[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

172 / APRILE 2022 (CCIII)


moderna

SUL PROGETTO DI GIULIO ALBERONI

LA «LIBERAZIONE» DELL’ITALIA

di Enrico Targa

 

Alla corte spagnola, a seguito della morte della moglie di Filippo V, Maria Luisa di Savoia (16 febbraio 1716), s’era verificato un brusco mutamento di élites dirigenti e di politica estera. L’abate piacentino Giulio Alberoni (1664-1752) di umilissime origini, dopo aver potuto studiare presso i collegi barnabiti e gesuiti, fu avviato alla carriera ecclesiastica e diplomatica dal vescovo di Piacenza.

 

L’Alberoni esperto in Diritto Canonico e ottimo conoscitore della lingua francese fu inviato al seguito del vescovo di Alessandro Roncoveri presso il duca Luigi Giuseppe di Borbone-Vendôme comandante delle truppe francesi durante le campagne della guerra di successione spagnola. Ebbe da lì l’inizio della sua fortuna; presentato a corte dal duca ne seguì fedelmente le sorti; dopo la morte di quest’ultimo (1712), Alberoni passò alla corte di Spagna come agente diplomatico di Francesco Farnese duca di Parma.

 

Alla morte della moglie di Filippo V, l’Alberoni aveva già abilmente organizzato il matrimonio del re con la nipote del duca di Parma, Elisabetta Farnese. Una perfetta sinergia si ebbe allora tra l’Alberoni e questa giovane e piacente principessa (bisognosa di una guida sicura per muoversi nei meandri d’una corte estranea) per il controllo psicologico del re e, progressivamente, per il suo allontanamento, e poi financo isolamento dagli affari di Stato.

 

Nel tener fissa contro l’impero asburgico la barra della politica estera spagnola influivano più fattori di natura politica e di sensibilità storico-culturale. Innanzitutto la necessità di rimettere in discussione a qualsiasi costo l’assetto europeo seguito alle paci di Utrecht e Rastadt che avevano visti smembrati i possedimenti spagnoli e in particolare persi quelli in Italia.

 

E appunto all’Italia guardavano con una certa nostalgia sentimentale Alberoni ed Elisabetta Farnese: un’Italia che aveva sempre duramente avvertito la presenza asburgica che ne aveva spento le «libertà»; una libertà mai esistita politicamente e dunque mai rivendicata come tale, ma utile retaggio petrarchesco che a tratti, come una scintilla, aveva acceso di nazionalismo non solo diplomatico (si pensi alle truppe di Venezia che prima della battagli di Agnadello avevano gridato «Italia, Italia») qualche avventura politica essenzialmente ecclesiastica: «fuori i barbari» fu più che una rivendicazione ideologica di Giulio II e più tardi di Paolo IV.

 

Inoltre per i domini farnesiani l’impero asburgico era sempre stato un pericolo storico: la tragedia del 1547-1549 (Pier Luigi Farnese venne ucciso da una congiura cui Carlo V diede il suo assenso; seguì l’occupazione di Piacenza da parte delle truppe asburgiche e lo smembramento in due del ducato) era rimasta un emblematico monito. Prima di poter dar seguito concreto alle spinte antiasburgiche bisognava riformare e rinvigorire l’intero assetto interno dello Stato.

 

I primi anni di regno di Filippo V, quelli diplomaticamente più contrastati, erano stati determinati per far avvertire la nuova dinastia come tutrice degli interessi nazionali; quindi all’interno del paese c’erano ancora energie e risorse umane, c’erano motivazioni economiche e psicologiche per lavorare contro il nuovo ordine internazionale. La piccola amministrazione di Parma fornì il modello per riformare la tesoreria e la contabilità; si cambiarono i titolari di tanti uffici pubblici (favorendo gli «italiani» vicini a Elisabetta Farnese e all’Alberoni), fu abolita la carica del Presidente del Consiglio di Stato, incentivata l’agricoltura (anche chiamando contadini parmensi a colonizzare Aranjuez) e l’industria tessile, potenziato l’esercito e la flotta, coniate nuove monete, rinforzate le misure anticontrabbando per la difesa del monopolio del commercio con le colonie ma trasferì la Casa de Contratación da Siviglia a Cadice, soprattutto abolita l’antica e sopravvissuta amministrazione plurima dei vari regni precedenti l’unione spagnola.

 

In pochi anni di riforme interne la Spagna poteva presentarsi nuovamente da protagonista nella politica europea. Alberoni puntò allora ad avvicinarsi all’ex nemica Inghilterra: nell’impossibilità di contrastarne militarmente la flotta e di opporsi dunque legalmente al fiorente contrabbando di Stato cui dava vita l’Inghilterra con le colonie spagnole, tanto valeva accordarsi e speraredi guadagnare, per contro, libertà di azione nel Mediterraneo.

 

Malgrado i primi promettenti passi di questo riallineamento anglo-spagnolo, l’evolversi della politica dinastica in Inghilterra e in Francia non consentiva però di andare molto oltre; l’avvento sul torno inglese di Giorgio I d’Hannover (che rimaneva contemporaneamente principe dei suoi possedimenti in Germania) rendeva ben difficile pensare Inghilterra e impero asburgico potessero scontrarsi; senza contare le forze economiche inglesi a capitale mobile (finanziario), timorose di queste manifestazioni di rigoglio economico spagnolo, e di nuovo favorite da un governo whig ora succeduto al precedente tory.

 

Mentre dubbia appariva ancora la politica francese del reggente Filippo d’Orléans, zio del cinquantenne Luigi XV. In queste circostanze l’Inghilterra non poteva certo sacrificare l’alleanza con l’Impero per favorire i fumosi piani spagnoli; e ne diede inequivocabile segno firmando l’accordo di Westminster nel maggio del 1715 con Vienna per garantirsi reciprocamente i domini presenti e futuri. In Spagna l’Alberoni, spiazzato, pensò allora a dar man forte alle aspirazioni al trono inglese di Giacomo Edoardo Stuart (rifugiato ad Avignone), ma una svolta nella politica estera francese isolò completamente la Spagna.

 

A Parigi, Filippo d’Orléans aveva ottenuto i pieni poteri dal Parlamento in cambio della restituzione di uno dei più importanti diritti aboliti da Luigi XIV: il diritto di rimostranza prima del registro delle norme (anche all’aristocrazia si riapriva la strada antica dei privilegi e della gestione del potere). La speranza dell’Orléans di far accettare alle cancellerie europee un cambio di dinastia in Francia, le inquietudini dello stesso genere formale dell’Inghilterra, portarono a un primo riallineamento tra queste due nemiche storiche.

 

A far le spese di tutti questi intrecci dinastici fu la Spagna, isolata di fronte allaTriplice Alleanza dell’Aia (è il nome dato a un accordo firmato il 4 gennaio 1717 all’Aja, concluso tra Regno Unito, Francia e Impero, contro la Spagna, che cercava di mantenere gli accordi del Trattato di Utrecht del 1713). La reazione dell’Alberoni, consistente nel prender dunque il posto tradizionale della Francia nelle alleanze politico-militari antimperiali, in particolare con la Sublime Porta, venne però fondata, al momento delle ostilità veneto-turche (la seconda guerra di Morea fu combattuta tra la Repubblica di Venezia e l’Impero ottomano tra il 1714 e il 1718) dal pontefice.

 

Clemente XI trattò per avere a disposizione della coalizione cattolica la flotta spagnola (e si comprendono ora le diffidenze imperiali per questo aiuto di un potenziale nemico europeo). La cattolica Spagna non poteva tirarsi indietro, tanto più che Clemente XI aveva messo sul piatto anche la nomina cardinalizia per l’Alberoni. La flotta spagnola fu allora armata e concentrata a Cadice; giunta la nomina cardinalizia dell’Alberoni (nel concistoro del 12 luglio 1717; la notizia ufficiale giunse a Madrid il 25 seguente), la flotta spagnola il 29 luglio salpò da Cadice per il Mediterraneo, ma anziché dirigere sull’Egeo, assaltò la Sardegna (ormai possedimento asburgico) che ai primi di settembre era tutta in mano spagnola.

 

Dinanzi alle violente reazioni di Vienna e Roma (l’imperatore perdeva l’isola, il papa si sentiva raggirato dal neo cardinale Alberoni, la facile liquidazione militare ottomana dall’Europa veniva sospesa a un passo dalla conclusione…) si distinse la cautela di Londra. Il solito principio dell’equilibrio le impediva di rafforzar troppo uno dei piatti della bilancia politico-militare europea (nel caso di specie, l’Impero).

 

Lo stesso Alberoni apparve molto cauto e teso in sostanza a un semplice riequilibrio del mosaico composto a Utrecht e Rastadt che inoltre tenesse conto delle sopraggiunte esigenze dinastiche e territoriali del figlio di Elisabetta Farnese e Filippo V, Carlo nato nel 1716 e che era escluso dalla successione spagnola per la precedenza dinastica ai figli dinastici della prima moglie, mentre era in estinzione la dinastia dei Farnese a Parma, dove né Francesco (morto nel 1727), né Antonio (morto nel 1731) ebbero figli, con Elisabetta dunque ultima discendente ma femminile, non giuridicamente idonea di succedere al ducato.

 

C’era una generale tendenza diplomatica a ripensare la carta geopolitica d’Europa così come era stata combinata dopo la guerra di successione spagnola; una tendenza di opposizione radicale (Spagna) e revisionisti (Impero austriaco), cui s’aggiungevano i problemi dinastici francesi, inglesi e ora anche spagnolo-farnesiani, senza contare le altre «dinastie italiane» prossime all’estinzione come i Medici del granducato di Toscana, che imponevano la necessità di prevedere e prevenire ulteriori tensioni e prese d’armi.

 

L’Alberoni aveva dunque un suo progetto politico-territoriale, in cui confluivano interessi spagnoli e «italiani», essenzialmente farnesiani (e che ne avrebbero fatto, erroneamente, un precursore del Risorgimento italiano); ritorno degli ex viceregni di Napoli e Sicilia alla Spagna; la Sardegna al duca di Savoia; l’insieme del granducato di Toscana (dopo l’estinzione dei Medici) e del ducato di Parma a don Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese; aggiustamenti territoriali minori in favore della Repubblica di Venezia e dello Stato della Chiesa. Tutto da armonizzare entro una lega italica politicamente impegnataa tutelare le proprie «libertà» dai «tedeschi» e rendere nazionalmente omogenea la penisola.

 

Tutti gli Stati la cui politica estera era tradizionalmente ostile all’Impero diventavano allora possibili alleati della Spagna alberoniana: dall’Impero ottomano, alla Svezia, alla Russia, ai popoli insofferenti al dominio asburgico come quelli d’Ungheria, ai pretendenti ai troni come Giacomo Edoardo Stuart. L’Alberoni allora forzò i tempi, riunendo un nuovo esercito che nel giugno del 1718 sbarcò in Sicilia (avvertendo l’imperatore che l’azione era diretta non contro sue aspettative ma contro un ingiustificato possedimento sabaudo).

 

La Triplice Alleanza dell’Aja, divenuta ora quadruplice con l’ingresso della Repubblica delle Sette Province Unite (quest’ultima occupava il territorio degli odierni Paesi Bassi) reagì politicamente e militarmente: con l’occasione si definirono tra gli alleati le questioni dinastiche pendenti e il relativo ordine di successione ai troni (fu fatto divieto a Carlo VI d’Asburgo di considerarsi pretendente al trono spagnolo, e venne esclusa dalla successione francese il caso della consanguineità borbonica di Filippo V di Spagna); la Sicilia, occupata dalle truppe spagnole, sarebbe passata all’impero austriaco che avrebbe ricostituito l’unità territoriale degli antichi possedimenti asburgici; in compenso la Sardegna (assai meno ricca di risorse agricole) sarebbe passata ai Savoia; alle «legittime» esigenze di Elisabetta Farnese di riservare un trono al figlio veniva destinata a futura memoria, all’esaurirsi delle rispettive dinastie medicea e farnesiana, l’unione del Granducato di Toscana e ducato di Parma.

 

Mentre a Passarowitz il 21 luglio 1718 veniva frattanto raggiunto un accordo di pace tra Impero asburgico e ottomano (che cedeva all’Austria la Valacchia e la Serbia settentrionale; e la Repubblica di Venezia conservava il diritto di navigazione e di agevolazioni doganali in tutto il Levante), la flotta inglese al comando dell’ammiraglio George Byng, poche settimane dopo, l’11 agosto 1718 a Capo Passero (a largo della Sicilia sud orientale), provvedeva a risolvere ogni problema, sbaragliando la flotta spagnola e vanificando con ciò ogni ulteriore progetto alberoniano, ridotto, a questo punto, a qualche congiura di corte a Versailles e a un disperato tentativo di sbarco sulle coste scozzesi da cui marciare su Londra per detronizzare Giorgio d’Hannover (progetto velleitario vanificato da una tempesta prima ancora che dalle forze inglesi).

 

L’Alberoni era dunque l’attentatore al principio di equilibrio, il nemico della pace, il diavolo d’Europa; il capo di gabinetto inglese, conte di Peterborough, ne disse con tipico sprezzo britannico, nell’aprile del 1719: “il cardinale, come italiano, è troppo leggero per giocare all’uomo d’arme”. Era, e sarebbe rimasta la posizione inglese nei confronti di quanti avessero attentato al loro predominio militare, all’ordine internazionale, de loro sempre travestito da «principio d’equilibrio».

 

Madrid, costretta a firmare la pace dell’Aja del 1720 (con cui, salvo il passaggio della Sicilia all’imperatore e della Sardegna al duca di Savoia, la carta geografica d’Europa tornava quella che era al momento delle paci di Utrecht e Rastadt), per salvare la faccia e uscire dall’isolamento, doveva sacrificare personalmente e politicamente l’Alberoni.

 

Espulso dalla Spagna, scampò alla frontiera a un agguato ordito ufficialmente dalla corte per farlo scomparire per sempre. Rifugiato a Sestri Levante nella Repubblica di Genova, Alberoni dovette affrontare le ire pontificie per la vicenda dell’assalto spagnolo alla Sardegna anziché alla flotta ottomana; intanto era processato in contumacia a Madrid e a Piacenza (ogni allato, confidente e connivente, per ricrearsi una verginità politica o ideologicadeve sempre mostrare un certo rigore contro un ex amico caduto).

 

La morte di Clemente XI (19 marzo 1721) e la possibilità conseguente che – con salvacondotto – ebbe l’Alberoni di partecipare al conclave, stemperarono le tensioni. Il nuovo pontefice Innocenzo XIII (1721-1724) non giudicò sufficienti gli elementi politicie giuridici sottopostigli da un’apposita commissione cardinalizia per privare l’Alberoni della porpora; fu anzi assolto, e poco mancò che tornasse ad attività politica in Spagna. Si spense a Piacenza nel 1752 dopo avervi edificato un collegio ecclesiastico (che porta ancora il suo nome) per l’istruzione dei giovani e dopo aver ancora espletato qualche funzione politica minore come legato pontificio in Romagna.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Ciro Paoletti, Il Cardinale i Duchi, la Strega - vita di Giulio Alberoni, Roma, CISM, 2022.

Massimo Solari, Giulio Alberoni.La vita avventurosa del figlio dell’ortolano che diventò primo ministro, LIR, Piacenza 2013.

Stefano Bersani, Storia del cardinale Giulio Alberoni scritta da Stefano Bersani, F. Solari, 1861.

Sull’attività svolta in veste di legato pontificio a Ravenna si segnala:

Giuseppe Cattanei, Giulio Alberoni legato pontificio. A Ravenna tra economia e istituzioni, Scritture, 2013.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]