giuseppe
Prina
aveva
senso
dello
Stato,
competenza
finanziaria
e
capacità
di
governo.
Non
era
facile
pareggiare
i
conti,
viste
le
uscite
(tra
cui
un
peso
notevole
aveva
il
mantenimento
di
due
eserciti:
il
francese
e
l’italiano).
Ma
Prina
vi
riuscì
inventando
la
“tassa
di
famiglia”,
tassando
anche
i
consumi
di
prima
necessità,
che
gravarono
sulle
classi
popolari,
e
istituendo
il
Monte
Napoleone
che
poté
emettere
buoni
fruttiferi.
“Qui
non
c’è
che
un
uomo
intelligente
e di
carattere”
–
disse
Napoleone
al
figliastro
Eugenio
di
Beauharnais
quando
gli
affidò
il
vicariato
del
Regno
d’Italia.
L’imperatore
si
riferiva
naturalmente
a
Prina,
che
aveva
creato
uno
dei
più
efficienti
ordinamenti
tributari.
Un
ordinamento,
rimasto
in
vigore
con
il
ritorno
degli
austriaci,
che
scontentò
i
ricchi,
non
abituati
a
pagare
le
tasse,
e i
poveri
che
non
ne
avevano
la
possibilità.
Il
ministro
fu
il
primo
a
subirne
le
rappresaglie
appena
le
cose
si
misero
male
per
Napoleone
e il
viceré
Eugenio
fu
costretto
a
trattare
l’armistizio
con
gli
austriaci,
di
cui
i
milanesi
invocavano
il
ritorno.
Quel
ritorno
che
fece
impazzire
di
gioia
il
marchese
del
Dongo.
Il
20
aprile
del
1814,
sentendo
odore
di
saccheggio
e di
vendetta
e
fomentato
dai
nemici
delle
“marsine
ricamate”,
come
erano
chiamati
gli
esponenti
del
regime
napoleonico
in
Italia,
il
popolo
assalì
la
casa
di
Prina
e lo
costrinse
a
scappare.
Stendhal
racconta
così
il
massacro
per
strada
del
conte,
le
sue
cinque
ore
di
agonia:
“Lo
avevano
ucciso
a
colpi
d’ombrello.
Un
prete,
il
confessore
del
marchese
del
Dongo,
avrebbe
potuto
portare
in
salvo
Prina
aprendogli
il
cancello
della
chiesa
di
San
Giovanni:
quel
disgraziato,
infatti,
era
stato
trascinato
lì
davanti,
e
per
un
momento
lo
avevano
anche
abbandonato
in
mezzo
alla
strada,
nel
canaletto
di
scarico.
Ma
il
prete
si
era
rifiutato
di
aprire,
e lo
aveva
deriso.
E,
sei
mesi
dopo,
il
marchese
si
prese
il
gusto
di
fargli
avere
un
bell’avanzamento”.
Al
povero
ministro,
che
aveva
quarantotto
anni,
furono
strappati
gli
occhi,
la
lingua
e i
denti.
Tra
i
suoi
soccorritori
c’era
Ugo
Foscolo,
che
tentò
inutilmente
di
placare
la
folla.
E
tra
gli
istigatori
Federico
Confalonieri,
secondo
le
accuse
dei
suoi
nemici.
In
realtà
il
conte
Confalonieri
capeggiava
la
sommossa
contro
il
viceré
Eugenio
e
negò
ogni
suo
coinvolgimento
nel
massacro
di
Prina,
i
cui
resti
sanguinolenti
vennero
trascinati
per
strada
dall’orda
inferocita.
Alessandro
Manzoni
assistette
alla
scena
dalla
finestra
di
casa
e ne
rimase
così
sconvolto
da
cadere
svenuto
sulla
poltrona.
Appena
si
riprese,
corse
nella
villa
di
Brisuglio
e
ritornò
a
Milano
quando
il
maresciallo
Bellegarde
vi
riportò
l’ordine.
Odiato
dal
popolo
a
causa
dei
tributi
imposti,
e
dagli
avversari
del
regime
napoleonico,
Giuseppe
Prina
aveva
il
solo
torto
di
essere
un
amministratore
rigoroso:
gli
davano
un
compito
politico
–
risanare
lo
Stato
– e
lui
lo
portava
a
termine
con
scrupolo,
forte
dell’esperienza
precedentemente
acquisita
come
Procuratore
generale
della
Corte
dei
Conti
di
Torino.
Durante
l’assalto
alla
sua
abitazione
la
folla
era
in
preda
alla
frenesia
di
trovarvi
chissà
quale
tesoro
nascosto.
Ma
non
ce
n’era
alcuno.
Per
quanto
odioso,
agli
occhi
del
popolo,
fosse
stato
il
suo
compito
di
“ministro
delle
tasse”,
il
conte
Prina
aveva
solo
servito
prima
le
due
Repubbliche
sorelle
e
poi
il
Regno
Italico.
In
un
mondo
milanese
disunito
da
congiure
e
rivalità.