N. 92 - Agosto 2015
(CXXIII)
DIARIO DI GUERRA DI GIUSEPPE GIURIATI
UN DICIANNOVENNE NELLA GRANDE GUERRA
di Valentino Appoloni
Quello di Giuseppe Giuriati è un diario dalla scrittura semplice e immediata; l’autore è un giovane di modesta estrazione, originario di Treviso e quindi conterraneo del più noto Giovanni Comisso che firma la prefazione del libro pubblicato per la prima volta nel 1935. Il diarista giunge al fronte nel 1917, dopo l’arruolamento nel Secondo Reggimento dei granatieri di Parma, avvenuto nel giorno del suo onomastico.
La
sua
esperienza
bellica
è la
discesa
in
un
mondo
orrido
fatto
di
terrificanti
emozioni,
costante
paura,
cupo
sconcerto
davanti
a
sempre
nuove
prove
di
fatica
e
dolore.
Combattente
sul
Carso,
subisce
la
disgraziata
vita
del
soldato
di
trincea
che
dopo
lo
sfacelo
di
Caporetto
diventerà
la
tormentata
esistenza
di
uno
dei
tanti
prigionieri
italiani
in
Germania.
La
paura
gli
fa
ripetere
come
un
ritornello:
“Addio
Bepi”.
Ma
ha
il
pregio
di
resistere
davanti
a
ogni
sofferenza,
sia
quando,
ad
esempio,
di
notte
è di
sentinella
e
non
retrocede
nonostante
il
timore
del
nemico
sopraggiungente,
sia
quando
deve
sopportare
una
sorta
di
Via
Crucis
nei
tre
campi
di
concentramento
in
cui
viene
rinchiuso
per
quattordici
mesi.
Il
suo
universo
di
valori
è
inevitabilmente
elementare;
la
famiglia,
i
genitori,
i
paesani
occupano
i
primi
posti,
insieme
alla
fede
religiosa.
Non
c’è
traccia
di
alcuna
riflessione
o
critica
sulle
ragioni
della
guerra
e
sulle
giustificazioni
di
un
massacro
che
vede
molti
contadini
come
Giuseppe
in
prima
linea
nelle
sanguinose
battaglie
sull’Isonzo.
Riferisce
quanto
gli
succede,
le
sue
sofferenze
fisiche
e
morali,
senza
filtri
o
mediazioni.
Giuriati
è un
soldato
che
non
si
pone
troppe
domande;
bisogna
combattere
e
nonostante
il
terrore
della
morte
lui
lo
fa
fino
in
fondo,
come
narra
a
proposito
della
sua
cattura.
Racconta
che
quando
dopo
lo
sfondamento
di
Caporetto
si
ritrova
con
il
suo
reparto
stretto
dall’accerchiamento
nemico
che
non
si
riesce
a
spezzare,
nonostante
diversi
tentativi,
lui
e un
compagno
si
mettono
a
piangere
per
la
disperazione
di
finire
prigionieri.
In
terra
tedesca
lo
aspettano
non
solo
fame
e
fatica,
ma
anche
umiliazioni
e
violenze.
Ecco
cosa
riferisce:
“
…
appresso
ai
dormitori
i
tedeschi
avevano
una
stanza
chiamata
da
noi
il
patibolo,
entro
avevano
un
apparecchio
come
uno
sgabello
rovesciato,
ci
legavano
le
mani
dietro
il
sedere
poi
bendavano
la
bocca
per
la
voce
e
poi
ci
gettavano
a
bocconi
sopra
quell’apparecchio
e
col
nervo
di
bue
battevano
a
turno
fino
a
che
credevano
loro”.
La
scarsità
di
cibo
è
appena
alleviata
dall’arrivo
di
pacchi
viveri
dalla
Croce
Rossa
e
dall’Italia.
Molti
compagni
si
ammalano
e in
mancanza
di
cure
adeguate
muoiono.
Solo
nel
febbraio
del
1919
Giuriati
riesce
a
tornare
a
casa,
portando
con
sé
molti
ricordi
personali
della
sua
terribile
avventura
che
lo
ha
segnato,
ma
senza
spezzarlo.
Infatti,
non
c’è
volontà
di
rimozione
di
quanto
subito
e
nemmeno
volontà
di
rivalsa.
Così
conclude
il
suo
diario,
senza
rabbia,
elencando
con
minuzia
e
precisione
quanto
portato
dalla
Germania:
“Nella
cassetta
contenevo
anche
a
ricordo
un
libro
panorama
del
campo
di
Meschede,
una
forbice
per
mia
madre,
il
campanello
della
chiesetta
baracca
del
campo,
una
tazza
tedesca,
una
cravatta
tedesca,
una
razione
di
pane,
e il
coltello
e la
bilancia
di
legno,
e la
bacinella
dove
io
mangiavo
e il
cucchiaio
con
appresso
l’anello
e lo
spago
che
si
teneva
legato,
piastrino
di
riconoscimento,
corrispondenza,
libri
di
preghiere
e le
fotografie
dei
parenti,
una
medaglia
di
S.
Giuseppe
trovata
in
trincea”.