LA STRAORDINARIA VITA DI GIUSEPPE
DOSI
UN UOMO DAI MOLTEPLICI VOLTI
di Francesco Caldari
Giuseppe Dosi si guardò intorno,
seduto a un tavolo della mensa del
manicomio giudiziario di Santa Maria
della Pietà di Roma, stretto nella
sua bella giacca di un vivo color
rosso. Unico a non indossare la
grigia divisa dei suoi compagni
internati. Pazzo non era, seppure
tale era stato giudicato da un
medico psichiatra alto ispettore del
Ministero di Grazia e Giustizia, che
gli aveva riscontrato sindrome
paranoidea con idee persecutorie.
Erano ormai diciassette mesi che si
trovava lì rinchiuso, dopo che per
altri tre gli avevano fatto
assaggiare la cella 404 del carcere
di Regina Coeli, in “stretto
isolamento cellulare a disposizione
del Capo della Polizia”. Mettersi
contro il Capo della Polizia del
XVIII dell’Era fascista, che poi era
semplicemente il 1939, gli era
costato caro. Arturo Bocchini lo
aveva messo nero su bianco: “farlo
visitare da uno psichiatra. Se non è
pazzo da rinchiudere in manicomio,
confino per 5 anni su un’isola”. In
fondo, aveva solo pubblicato un suo
memoriale, scritto nei minimi
dettagli come era solito fare (483
pagine!) e lo aveva inviato, anche
al Duce.
Anni dopo, nel 1956, in una
intervista all’Europeo riconobbe la
colpa di “agitarsi troppo affinché
mi si valorizzasse come ritenevo
fosse quasi un mio diritto”. Voleva
far sapere al Duce come lo avevano
trattato, una trottola in giro per
gli Uffici di Pubblica Sicurezza
d’Italia, lui, promosso nel luglio
del 1923 Commissario per meriti
speciali, e che a fine 1925 aveva
assicurato proprio Mussolini,
ricevendone un elogio, su un
presunto dossier segreto tenuto a
Berna e riguardante il periodo
trascorso dal futuro Duce in
Svizzera quale socialista
rivoluzionario. Nulla di che, un
innocuo scritto ben custodito in una
cassaforte dei colleghi della
polizia elvetica a Ginevra, aveva
sentenziato Dosi, che, chissà, forse
per farsi perdonare dal regime
avrebbe poi anche scritto un’opera
in tre atti, L’Aurora, da lui stesso
definita “lavoro fascista teatrale”.
Evidentemente non era bastato a
placare l’infuriato Bocchini.
La vita sa essere beffarda, deve
avere pensato il
Commissario-scrittore Giuseppe Dosi.
Anche lui nel Padiglione XVIII del
manicomio giudiziario, proprio come
toccò a quel pastore anglicano
inglese presso la chiesa di Roma,
Ralph Lyonel Brydges, cui aveva dato
la caccia e aveva arrestato,
convinto che fosse l’autore della
atroce sorte toccata a quattro bimbe
tra il 4 giugno 1924 e il 12 marzo
del 1927 a Roma. Dosi aveva avuto il
coraggio di scriverlo chiaro: Gino
Girolimoni, bellimbusto da quattro
soldi in cerca di avventure galanti,
non c’entrava nulla con quelle
violenze e omicidi. Non era certo
lui a essere entrato in un bar in
compagnia di una delle bimbe che poi
avrebbe orrendamente seviziato e
ucciso. Come sarebbe stato possibile
farsi palesemente notare dall’oste
con una delle sue vittime?
Ma gli esili indizi raccolti avevano
portato Girolimoni in carcere e
lasciato il reverendo
Brydges
fuori. Dosi era convinto di avere le
carte giuste in mano per far
riaprire il fascicolo penale. Il
nome del reverendo lo aveva
incrociato nel settembre del 1927
nel corso di una sua missione
“speciale” a Capri (una delle tante
che gli avevano affidato da quando
era in forza alla Divisione Affari
Generali e Riservati), per cercare
di comprendere il mondo debosciato –
così si scriveva nelle carte di
polizia – che fioriva sull’isola.
Non solo dandy, ma anche una
sorta di comunità omosessuale, con
la presenza di numerosi stranieri.
Il settantunenne Brydges era stato
arrestato in flagranza mentre
commetteva atti osceni su una
bambina e subito rilasciato su
pressione del consolato inglese.
Dosi, tornato a Roma, approfondì le
indagini e si mise sulle tracce del
reverendo. Ma la polizia fascista
poco interesse aveva a che la
questione delle bimbe tornasse sulle
prime pagine, dopo il panico che si
era scatenato pochi anni prima.
Girolimoni era stato prosciolto in
istruttoria per insufficienza di
prove e era libero (il reale
avventore dell’osteria si presentò
al commissariato Trionfale,
dichiarando che in realtà quello
indicato era lui con la figlia) e il
reverendo godeva di potenti appoggi.
E che Dosi se ne stesse tranquillo,
altrimenti lo avrebbero spedito a
Cortina d’Ampezzo.
Ma il tenace poliziotto non ne volle
sapere, e il 13 maggio 1928 si recò
a Genova per notificare a bordo
della nave Linstephan Castle, che
stava per portarlo al sicuro
all'estero, il provvedimento di
fermo al reverendo Brydges. Apriti
cielo! Il minacciato trasferimento a
Cortina si concretizzò, Brydges fu
rinchiuso per tre mesi proprio nel
padiglione XVIII di Santa Maria
della Pietà, per poi ottenere
l’assoluzione per non aver commesso
il fatto. Se ne andò in Canada. E
quel tarlo rimase nella testa del
detective Dosi per anni e anni,
tanto che ci scriverà anche un
libro. Che dire poi del
tourbillon di trasferimenti che
dovette subire come conseguenza
della sua tenacia?
Tre anni ad Assisi, dove almeno
trovò il tempo per laurearsi in
Giurisprudenza presso l’Università
di Perugia discutendo una tesi sul
“valore della polizia
internazionale”, poi nel 1932 La
Spezia, che lo vide protagonista di
un’altra inchiesta che scosse
l’opinione pubblica: quella di una
donna depezzata i cui resti erano
stati rinchiusi in valigie rinvenute
rispettivamente su treni nelle
stazioni ferroviarie di Napoli e
Roma.
I giornali lo etichettarono come il
caso del Landru italiano, e le
indagini, condotte alla Spezia da
Dosi poiché lì furono raccolte
importanti testimonianze su un
passeggero sospetto, portarono alla
individuazione dell’autore di quello
e altri omicidi e alla sua condanna
a morte. Dosi ne aveva abbastanza di
girare l’Italia, e cominciò a
lamentarsi con i superiori, che
pensarono bene di mettere la sordina
a quel funzionario divenuto
ingombrante: sospensione di tre mesi
dal servizio e dallo stipendio.
Trovò rifugio nella scrittura:
collaborava con una rivista
americana, True detectives
mysteries, e tornò ai drammi: Il
Pierrot giallo era un’opera in tre
atti, quindi le altre.
Poi, quando riprese servizio, a
Firenze, Urbino nel 1935 e Vasto nel
1936, si dedicò al Memoriale di 483
pagine inviato al Duce, che fu la
goccia che fece traboccare il vaso:
stavolta dispensa dal servizio per
violazione della legge ed eccesso di
potere, quindi il 19 giugno 1939
arresto. Dopo tre mesi di carcere
duro, sbattuto nel manicomio
giudiziario.
Dosi era un poliziotto davvero
sui generis. A dirla tutta lui
avrebbe voluto essere attore. A
ventun anni, nel 1912, da giovane
studente universitario, era stato
anche ingaggiato dal Teatro
Argentina di Roma. Slanciato
com’era, la sua specializzazione
erano i travestimenti. Da “generico”
lo pagavano cinque lire al giorno.
Seppure arrotondasse con lezioni di
francese e di inglese ai figli degli
attori e con qualche comparsata
negli iniziali lavori
cinematografici, i modesti guadagni
comunque non gli consentivano di
sfamare sé e la mamma, dopo che il
papà carabiniere era mancato
prematuramente. Né avevano attirato
molto interesse i suoi primi acerbi
scritti, l’operetta Don Martuccio
del 1910, Il Ritorno, dramma
in tre atti dell’anno successivo e
il dramma in un atto La madre
sterile, del 1912. La Compagnia
drammatica stabile doveva partire
per una tournée negli Stati Uniti, e
lui da Roma non poteva certo
allontanarsi. Decise allora di
frequentare in ambito universitario
un corso tenuto dal professor
Salvatore Ottolenghi, un luminare
che andava predicando le meraviglie
della nascente polizia scientifica,
compreso il rivoluzionario “ritratto
parlato”, ovvero le schede
riportanti i dati fisici delle
persone arrestate, del parigino
Adolphe Bertillon.
Il collaboratore del professore,
Giovanni Gasti, notò il vivace
frequentatore e gli consigliò di
tentare il concorso in polizia,
quale Alunno delegato di P.S., che
Dosi superò brillantemente, tanto da
entrare nel Corpo il 1° marzo 1913.
Dopo il corso presso la Polizia
Scientifica fu destinato a Udine, e
quindi a Milano, dove si mise subito
in mostra, agendo come si direbbe
oggi “sotto copertura”, simulando di
essere un francese al fine di
infiltrarsi in un giro di
contrabbando di saccarina, per la
quale vi era divieto di introduzione
e di produzione nello Stato
italiano.
Dopo Bologna e Rieti, finalmente il
ritorno nella sua Roma, al
commissariato di Borgo. Qualcuno
evidentemente notò quel giovane e
fantasioso poliziotto, tanto da
trasferirlo nella delicata Divisione
Affari Generali e Riservati, ai
quartieri alti, direttamente al
Viminale, Direzione Generale della
Pubblica Sicurezza. Lo inviarono
subito a Vienna, nella prima di
numerosissime missioni all’estero.
Conosceva il tedesco e doveva
aiutare i colleghi austriaci a tener
d’occhio i sostenitori degli Asburgo
che volevano rimettere sul trono
Carlo. Per seguire da vicino questi,
intanto confinato su un’isola
portoghese dell’arcipelago di
Madera, si trasformò in console.
Il viaggio verso l’sola non fu però
fortunato, poiché il treno ebbe un
incidente in Spagna, e riportò varie
fratture. Alla fine, giunto al
cospetto dell’esiliato Carlo
d’Asburgo, non poté che attenderne
la morte, che giunse dopo soli 15
giorni dal suo arrivo. Ma altre
rocambolesche missioni speciali
attendevano Dosi. Davvero
particolare fu quella che lo portò a
infiltrarsi nell’ambiente di
Gabriele D’Annunzio nella villa di
Gardone. Il vate nell’agosto
del 1922 era misteriosamente caduto
da un terrazzo, procurandosi serie
ferite che lo avevano costretto a
riposo. La polizia “segreta”
ministeriale di cui Dosi era una
importante pedina si chiedeva se si
fosse trattato di un attentato, così
inviò sul lago di Garda
l’investigatore che stavolta si
trasformò in Karel Kradokwill,
tenente esule dell’armata
cecoslovacca, smanioso di entrare in
contatto con D’Annunzio, che ben
volentieri lo accolse nella sua
cerchia, dedicandogli pure una bella
foto.
Dosi-Kradokwill presto comprese che
la gelosia tra le sorelle Baccara,
ospiti del poeta, aveva scatenato
una delle due, rendendola
protagonista della spinta fatidica.
Ritornato al Ministero, il nostro
pensò bene di relazionare nel senso
che non risultava conveniente
procedere a un processo penale, e
suggerì di lasciare cadere la cosa.
Intanto il Partito Nazionale
Fascista era già al potere e il
Sottosegretario agli Interni Aldo
Finzi volle con sé quell’originale e
capace poliziotto, inviato
spessissimo all’estero (Corfù,
Svizzera, Tangeri, tra le molte
altre, per un totale di oltre
settanta servizi oltre confine).
Era il gennaio del 1941 quando
consentirono a Dosi di uscire dal
manicomio giudiziario: il Capo della
Polizia Bocchini – che tanto lo
aveva avversato - era morto nel
novembre del 1940, la guerra
imperversava, che senso aveva
pensarono i vertici lasciarlo ancora
marcire lì dentro? Lui doveva
semplicemente ricostruirsi la vita,
badare alla famiglia. Non era certo
facile. Ciò che sapeva fare era
scrivere, e poi era un attore: trovò
posto come funzionario all’Eiar,
Ente italiano per le audizioni
radiofoniche, ma quando la radio del
regime si trasferì al Nord, nel
gennaio 1944, decise di rimanere a
Roma, che era sotto il tallone
dell’occupazione nazista. Le SS
avevano il proprio comando nel
famigerato edificio di via Tasso,
nei pressi della Basilica di San
Giovanni, sede anche di una
prigione.
All’arrivo degli Alleati, il 4
giugno, i nazisti lasciarono in
tutta fretta quel luogo, preso
d’assalto dai romani infuriati. Dosi
– che nel frattempo sbarcava il
lunario facendo il fotogiornalista -
si rese conto che lì erano documenti
che potevano risultare importanti
sotto l’aspetto giudiziario, e
quindi li raccolse come poté,
riempiendo sacchi di carta che portò
a casa sua, che per altro non era
lontana. Poi pensò bene di
presentarsi ai liberatori, prendendo
contatti con il controspionaggio,
per consegnare la documentazione. A
questi non sembrò vero di incontrare
un personaggio del genere, già
poliziotto e conoscitore del mondo
criminale romano, nonché delle
lingue e con esperienze all’estero.
Lo posero sotto la loro ala,
nominandolo special investigator,
facendolo testimoniare nei
processi contro i capi nazisti dei
quali aveva raccolto le preziose
carte in Via Tasso e infine
premiandolo con la Medal of
Freedom.
Le
montagne russe della vita di
Giuseppe Dosi non erano però ancora
giunte a conclusione: nel 1946,
pienamente reintegrato in Polizia
anche grazie ai servigi prestati
agli alleati, quella passione per la
“polizia internazionale” che aveva
segnato i suoi primi passi da
investigatore ed era stato l’oggetto
della sua tesi di laurea, lo portò a
costituire e dirigere l’ufficio
italiano Interpol presso la
Direzione Generale di Pubblica
Sicurezza, che seppe sapientemente
valorizzare sino a quando, raggiunti
i 65 anni, nel febbraio del 1956 fu
posto a riposo. Ma riposo era una
parola che Giuseppe Dosi non aveva
nel suo vocabolario: così pensò bene
di fondare, nella sua Roma, una
agenzia di investigazioni
internazionali.
Straordinario protagonista di
indagini rocambolesche, personaggio
originale e talentuoso, anticipatore
dei moderni tempi di collaborazione
tra forze di polizia in ambito
internazionale, oltre a essere
tuttora ricordato dall’Interpol e
dalla Polizia di Stato, Giuseppe
Dosi, mancato nel 1981 all’età di
novanta anni, è onorato dal Museo
storico della Liberazione di Roma,
che ha sede proprio in quella Via
Tasso da cui egli ebbe la
lungimiranza di salvare documenti di
grande importanza storica e
giudiziaria. Il Museo conserva
infatti il suo ricchissimo e
interessante Archivio.
Riferimenti bibliografici:
Ufficio storico della Polizia di
Stato, Giuseppe Dosi il
poliziotto artista che inventò
l’Interpol italiana, a cura di
Raffaele Camposano, Quaderno II,
Roma 2014.