N. 144 - Dicembre 2019
(CLXXV)
LA
FIGURA
DI
GIROLAMO
SAVONAROLA
TRA
DISCIPLINA
E
RIGORE
di
Costanza
Marana
Ferrarese
d’origine,
fiorentino
d’adozione,
Girolamo
Savonarola
(1452-1498)
si
staglia
quale
perno
ideologico
su
cui
germogliano
le
forze
religiose
e
politiche
rinascimentali.
La
sua
entrée
nell’ordine
domenicano
nel
1475
è
maturata
dalle
lectio
di
San
Tommaso
d’Aquino
che
sapientemente
accorda
la
ragione
con
un
approccio
scientifico
allo
studio
della
società
civile.
Un
rinnovamento
che
ha
origine
nel
pensiero
aristotelico
e
che
approda
a
etica
del
bene
comune.
La
sua
reductio
ad
unum
stabilisce
l’ordine
in
merito
alla
costituzione
dell’unità
e la
ragione
quale
principio
sovrano.
Il
corpo
servitore
dell’anima,
l’anima
collerica
e
edonistica
piegata
al
cospetto
della
ratio:
ogni
elemento
deve
trovare
la
sua
giustificazione
razionale.
L’imprinting
di
Savonarola
è
ben
saldo
a
queste
tematiche
e
viene
convogliato
verso
una
sua
compiutezza
nel
contesto
reale
fiorentino.
Il
frate
auspica
un
riformismo
che
rigeneri
il
tessuto
connettivo
religioso
e
politico,
in
polemica
con
la
dilagante
corruzione
dei
costumi
che
inficia
il
ruolo
stesso
attribuito
alla
Chiesa
di
depositaria
delle
coscienze.
Costui
critica
il
dispotismo
della
signoria
e
profetizza
un
regime
costituzionale,
con
un
apparato
moderatore
della
tirannide
versus
la
Roma
papale
corrotta.
Militante
in
seno
alla
congregazione
di
San
Gimignano,
Savonarola
inizia
la
sua
attività
di
predicatore
che
lo
porterà
nel
1491
al
priorato
di
San
Marco.
La
discesa
di
Carlo
VIII
segna
una
pausa
repubblicana
nell’assetto
politico
della
città
di
Firenze
e
trova
raccordo
nel
pensiero
del
frate
domenicano,
addirittura
confermando
una
sua
supposta
profezia
al
riguardo.
Gli
Stati
italiani
si
stringono
in
difesa
dell’invasore
(Lega
Santa)
e
papa
Alessandro
VI
Borgia
vessa
Savonarola
con
interrogativi
sulla
sua
attività
di
predicazione
e di
profeta,
intimando
una
sua
venuta
a
Roma
a
dare
spiegazioni.
Noncurante
di
tal
avviso,
il
domenicano
prosegue
la
sua
missione,
rimanendo
indifferente
anche
alla
scomunica
nei
suoi
confronti;
nel
frattempo
viene
destituito
dalla
sua
carica
al
convento
di
San
Marco
che
viene
a
sua
volta
“fagocitato”
da
una
congregazione
romana-toscana.
La
sua
volontà
di
rinnovamento
religioso
e
politico
è
animata
da
un
ardore
mistico
che
sconfina
in
sermoni
illuminati
in
cui
il
focus
risiede
nella
condanna
cruda
di
vanitas
vanitatum
et
omnia
vanitas,
citando
un
suo
intro
a
una
predica
sopra
il
principio
della
cantica.
“Vanissimo,
imperfectissimo,
stolto
homo
mortale,
povro
d’ingegno,
debile
d’intellecto,
mendico
di
argumenti,
nudo
di
consigli,
tu
vedi
che
tuto
il
mondo
è
vano.
Tu
intendi
chiaramente
essere
fallace
ogne
sua
speranza”.
Savonarola
denuncia
la
pochezza
delle
cose
materiali,
il
principio
dell’homo
bulla,
vano
per
la
sua
finitezza
mondana.
L’instabilità
e
l’incertezza
del
contingente
versus
l’Etterno.
Costui
incita
una
conversione
dei
costumi,
abbandonando
le
tenebre
e
andando
incontro
alla
luce.
“Il
mondo
fuge,
ogni
cosa
è
instabile,
et
tu
non
hai
certeza
di
vivere
insino
a la
fine
di
questa
hora
presente;
e tu
segui
colui,
che
da
te
fuge,
tu
ti
apichi
a la
instabilitate
e
lassi
le
cose
eterne.
Convertitevi,
convertitive
a la
mia
correctione.
Convertitive
da
le
tenebre
dil
mondo
a la
luce
dil
cielo”.
I
suoi
accoliti
vengono
detti
“piagnoni”
per
l’integralismo
moralizzatore
che
li
caratterizza
a
esacerbare
il
clima
già
degenerato
all’epoca.
La
dialettica
ambigua
con
il
regime
mediceo,
dopo
la
morte
di
Lorenzo
il
Magnifico,
si
esaspera
e
degenera
a
causa
dell’inflessibilità
repubblicana
del
predicatore,
che
con
le
sue
idee
innovative
intende
decurtare
la
policy
del
lusso
e
del
vizio,
con
un
moto
purificatore
di
stampo
pauperistico.
Ciò
solleva
anche
la
polemica
del
partito
degli
arrabbiati,
fazione
repubblicana
di
stampo
aristocratico,
connivente
con
il
Papa,
ostile
a
questa
rigenerazione
che
parte
dal
basso
e al
monopolio
mediceo.
A
complicare
il
quadro,
i
Bigi,
i
cosiddetti
partigiani
dei
Medici
che
osservano
un
atteggiamento
ambiguo,
opportunista,
in
base
alle
circostanze,
deputando
alleanze
provvisorie
o
meno
con
l’ala
repubblicana
e
savonaroliana.
Savonarola
viene
rinnegato
dall’ala
più
moderata
dei
piagnoni
e
dei
Bigi
che
attendono
una
sua
discolpa
dal
complotto
in
favore
del
ritorno
mediceo,
in
seguito
messo
al
bando
dal
Papa
e
interdetto
dal
predicare
nella
sua
città.
Costui
allora
organizza
una
congiura
per
destituire
il
Sommo
Pontefice.
Abortita
la
prova
del
fuoco
lanciata
dal
francescano
Francesco
di
Puglia,
il
declino
ineluttabile
del
frate,
oramai
isolato,
lo
porta
a
consegnarsi
alla
Signoria.
Viene
processato,
torturato
e
impiccato.
Arso
il
suo
cadavere
in
piazza
della
Signoria
(ove
ancora
esiste
una
targa
in
memoria),
le
sue
ceneri
vengono
gettate
nell’Arno,
a
monito
che
della
sua
persona
non
esista
più
nulla.
Una
damnatio
memoria
eterna.
L’afflato
riformatore
savonaroliano
scompagina
l’assetto
logistico
del
tempo,
volendo
purificare
l’humus
e l’habitus
attraverso
un
approccio
escatologico
dal
sapore
medievale,
millenaristico.
Un’autoelezione
che
lo
consacra
profeta
dal
cui
carisma
possa
risorgere
il
vero
senso
spirituale,
inficiato
dal
mal
costume
del
vizio
e
della
tirannide.
La
sua
ossatura
è
ben
salda
ai
principi
domenicani
e
alla
summa
di
Tommaso
d’Aquino.
Il
frate
fa
collimare
lo
schema
sovrano
della
ratio
con
le
vicende
contingenti
fiorentine,
monitorando
un
rinnovamento
pragmatico,
temperando
gli
eccessi,
riconducendo
a
un’unità
repubblicana.
“Così
ho
detto
più
volte
a
te,
Firenze,
e
che
tu
lievi
e’
vizii
della
tua
città,
e
che
tu
provvegga
a
tanti
mali
e
tanti
peccati
quanti
in
quella
ogni
di
più
si
veggano,
e
che
facendo
in
questo
modo,
tu
arai
da
Dio
molto
bene”.
Come
costui
esordisce
nella
predica
XXV
constatando
l’impreparazione
di
Firenze
ad
accogliere
la
venuta
del
Signore,
poiché
(e
qui
compara
con
la
vicenda
di
Susanna,
che
attraverso
la
fede,
l’orazione
e la
pazienza
venne
liberata
dall’angustia
e
resa
gloriosa)
non
ferente
di
grazia
e
consapevolezza,
come
cieca
innanzi
a
Dio.
Nello
specifico,
il
frate
riprende
le
parole
di
Giobbe:
“Se
‘l
Signore
venisse
a
me,
forse
io
non
lo
vedrei”.
Savonarola
possiede
un
approccio
escatologico
che
serba
l’afflato
mistico
medievale,
impaginando
la
condizione
umana
soggetta
ai
flutti
come
un’imbarcazione
finché
non
approda
a un
porto.
Riprendendo
San
Francesco,
il
frate
lascia
al
governo
di
Dio,
stimandolo
colui
che
è
governatore
di
tutto
l’universo,
possessore
dell’anima
ferente
di
grazia,
della
cognizione
e
della
facoltà
di
punire
ove
bisogni.
Rettor
del
mondo,
che
infinita
sia
Toa
providenza;
né
già
mai
potria
Creder
contra,
perché
ab
experto
el
vedo;
Talor
serìa
via
più
che
neve
fredo,
Vedendo
sottosopra
volto
el
mondo
Ed
esser
spenta
al
fondo
Ogne
virtute
e
ogne
bel
costume:
Non
trovo
un
vivo
lume,
Né
pur
che
de’
soi
vizi
se
vergogni;
Chi
te
nega,
chi
dice
che
tu
sogni.
(Cit.
De
ruina
mundi)
Savonarola
ha
“in
gran
dispitto”
il
mondo,
afflitto
dalla
volgarità,
dalla
lussuria,
dalla
fallacia
e ha
nostalgia
del
tempo
pio
e
casto
classico
e
affonda
sul
“lenone
di
porpora
vestito,
un
istrione
che
‘l
vulgo
segue
e il
cieco
mondo
adora”.
La
sua
intensa
polemica
verso
“De
ruina
ecclesiae”
impetra
un
purismo
delle
origini.
U’
son,
oimè!
Le
gemme
e i
fin
diamanti?
U’
son
le
lampe
ardente
e i
bei
xafiri?
O
gran
pietade,
o
lacrime,
o
sospiri!
Savonarola
invoca
l’intercessione
della
vergine
Maria
che
lo
conforti
in
tal
dissesto
etico
e
morale
che
affligge
la
società
al
tempo.
La
sua
volontà
di
disciplina,
assistita
dal
rigore
mentale
e
fisico,
è
racchiusa
nel
noto
gesto
del
frate
di
indossare
la
veste
di
cilicio,
ruvida,
pungente,
memore
di
una
penitenza
continua
e di
un
contemptus
mundi.
“Un
mondo
in
sé
mancha,
il
mondo
fuge,
il
mondo
concupivit
et
fuit
avarus,
unde
bene
et
his
aptatur
parabola
de
semine
Evangelii
presentis
et
cetera”.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Savonarola,
Sermoni
sopra
il
principio
della
cantica,
a
cura
di
Silvia
Cantelli
Berarducci,
Angelo
Berardetti
Editore,
Roma
1996;
G.
Savonarola,
Poesie,
a
cura
di
Mario
Martelli,
Angelo
Belardetti
Editore,
Roma
1968;
G.
Savonarola,
Prediche
sopra
Giobbe,
Vol.
II,
a
cura
di
Roberto
Ridolfi,
Angelo
Belardetti
Editore,
Roma
1958.