N. 125 - Maggio 2018
(CLVI)
Il pensiero filosofico di giulio cannella
la
ricerca
del
fondamento
-
Parte
II
di
Raffele
Pisani
Già
nel
1908
aveva
pubblicato
ne
La
scuola
cattolica,
uno
scritto
intitolato
il
punto
di
partenza
nel
problema
criteriologico,
con
il
quale
intendeva
dimostrare
come
la
ricerca
dell’oggettività
non
si
potesse
limitare
all’analisi
del
valore
dei
nostri
mezzi
conoscitivi
ma
dovesse
in
primo
luogo
considerare
le
conoscenze
stesse.
Tesi
che
l’autore
riteneva
premessa
fondamentale
di
quanto
avrebbe
esplicitato
più
diffusamente
un
anno
dopo.
Nel
primo
numero
della
Rivista
di
filosofia
neo-scolastica
(gennaio
1909)
Canella
riprende
ad
affrontare
il
problema
criteriologico
sulla
scia
della
Critériologie
générale
del
cardinale,
titolare
della
cattedra
di
filosofia
a
Lovanio,
Désiré
Mercier.
Nell’articolo
intitolato:
Gli
elementi
di
fatto
per
la
soluzione
del
problema
criteriologico
fondamentale,
fa
notare
che
«la
certezza
dell’oggettività
di
quelle
fra
le
nostre
conoscenze
che
realmente
esprimono
una
legge
universale
(...)
è
così
radicata
nella
mente
di
moltissimi
che
porla
in
dubbio
può
perfino
risultare
del
tutto
ozioso
e
bizantinesco»;
è la
situazione
storica
presente,
caratterizzata
da
uno
scetticismo
di
fondo,
che
rende
necessario
riprenderla.
Bisogna
quindi
elaborare
un
metodo
che,
superando
tutte
le
possibili
obiezioni
scettiche,
riporti
a
quella
conoscenza
oggettiva
che
la
filosofia
moderna
ha
messo
da
parte.
Gli
elementi
di
fatto
che
il
titolo
recita
partono
dalla
constatazione
dell’esistenza
degli
atti
di
riflessione,
dei
concetti
e
delle
sensazioni.
È un
modo
che
va
per
così
dire
dall’interno
all’esterno,
dal
pensante
alla
realtà
pensata
esistente
al
di
fuori
del
soggetto,
che
è
appunto
quella
che
si
vuole
dimostrare.
Si
tratta
di
una
riflessione
che
intende
far
tesoro
della
scolastica
medievale
ma
che
vuole
altresì
confrontarsi
con
la
filosofia
moderna,
senza
rifiuti
aprioristici.
Il
punto
di
partenza
necessario
è il
dubbio,
che
egli
chiama
dogmatico
razionale,
concetto
al
quale
Mercier
dedica
un
intero
capito
della
sua
Critériologie,
per
opporlo
al
dubbio
scettico
che
nega
a
priori
ogni
possibilità
di
soluzione.
Questa
concezione
ritiene
«
possibile
una
certezza
riflessa
scientifica
dell’oggettività».
L’argomentazione
è
molto
sottile
e
chiaramente
scolastica,
l’atto
di
riflessione
è
così
evidente
che
neanche
lo
scettico
lo
può
negare,
ma
così
essendo
si
ammette
una
potenza
reale,
uno
spirito
libero
che
lo
esercita
e un
principio
di
causa,
tutto
ciò
contrasta
con
la
posizione
di
partenza,
necessariamente
dubitativa.
Così
argomenta
Canella,
come
chi
vuol
leggere
di
notte
si
avvale
della
luce
di
una
lampadina
senza
sapere
le
leggi
fisiche
che
permettono
questo,
così
chi
cerca
i
fondamenti
del
vero
parte
dalla
constatazione
dell’atto
di
riflessione,
prescindendo,
in
un
primo
momento,
dalla
causa
che
lo
produce.
Ma
come
si
arriva
a
questa
base
di
oggettività
da
cui
potranno
poi
partire
le
varie
piste
di
ricerca:
cosmologiche,
antropologiche
e
teologiche?
La
psicologia
certamente
aiuta,
essa
per
così
dire
spazza
via
gli
ostacoli
che
si
frappongono
al
procedere
della
ricerca,
ma
non
si
sostituisce
ad
essa.
La
mente
umana
nella
sua
normale
esperienza
possiede
un
grande
bagaglio
di
dati
più
o
meno
chiari
sui
quali
non
può
far
affidamento
per
una
solida
conoscenza,
ecco
allora
che
«Il
pensatore
incomincia
scegliendo
due
di
quei
concetti
generalissimi
che
formano,
confrontati
insieme,
uno
dei
principi
dell’ordine
ideale,
e li
unisce
nuovamente,
e ne
osserva
il
rapporto».
Anche
se
il
discorso
risulta
piuttosto
difficile,
si
può
affermare
che
la
certezza
metafisica
della
base
della
realtà
oggettiva
risulta
dal
rapporto
di
due
concetti
che
l’atto
di
riflessione
coglie.
Non
c’è
bisogno
di
dimostrare
niente,
a
parere
dell’autore,
in
quanto
la
realtà
s’impone
per
via
d’evidenza,
il
discorso
sarebbe
solo
una
dilucidazione.
Così
si
esprime:
“Quando
due
concetti
sono
presenti
allo
spirito
e la
riflessione
li
osserva,
subitamente,
e
quasi
per
virtù
propria,
il
rapporto
corrente
si
manifesta,
e la
mente
non
fa
che
constatarne
la
verità
o
falsità”.Una
volta
che
la
mente
umana
ha
raggiunto
attraverso
un
percorso
individuale
questa
certezza
basilare
potrà
procedere
con
sicurezza
nel
cammino
del
sapere
oggettivamente
fondato.
Sul
rapporto
fra
certezza
e
verità
esprime
il
suo
punto
di
vista
ed
esplica
ulteriormente
il
problema
nel
secondo
numero
della
Rivista
di
filosofia
neo-scolastica
(aprile
1909)
in
riferimento
ad
un
articolo
dello
psicologo
francese
George
Fonsegrive
intitolato
Certezza
e
verità,
pubblicato
dalla
Revue
de
Philosophie
de
la
France
et
de
l’Étranger.
È
d’accodo
sulla
distinzione
fra
certezza
in
se
stessa
e
certezza
della
verità,
bisogna
infatti
distinguere
una
certezza
psicologica
che
ci
fa
dire
semplicemente:
questo
è
vero,
da
una
logica
che
va
oltre
e ci
fa
dire
che
in
contrario
di
quello
che
abbiamo
preso
per
vero
non
può
essere,
ma
quest’ultima
vale
solo
per
le
scienze
formali.
Quella
metafisica
invece
è
quella
certezza
che,
facendo
proprio
i
procedimento
logico,
giunge
a
pensare
una
realtà
che
è
distinta
dall’io
pensante.
Ed è
proprio
su
questo
campo
che
il
discorso
di
Fonsegrive
non
trova
sbocco,
esso,
a
parere
di
Canella,
non
arriva
nemmeno
a
concepire
per
le
nostre
conoscenze
un
substrato
reale
distinto
dal
soggetto,
anche
se
inconoscibile,
questo
sarebbe
il
fenomenismo.
Egli
rimane
chiuso
nell’immanenza
del
soggetto.
La
via
da
percorrere,
ci
tiene
a
precisare
è
un’altra,
quella
delineata
dalla
Criteriologia
generale
del
cardinal
Mercier.
Il
discorso
prosegue
in
un
numero
successivo
della
rivista,
sempre
dell’anno
1909,
dove
viene
riportata
la
prova
psicologica
di
Fonsegrive
del
principio
di
causalità
che
Canella
contesta.
È
abbastanza
chiaro
che
non
potesse
accettarla,
pensando
a
quanto
aveva
detto
a
proposito
della
psicologia
nel
discorso
su
Gli
elementi
di
fatto
per
la
soluzione
del
problema
criteriologico
fondamentale;
in
effetti
non
si
può
passare
dalla
psicologia,
per
quanto
acuta
sia
l’analisi,
come
conviene
che
sia
quella
di
Fonsegrive,
alla
metafisica.
Il
pensatore
francese
rimarrebbe
quindi
chiuso
nel
soggettivismo,
o
subbiettivismo,
come
è
detto
nel
testo,
nonostante
creda
di
cogliere
il
mondo
esterno
con
il
sentimento
del
reale.
Canella
apprezza
questo
tipo
di
argomentazioni
psicologiche
che
darebbero
comunque
una
sorta
di
conforto
e di
conferma,
ma
niente
più.
La
via
d’uscita
è
un’altra
quella
, è
quella
di
cui
abbiamo
detto
poco
sopra,
vale
a
dire,
la
proposizione
analitica
intesa
nel
senso
Scolastico.
Essa
così
recita:
«Un
giudizio
è
analitico
tutte
le
volte
che,
considerando,
oppure
analizzando
il
soggetto
e il
predicato
nella
loro
essenza
e
nelle
loro
proprietà,
lo
spirito
giunge
a
scoprire
tra
gli
elementi
considerati
o
analizzati
una
connessione
necessaria».
Lo
spiega
affermando
che
molte
proposizioni
matematiche
e
metafisiche
aggiungono
qualcosa
di
nuovo
al
soggetto,
quindi
non
sono
analitiche
in
senso
kantiano,
anche
se
sono
caratterizzate
dall’universalità
e
dalla
necessità.
Non
dipendono
dall’esperienza
per
cui
non
possono
dirsi
sintetiche,
vengono
infatti
definite:
proposizioni,
o
meglio,
giudizi
analitici
in
senso
scolastico.
Il
valore
ontologico
del
principio
di
causalità
trova
giustificazione
secondo
Canella
proprio
grazie
alla
validità
di
questi
giudizi.
A
chi
avanza
ancora
qualche
dubbio
(Rivista
di
filosofia
neo-scolastica,
febbraio
1910)
sulla
verità
dei
giudizi
in
ordine
alla
realtà,
a
chi
dice
che
«
Il
principio
di
causalità
assicura
solo
l’esistenza
di
un
oggetto,
non
della
conformità
del
nostro
concetto
con
il
medesimo»
risponde
che
si
tratta
di «un
punto
ancora
molto
oscuro
nella
soluzione
dei
problemi
criteriologici».
È
bel
coscio
che
le
ricerche
sulla
questione
ancora
aperta
devono
continuare,
come
conviene
stiano
effettivamente
facendo,
e
devono
costituire
un
lavoro
da
compiere
insieme.