[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

184 / APRILE 2023 (CCXV)


contemporanea

LA STRAORDINARIA VITA DI GIUSEPPE DOSI

UN UOMO DAI MOLTEPLICI VOLTI

di Francesco Caldari

 

Giuseppe Dosi si guardò intorno, seduto a un tavolo della mensa del manicomio giudiziario di Santa Maria della Pietà di Roma, stretto nella sua bella giacca di un vivo color rosso. Unico a non indossare la grigia divisa dei suoi compagni internati. Pazzo non era, seppure tale era stato giudicato da un medico psichiatra alto ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia, che gli aveva riscontrato sindrome paranoidea con idee persecutorie.

 

Erano ormai diciassette mesi che si trovava lì rinchiuso, dopo che per altri tre gli avevano fatto assaggiare la cella 404 del carcere di Regina Coeli, in “stretto isolamento cellulare a disposizione del Capo della Polizia”. Mettersi contro il Capo della Polizia del XVIII dell’Era fascista, che poi era semplicemente il 1939, gli era costato caro. Arturo Bocchini lo aveva messo nero su bianco: “farlo visitare da uno psichiatra. Se non è pazzo da rinchiudere in manicomio, confino per 5 anni su un’isola”. In fondo, aveva solo pubblicato un suo memoriale, scritto nei minimi dettagli come era solito fare (483 pagine!) e lo aveva inviato, anche al Duce.

 

Anni dopo, nel 1956, in una intervista all’Europeo riconobbe la colpa di “agitarsi troppo affinché mi si valorizzasse come ritenevo fosse quasi un mio diritto”. Voleva far sapere al Duce come lo avevano trattato, una trottola in giro per gli Uffici di Pubblica Sicurezza d’Italia, lui, promosso nel luglio del 1923 Commissario per meriti speciali, e che a fine 1925 aveva assicurato proprio Mussolini, ricevendone un elogio, su un presunto dossier segreto tenuto a Berna e riguardante il periodo trascorso dal futuro Duce in Svizzera quale socialista rivoluzionario. Nulla di che, un innocuo scritto ben custodito in una cassaforte dei colleghi della polizia elvetica a Ginevra, aveva sentenziato Dosi, che, chissà, forse per farsi perdonare dal regime avrebbe poi anche scritto un’opera in tre atti, L’Aurora, da lui stesso definita “lavoro fascista teatrale”. Evidentemente non era bastato a placare l’infuriato Bocchini.

 

La vita sa essere beffarda, deve avere pensato il Commissario-scrittore Giuseppe Dosi. Anche lui nel Padiglione XVIII del manicomio giudiziario, proprio come toccò a quel pastore anglicano inglese presso la chiesa di Roma, Ralph Lyonel Brydges, cui aveva dato la caccia e aveva arrestato, convinto che fosse l’autore della atroce sorte toccata a quattro bimbe tra il 4 giugno 1924 e il 12 marzo del 1927 a Roma. Dosi aveva avuto il coraggio di scriverlo chiaro: Gino Girolimoni, bellimbusto da quattro soldi in cerca di avventure galanti, non c’entrava nulla con quelle violenze e omicidi. Non era certo lui a essere entrato in un bar in compagnia di una delle bimbe che poi avrebbe orrendamente seviziato e ucciso. Come sarebbe stato possibile farsi palesemente notare dall’oste con una delle sue vittime?

 

Ma gli esili indizi raccolti avevano portato Girolimoni in carcere e lasciato il reverendo Brydges fuori. Dosi era convinto di avere le carte giuste in mano per far riaprire il fascicolo penale. Il nome del reverendo lo aveva incrociato nel settembre del 1927 nel corso di una sua missione “speciale” a Capri (una delle tante che gli avevano affidato da quando era in forza alla Divisione Affari Generali e Riservati), per cercare di comprendere il mondo debosciato – così si scriveva nelle carte di polizia – che fioriva sull’isola. Non solo dandy, ma anche una sorta di comunità omosessuale, con la presenza di numerosi stranieri.

 

Il settantunenne Brydges era stato arrestato in flagranza mentre commetteva atti osceni su una bambina e subito rilasciato su pressione del consolato inglese. Dosi, tornato a Roma, approfondì le indagini e si mise sulle tracce del reverendo. Ma la polizia fascista poco interesse aveva a che la questione delle bimbe tornasse sulle prime pagine, dopo il panico che si era scatenato pochi anni prima. Girolimoni era stato prosciolto in istruttoria per insufficienza di prove e era libero (il reale avventore dell’osteria si presentò al commissariato Trionfale, dichiarando che in realtà quello indicato era lui con la figlia) e il reverendo godeva di potenti appoggi. E che Dosi se ne stesse tranquillo, altrimenti lo avrebbero spedito a Cortina d’Ampezzo.

 

Ma il tenace poliziotto non ne volle sapere, e il 13 maggio 1928 si recò a Genova per notificare a bordo della nave Linstephan Castle, che stava per portarlo al sicuro all'estero, il provvedimento di fermo al reverendo Brydges. Apriti cielo! Il minacciato trasferimento a Cortina si concretizzò, Brydges fu rinchiuso per tre mesi proprio nel padiglione XVIII di Santa Maria della Pietà, per poi ottenere l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Se ne andò in Canada. E quel tarlo rimase nella testa del detective Dosi per anni e anni, tanto che ci scriverà anche un libro. Che dire poi del tourbillon di trasferimenti che dovette subire come conseguenza della sua tenacia?

 

Tre anni ad Assisi, dove almeno trovò il tempo per laurearsi in Giurisprudenza presso l’Università di Perugia discutendo una tesi sul “valore della polizia internazionale”, poi nel 1932 La Spezia, che lo vide protagonista di un’altra inchiesta che scosse l’opinione pubblica: quella di una donna depezzata i cui resti erano stati rinchiusi in valigie rinvenute rispettivamente su treni nelle stazioni ferroviarie di Napoli e Roma.

 

I giornali lo etichettarono come il caso del Landru italiano, e le indagini, condotte alla Spezia da Dosi poiché lì furono raccolte importanti testimonianze su un passeggero sospetto, portarono alla individuazione dell’autore di quello e altri omicidi e alla sua condanna a morte. Dosi ne aveva abbastanza di girare l’Italia, e cominciò a lamentarsi con i superiori, che pensarono bene di mettere la sordina a quel funzionario divenuto ingombrante: sospensione di tre mesi dal servizio e dallo stipendio. Trovò rifugio nella scrittura: collaborava con una rivista americana, True detectives mysteries, e tornò ai drammi: Il Pierrot giallo era un’opera in tre atti, quindi le altre.

 

Poi, quando riprese servizio, a Firenze, Urbino nel 1935 e Vasto nel 1936, si dedicò al Memoriale di 483 pagine inviato al Duce, che fu la goccia che fece traboccare il vaso: stavolta dispensa dal servizio per violazione della legge ed eccesso di potere, quindi il 19 giugno 1939 arresto. Dopo tre mesi di carcere duro, sbattuto nel manicomio giudiziario.

 

Dosi era un poliziotto davvero sui generis. A dirla tutta lui avrebbe voluto essere attore. A ventun anni, nel 1912, da giovane studente universitario, era stato anche ingaggiato dal Teatro Argentina di Roma. Slanciato com’era, la sua specializzazione erano i travestimenti. Da “generico” lo pagavano cinque lire al giorno. Seppure arrotondasse con lezioni di francese e di inglese ai figli degli attori e con qualche comparsata negli iniziali lavori cinematografici, i modesti guadagni comunque non gli consentivano di sfamare sé e la mamma, dopo che il papà carabiniere era mancato prematuramente. Né avevano attirato molto interesse i suoi primi acerbi scritti, l’operetta Don Martuccio del 1910, Il Ritorno, dramma in tre atti dell’anno successivo e il dramma in un atto La madre sterile, del 1912. La Compagnia drammatica stabile doveva partire per una tournée negli Stati Uniti, e lui da Roma non poteva certo allontanarsi. Decise allora di frequentare in ambito universitario un corso tenuto dal professor Salvatore Ottolenghi, un luminare che andava predicando le meraviglie della nascente polizia scientifica, compreso il rivoluzionario “ritratto parlato”, ovvero le schede riportanti i dati fisici delle persone arrestate, del parigino Adolphe Bertillon.

 

Il collaboratore del professore, Giovanni Gasti, notò il vivace frequentatore e gli consigliò di tentare il concorso in polizia, quale Alunno delegato di P.S., che Dosi superò brillantemente, tanto da entrare nel Corpo il 1° marzo 1913. Dopo il corso presso la Polizia Scientifica fu destinato a Udine, e quindi a Milano, dove si mise subito in mostra, agendo come si direbbe oggi “sotto copertura”, simulando di essere un francese al fine di infiltrarsi in un giro di contrabbando di saccarina, per la quale vi era divieto di introduzione e di produzione nello Stato italiano.

 

Dopo Bologna e Rieti, finalmente il ritorno nella sua Roma, al commissariato di Borgo. Qualcuno evidentemente notò quel giovane e fantasioso poliziotto, tanto da trasferirlo nella delicata Divisione Affari Generali e Riservati, ai quartieri alti, direttamente al Viminale, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza. Lo inviarono subito a Vienna, nella prima di numerosissime missioni all’estero. Conosceva il tedesco e doveva aiutare i colleghi austriaci a tener d’occhio i sostenitori degli Asburgo che volevano rimettere sul trono Carlo. Per seguire da vicino questi, intanto confinato su un’isola portoghese dell’arcipelago di Madera, si trasformò in console.

 

Il viaggio verso l’sola non fu però fortunato, poiché il treno ebbe un incidente in Spagna, e riportò varie fratture. Alla fine, giunto al cospetto dell’esiliato Carlo d’Asburgo, non poté che attenderne la morte, che giunse dopo soli 15 giorni dal suo arrivo. Ma altre rocambolesche missioni speciali attendevano Dosi. Davvero particolare fu quella che lo portò a infiltrarsi nell’ambiente di Gabriele D’Annunzio nella villa di Gardone. Il vate nell’agosto del 1922 era misteriosamente caduto da un terrazzo, procurandosi serie ferite che lo avevano costretto a riposo. La polizia “segreta” ministeriale di cui Dosi era una importante pedina si chiedeva se si fosse trattato di un attentato, così inviò sul lago di Garda l’investigatore che stavolta si trasformò in Karel Kradokwill, tenente esule dell’armata cecoslovacca, smanioso di entrare in contatto con D’Annunzio, che ben volentieri lo accolse nella sua cerchia, dedicandogli pure una bella foto.

 

Dosi-Kradokwill presto comprese che la gelosia tra le sorelle Baccara, ospiti del poeta, aveva scatenato una delle due, rendendola protagonista della spinta fatidica. Ritornato al Ministero, il nostro pensò bene di relazionare nel senso che non risultava conveniente procedere a un processo penale, e suggerì di lasciare cadere la cosa. Intanto il Partito Nazionale Fascista era già al potere e il Sottosegretario agli Interni Aldo Finzi volle con sé quell’originale e capace poliziotto, inviato spessissimo all’estero (Corfù, Svizzera, Tangeri, tra le molte altre, per un totale di oltre settanta servizi oltre confine).

 

Era il gennaio del 1941 quando consentirono a Dosi di uscire dal manicomio giudiziario: il Capo della Polizia Bocchini – che tanto lo aveva avversato - era morto nel novembre del 1940, la guerra imperversava, che senso aveva pensarono i vertici lasciarlo ancora marcire lì dentro? Lui doveva semplicemente ricostruirsi la vita, badare alla famiglia. Non era certo facile. Ciò che sapeva fare era scrivere, e poi era un attore: trovò posto come funzionario all’Eiar, Ente italiano per le audizioni radiofoniche, ma quando la radio del regime si trasferì al Nord, nel gennaio 1944, decise di rimanere a Roma, che era sotto il tallone dell’occupazione nazista. Le SS avevano il proprio comando nel famigerato edificio di via Tasso, nei pressi della Basilica di San Giovanni, sede anche di una prigione.

 

All’arrivo degli Alleati, il 4 giugno, i nazisti lasciarono in tutta fretta quel luogo, preso d’assalto dai romani infuriati. Dosi – che nel frattempo sbarcava il lunario facendo il fotogiornalista - si rese conto che lì erano documenti che potevano risultare importanti sotto l’aspetto giudiziario, e quindi li raccolse come poté, riempiendo sacchi di carta che portò a casa sua, che per altro non era lontana. Poi pensò bene di presentarsi ai liberatori, prendendo contatti con il controspionaggio, per consegnare la documentazione. A questi non sembrò vero di incontrare un personaggio del genere, già poliziotto e conoscitore del mondo criminale romano, nonché delle lingue e con esperienze all’estero. Lo posero sotto la loro ala, nominandolo special investigator, facendolo testimoniare nei processi contro i capi nazisti dei quali aveva raccolto le preziose carte in Via Tasso e infine premiandolo con la Medal of Freedom.

 

 Le montagne russe della vita di Giuseppe Dosi non erano però ancora giunte a conclusione: nel 1946, pienamente reintegrato in Polizia anche grazie ai servigi prestati agli alleati, quella passione per la “polizia internazionale” che aveva segnato i suoi primi passi da investigatore ed era stato l’oggetto della sua tesi di laurea, lo portò a costituire e dirigere l’ufficio italiano Interpol presso la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, che seppe sapientemente valorizzare sino a quando, raggiunti i 65 anni, nel febbraio del 1956 fu posto a riposo. Ma riposo era una parola che Giuseppe Dosi non aveva nel suo vocabolario: così pensò bene di fondare, nella sua Roma, una agenzia di investigazioni internazionali.

 

Straordinario protagonista di indagini rocambolesche, personaggio originale e talentuoso, anticipatore dei moderni tempi di collaborazione tra forze di polizia in ambito internazionale, oltre a essere tuttora ricordato dall’Interpol e dalla Polizia di Stato, Giuseppe Dosi, mancato nel 1981 all’età di novanta anni, è onorato dal Museo storico della Liberazione di Roma, che ha sede proprio in quella Via Tasso da cui egli ebbe la lungimiranza di salvare documenti di grande importanza storica e giudiziaria. Il Museo conserva infatti il suo ricchissimo e interessante Archivio.

 

Riferimenti bibliografici: 

Ufficio storico della Polizia di Stato, Giuseppe Dosi il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, a cura di Raffaele Camposano, Quaderno II, Roma 2014.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]