N°
172
/ APRILE 2022 (CCIII)
moderna
SUL PROGETTO DI GIULIO ALBERONI
LA
«LIBERAZIONE»
DELL’ITALIA
di Enrico Targa
Alla corte spagnola, a seguito della morte della
moglie di Filippo V, Maria Luisa di Savoia (16
febbraio 1716), s’era verificato un brusco mutamento
di élites dirigenti e di politica estera. L’abate
piacentino Giulio Alberoni (1664-1752) di umilissime
origini, dopo aver potuto studiare presso i collegi
barnabiti e gesuiti, fu avviato alla carriera
ecclesiastica e diplomatica dal vescovo di Piacenza.
L’Alberoni esperto in Diritto Canonico e ottimo
conoscitore della lingua francese fu inviato al
seguito del vescovo di Alessandro Roncoveri presso
il duca Luigi Giuseppe di Borbone-Vendôme comandante
delle truppe francesi durante le campagne della
guerra di successione spagnola. Ebbe da lì l’inizio
della sua fortuna; presentato a corte dal duca ne
seguì fedelmente le sorti; dopo la morte di
quest’ultimo (1712), Alberoni passò alla corte di
Spagna come agente diplomatico di Francesco Farnese
duca di Parma.
Alla morte della moglie di Filippo V, l’Alberoni
aveva già abilmente organizzato il matrimonio del re
con la nipote del duca di Parma, Elisabetta Farnese.
Una perfetta sinergia si ebbe allora tra l’Alberoni
e questa giovane e piacente principessa (bisognosa
di una guida sicura per muoversi nei meandri d’una
corte estranea) per il controllo psicologico del re
e, progressivamente, per il suo allontanamento, e
poi financo isolamento dagli affari di Stato.
Nel tener fissa contro l’impero asburgico la barra
della politica estera spagnola influivano più
fattori di natura politica e di sensibilità
storico-culturale. Innanzitutto la necessità di
rimettere in discussione a qualsiasi costo l’assetto
europeo seguito alle paci di Utrecht e Rastadt che
avevano visti smembrati i possedimenti spagnoli e in
particolare persi quelli in Italia.
E appunto all’Italia guardavano con una certa
nostalgia sentimentale Alberoni ed Elisabetta
Farnese: un’Italia che aveva sempre duramente
avvertito la presenza asburgica che ne aveva spento
le
«libertà»;
una libertà mai esistita politicamente e dunque mai
rivendicata come tale, ma utile retaggio
petrarchesco che a tratti, come una scintilla, aveva
acceso di nazionalismo non solo diplomatico (si
pensi alle truppe di Venezia che prima della
battagli di Agnadello avevano gridato
«Italia,
Italia»)
qualche avventura politica essenzialmente
ecclesiastica:
«fuori
i barbari»
fu più che una rivendicazione ideologica di Giulio
II e più tardi di Paolo IV.
Inoltre per i domini farnesiani l’impero asburgico
era sempre stato un pericolo storico: la tragedia
del 1547-1549 (Pier Luigi Farnese venne ucciso da
una congiura cui Carlo V diede il suo assenso; seguì
l’occupazione di Piacenza da parte delle truppe
asburgiche e lo smembramento in due del ducato) era
rimasta un emblematico monito. Prima di poter dar
seguito concreto alle spinte antiasburgiche
bisognava riformare e rinvigorire l’intero assetto
interno dello Stato.
I primi anni di regno di Filippo V, quelli
diplomaticamente più contrastati, erano stati
determinati per far avvertire la nuova dinastia come
tutrice degli interessi nazionali; quindi
all’interno del paese c’erano ancora energie e
risorse umane, c’erano motivazioni economiche e
psicologiche per lavorare contro il nuovo ordine
internazionale. La piccola amministrazione di Parma
fornì il modello per riformare la tesoreria e la
contabilità; si cambiarono i titolari di tanti
uffici pubblici (favorendo gli
«italiani»
vicini a Elisabetta Farnese e all’Alberoni), fu
abolita la carica del Presidente del Consiglio di
Stato, incentivata l’agricoltura (anche chiamando
contadini parmensi a colonizzare Aranjuez) e
l’industria tessile, potenziato l’esercito e la
flotta, coniate nuove monete, rinforzate le misure
anticontrabbando per la difesa del monopolio del
commercio con le colonie ma trasferì la Casa de
Contratación
da Siviglia a Cadice, soprattutto abolita l’antica e
sopravvissuta amministrazione plurima dei vari regni
precedenti l’unione spagnola.
In pochi anni di riforme interne la Spagna poteva
presentarsi nuovamente da protagonista nella
politica europea. Alberoni puntò allora ad
avvicinarsi all’ex nemica Inghilterra:
nell’impossibilità di contrastarne militarmente la
flotta e di opporsi dunque legalmente al fiorente
contrabbando di Stato cui dava vita l’Inghilterra
con le colonie spagnole, tanto valeva accordarsi e
speraredi guadagnare, per contro, libertà di azione
nel Mediterraneo.
Malgrado i primi promettenti passi di questo
riallineamento anglo-spagnolo, l’evolversi della
politica dinastica in Inghilterra e in Francia non
consentiva però di andare molto oltre; l’avvento sul
torno inglese di Giorgio I d’Hannover (che rimaneva
contemporaneamente principe dei suoi possedimenti in
Germania) rendeva ben difficile pensare Inghilterra
e impero asburgico potessero scontrarsi; senza
contare le forze economiche inglesi a capitale
mobile (finanziario), timorose di queste
manifestazioni di rigoglio economico spagnolo, e di
nuovo favorite da un governo whig ora
succeduto al precedente tory.
Mentre dubbia appariva ancora la politica francese
del reggente Filippo d’Orléans, zio del cinquantenne
Luigi XV. In queste circostanze l’Inghilterra non
poteva certo sacrificare l’alleanza con l’Impero per
favorire i fumosi piani spagnoli; e ne diede
inequivocabile segno firmando l’accordo di
Westminster nel maggio del 1715 con Vienna per
garantirsi reciprocamente i domini presenti e
futuri. In Spagna l’Alberoni, spiazzato, pensò
allora a dar man forte alle aspirazioni al trono
inglese di Giacomo Edoardo Stuart (rifugiato ad
Avignone), ma una svolta nella politica estera
francese isolò completamente la Spagna.
A Parigi, Filippo d’Orléans aveva ottenuto i pieni
poteri dal Parlamento in cambio della restituzione
di uno dei più importanti diritti aboliti da Luigi
XIV: il diritto di rimostranza prima del registro
delle norme (anche all’aristocrazia si riapriva la
strada antica dei privilegi e della gestione del
potere). La speranza dell’Orléans di far accettare
alle cancellerie europee un cambio di dinastia in
Francia, le inquietudini dello stesso genere formale
dell’Inghilterra, portarono a un primo
riallineamento tra queste due nemiche storiche.
A far le spese di tutti questi intrecci dinastici fu
la Spagna, isolata di fronte allaTriplice Alleanza
dell’Aia (è il nome dato a un accordo firmato il 4
gennaio 1717 all’Aja, concluso tra Regno Unito,
Francia e Impero, contro la Spagna, che cercava di
mantenere gli accordi del Trattato di Utrecht del
1713). La reazione dell’Alberoni, consistente nel
prender dunque il posto tradizionale della Francia
nelle alleanze politico-militari antimperiali, in
particolare con la Sublime Porta, venne però
fondata, al momento delle ostilità veneto-turche (la
seconda guerra di Morea fu combattuta tra la
Repubblica di Venezia e l’Impero ottomano tra il
1714 e il 1718) dal pontefice.
Clemente XI trattò per avere a disposizione della
coalizione cattolica la flotta spagnola (e si
comprendono ora le diffidenze imperiali per questo
aiuto di un potenziale nemico europeo). La cattolica
Spagna non poteva tirarsi indietro, tanto più che
Clemente XI aveva messo sul piatto anche la nomina
cardinalizia per l’Alberoni. La flotta spagnola fu
allora armata e concentrata a Cadice; giunta la
nomina cardinalizia dell’Alberoni (nel concistoro
del 12 luglio 1717; la notizia ufficiale giunse a
Madrid il 25 seguente), la flotta spagnola il 29
luglio salpò da Cadice per il Mediterraneo, ma
anziché dirigere sull’Egeo, assaltò la Sardegna
(ormai possedimento asburgico) che ai primi di
settembre era tutta in mano spagnola.
Dinanzi alle violente reazioni di Vienna e Roma
(l’imperatore perdeva l’isola, il papa si sentiva
raggirato dal neo cardinale Alberoni, la facile
liquidazione militare ottomana dall’Europa veniva
sospesa a un passo dalla conclusione…) si distinse
la cautela di Londra. Il solito principio
dell’equilibrio le impediva di rafforzar troppo uno
dei piatti della bilancia politico-militare europea
(nel caso di specie, l’Impero).
Lo stesso Alberoni apparve molto cauto e teso in
sostanza a un semplice riequilibrio del mosaico
composto a Utrecht e Rastadt che inoltre tenesse
conto delle sopraggiunte esigenze dinastiche e
territoriali del figlio di Elisabetta Farnese e
Filippo V, Carlo nato nel 1716 e che era escluso
dalla successione spagnola per la precedenza
dinastica ai figli dinastici della prima moglie,
mentre era in estinzione la dinastia dei Farnese a
Parma, dove né Francesco (morto nel 1727), né
Antonio (morto nel 1731) ebbero figli, con
Elisabetta dunque ultima discendente ma femminile,
non giuridicamente idonea di succedere al ducato.
C’era una generale tendenza diplomatica a ripensare
la carta geopolitica d’Europa così come era stata
combinata dopo la guerra di successione spagnola;
una tendenza di opposizione radicale (Spagna) e
revisionisti (Impero austriaco), cui s’aggiungevano
i problemi dinastici francesi, inglesi e ora anche
spagnolo-farnesiani, senza contare le altre
«dinastie italiane» prossime all’estinzione come i
Medici del granducato di Toscana, che imponevano la
necessità di prevedere e prevenire ulteriori
tensioni e prese d’armi.
L’Alberoni aveva dunque un suo progetto
politico-territoriale, in cui confluivano interessi
spagnoli e «italiani», essenzialmente farnesiani (e
che ne avrebbero fatto, erroneamente, un precursore
del Risorgimento italiano); ritorno degli ex
viceregni di Napoli e Sicilia alla Spagna; la
Sardegna al duca di Savoia; l’insieme del granducato
di Toscana (dopo l’estinzione dei Medici) e del
ducato di Parma a don Carlo di Borbone, figlio di
Elisabetta Farnese; aggiustamenti territoriali
minori in favore della Repubblica di Venezia e dello
Stato della Chiesa. Tutto da armonizzare entro una
lega italica politicamente impegnataa tutelare le
proprie «libertà» dai «tedeschi» e rendere
nazionalmente omogenea la penisola.
Tutti gli Stati la cui politica estera era
tradizionalmente ostile all’Impero diventavano
allora possibili alleati della Spagna alberoniana:
dall’Impero ottomano, alla Svezia, alla Russia, ai
popoli insofferenti al dominio asburgico come quelli
d’Ungheria, ai pretendenti ai troni come Giacomo
Edoardo Stuart. L’Alberoni allora forzò i tempi,
riunendo un nuovo esercito che nel giugno del 1718
sbarcò in Sicilia (avvertendo l’imperatore che
l’azione era diretta non contro sue aspettative ma
contro un ingiustificato possedimento sabaudo).
La Triplice Alleanza dell’Aja, divenuta ora
quadruplice con l’ingresso della Repubblica delle
Sette Province Unite (quest’ultima occupava il
territorio degli odierni Paesi Bassi) reagì
politicamente e militarmente: con l’occasione si
definirono tra gli alleati le questioni dinastiche
pendenti e il relativo ordine di successione ai
troni (fu fatto divieto a Carlo VI d’Asburgo di
considerarsi pretendente al trono spagnolo, e venne
esclusa dalla successione francese il caso della
consanguineità borbonica di Filippo V di Spagna); la
Sicilia, occupata dalle truppe spagnole, sarebbe
passata all’impero austriaco che avrebbe
ricostituito l’unità territoriale degli antichi
possedimenti asburgici; in compenso la Sardegna
(assai meno ricca di risorse agricole) sarebbe
passata ai Savoia; alle «legittime» esigenze di
Elisabetta Farnese di riservare un trono al figlio
veniva destinata a futura memoria, all’esaurirsi
delle rispettive dinastie medicea e farnesiana,
l’unione del Granducato di Toscana e ducato di
Parma.
Mentre a Passarowitz il 21 luglio 1718 veniva
frattanto raggiunto un accordo di pace tra Impero
asburgico e ottomano (che cedeva all’Austria la
Valacchia e la Serbia settentrionale; e la
Repubblica di Venezia conservava il diritto di
navigazione e di agevolazioni doganali in tutto il
Levante), la flotta inglese al comando
dell’ammiraglio George Byng, poche settimane dopo,
l’11 agosto 1718 a Capo Passero (a largo della
Sicilia sud orientale), provvedeva a risolvere ogni
problema, sbaragliando la flotta spagnola e
vanificando con ciò ogni ulteriore progetto
alberoniano, ridotto, a questo punto, a qualche
congiura di corte a Versailles e a un disperato
tentativo di sbarco sulle coste scozzesi da cui
marciare su Londra per detronizzare Giorgio
d’Hannover (progetto velleitario vanificato da una
tempesta prima ancora che dalle forze inglesi).
L’Alberoni era dunque l’attentatore al principio di
equilibrio, il nemico della pace, il diavolo
d’Europa; il capo di gabinetto inglese, conte di
Peterborough, ne disse con tipico sprezzo
britannico, nell’aprile del 1719: “il cardinale,
come italiano, è troppo leggero per giocare all’uomo
d’arme”. Era, e sarebbe rimasta la posizione inglese
nei confronti di quanti avessero attentato al loro
predominio militare, all’ordine internazionale, de
loro sempre travestito da «principio d’equilibrio».
Madrid, costretta a firmare la pace dell’Aja del
1720 (con cui, salvo il passaggio della Sicilia
all’imperatore e della Sardegna al duca di Savoia,
la carta geografica d’Europa tornava quella che era
al momento delle paci di Utrecht e Rastadt), per
salvare la faccia e uscire dall’isolamento, doveva
sacrificare personalmente e politicamente
l’Alberoni.
Espulso dalla Spagna, scampò alla frontiera a un
agguato ordito ufficialmente dalla corte per farlo
scomparire per sempre. Rifugiato a Sestri Levante
nella Repubblica di Genova, Alberoni dovette
affrontare le ire pontificie per la vicenda
dell’assalto spagnolo alla Sardegna anziché alla
flotta ottomana; intanto era processato in
contumacia a Madrid e a Piacenza (ogni allato,
confidente e connivente, per ricrearsi una verginità
politica o ideologicadeve sempre mostrare un certo
rigore contro un ex amico caduto).
La morte di Clemente XI (19 marzo 1721) e la
possibilità conseguente che – con salvacondotto –
ebbe l’Alberoni di partecipare al conclave,
stemperarono le tensioni. Il nuovo pontefice
Innocenzo XIII (1721-1724) non giudicò sufficienti
gli elementi politicie giuridici sottopostigli da
un’apposita commissione cardinalizia per privare
l’Alberoni della porpora; fu anzi assolto, e poco
mancò che tornasse ad attività politica in Spagna.
Si spense a Piacenza nel 1752 dopo avervi edificato
un collegio ecclesiastico (che porta ancora il suo
nome) per l’istruzione dei giovani e dopo aver
ancora espletato qualche funzione politica minore
come legato pontificio in Romagna.
Riferimenti bibliografici:
Ciro Paoletti, Il Cardinale i Duchi, la Strega -
vita di Giulio Alberoni, Roma, CISM, 2022.
Massimo Solari, Giulio Alberoni.La vita
avventurosa del figlio dell’ortolano che diventò
primo ministro, LIR, Piacenza 2013.
Stefano Bersani, Storia del cardinale Giulio
Alberoni scritta da Stefano Bersani, F. Solari,
1861.
Sull’attività svolta in veste di legato pontificio a
Ravenna si segnala:
Giuseppe Cattanei, Giulio Alberoni legato
pontificio. A Ravenna tra economia e istituzioni,
Scritture, 2013.