N. 111 - Marzo 2017
(CXLII)
Giovenale e la poetica dell’indignatio
Riflessioni sul genere satirico a Roma - Parte Ii
di Paola Scollo
I
contenuti
violentemente
moralistici
delle
satire
di
Giovenale
presentano,
a
una
epidermica
analisi,
affinità
con
quelli
di
Persio.
Eppure,
la
distanza
tra
i
due
è
notevole:
la
denuncia
morale
di
Persio
rispondeva,
infatti,
ai
principi
dell’etica
stoica,
modello
esemplare
di
riferimento,
e
aveva
intenti
costruttivi;
di
contro,
Giovenale
non
risponde
ad
alcuna
filosofia,
ma
segue
un
suo
personale
punto
di
vista,
in
base
al
quale
si
accanisce
contro
la
società
romana
solo
con
finalità
distruttive.
Giovenale,
in
buona
sostanza,
non
crede
che
la
sua
poesia
possa
influire
sul
comportamento
degli
uomini,
irrimediabilmente
corrotti:
la
sua
satira
si
limita
a
denunciare
a
gran
voce
le
storture
della
società
senza
coltivare
pretese
e/o
illusioni
di
riscatto.
Pertanto,
se
le
critiche
di
Persio
lasciavano
aperto
uno
spiraglio
di
luce
nel
raggiungimento
dell’atarassia,
in
Giovenale
regnava
un
pessimismo
cupo
e
totale.
A
dominare,
su
tutto,
era
solo
la
certezza
di
non
poter
intervenire,
modificandolo,
nello
status
quo.
Riguardo
allo
stile,
le
satire
di
Giovenale
condividono
del
genere
tragico
una
cupa
e
amara
visione
dell’umanità.
Il
poeta,
infatti,
individua
proprio
nella
solennità
della
forma
epico-
tragica
il
mezzo
più
opportuno
per
far
risaltare,
all’opposto,
l’abiezione
dei
contenuti.
Il
tono
è
solenne
e
spesso
enfatico,
mentre
il
lessico
e la
fraseologia
rivelano
registri
estremamente
diversi,
passando
dalla
retorica
delle
declamazioni
al
gergo
plebeo
e
talora
osceno
delle
invettive.
Anche
nello
stile
le
satire
di
Giovane
prendono
le
distanze
dai
modelli
della
tradizione
satirica,
come
per
esempio
il
sermo
cotidianus
di
Orazio
e il
sermo
humilis
di
Persio.
Il
suo
stile
è
considerato
sublime,
in
quanto
prioritario
scopo
era
quello
di
evocare
l’epica
storica.
Ma
la
scelta
di
uno
stile
elevato
derivava
poi,
con
ogni
probabilità,
dalla
funzione
di
denuncia
che
lo
stesso
Giovenale
aveva
assunto
nei
confronti
della
sua
società.
Nonostante
ciò,
il
suo
linguaggio
non
ripudia
espressioni
volgari.
Veniamo
dunque
all’analisi
di
una
delle
più
celebri
satire
di
Giovenale,
ossia
la
sesta,
quella
di
invettiva
contro
le
donne.
Per
quanto
concerne
il
problema
della
datazione,
la
critica
ha
immaginato
la
pubblicazione
della
Satira
VI
tra
la
fine
del
regno
di
Traiano
e
gli
esordi
di
quello
di
Adriano.
Rispetto
alle
altre
satire
composte
da
Giovenale,
questa
è la
più
lunga
e
disarticolata:
presenta,
infatti,
epigrammi
di
estensione
variabile
(si
va
da
quelli
di
un
solo
distico
a
quelli
d
quattro/sei
versi
fino
a
quelli
di
massima
estensione
di
trentadue/trentaquattro
versi)
e la
singola
immagine
tende
terminare
con
una
battuta
a
sorpresa,
un
vero
e
proprio
aprosdòketon.
Inevitabile
immaginare
qui
una
influenza
da
parte
di
Marziale.
La
satira
può
essere
divisa
in
tre
sequenze
principali:
il
proemio
(1-37)
con
funzione
allocutiva;
l’excursus
centrale
(286-305),
che
ha
la
pretesa
di
porsi
quale
epicentro
ideologico-
esplicativo
del
componimento;
l’epilogo
(627-661)
in
cui
il
finale
tragico,
rappresentato
dall’uccisione
del
marito
da
parte
della
moglie,
sembra
idealmente
realizzare
l’ipotesi
di
morte
suggerita
nella
battuta
del
proemio
(30).
Queste
tre
sezioni
ricevono
una
certa
simmetria
dai
frequenti
richiami
ai
temi
della
Pudicitia,
Libido,
Paupertas
e
Luxuria.
La
cornice
allocutiva,
invece,
contribuisce
a
garantire
una
coesione.
Spunto
per
la
composizione
di
questa
satira
giunge
all’autore
dalla
decisione
dell’amico
Postumo
di
sposarsi.
Allo
scopo
di
dissuaderlo
da
tale
proposito
e, a
un
tempo,
di
dimostrare
che
a
Roma
non
esistono
più
donne-mogli
di
valore,
Giovenale
propone
una
fitta
casistica
di
figure
femminili
il
cui
comune
denominatore
è un
modus
vivendi
all’insegna
dell’impudicizia.
In
sintesi,
la
satira
è
costruita
come
un
paradossale
e
degradato
catalogo
delle
donne
di
esiodea
o
semonidea
memoria.
Un
tentativo
di
spiegazione
di
tale
struttura
si
può
ottenere
tenendo
conto
dello
stato
compositivo
legato
al
momento
intermedio
della
recitatio
e
della
particolare
condizione
della
Satira
VI,
l’unica
a
essere
stata
pubblicata
come
libellus
singolo,
prima
di
confluire
come
libro
II
nell’edizione
finale
in
cinque
libri.
Nella
sezione
incipitaria
della
satira
viene
evocata
l’immagine
della
Pudicizia
che,
alla
fine
dell’età
di
Saturno,
abbandona
la
terra
tornare
in
cielo.
Occorre,
a
tal
proposito,
specificare
che
il
termine
“Pudor”
ha
un
significato
ampio
che
riguarda
l’osservanza
delle
norme
inerenti
al
proprio
“status”
sociale.
Il
termine
“Pudicitia”,
invece,
ha
un
significato
limitato
al
comportamento
sessuale,
il
che
per
la
donna
equivaleva
alla
fedeltà
matrimoniale.
Il
maschio
romano,
invece,
non
veniva
considerato
“impudicus”
se
infrangeva
la
fedeltà
sessuale.
Inizialmente,
la
parola
“Pudicitia”
era
riservata
solo
alle
matronae
univirae,
ossia
quelle
che
mantenevano
fedeltà
al
marito
anche
dopo
la
sua
morte.
Da
qui
si
deduce
che
la
morale
romana
classica
non
era
fondata
su
un
concetto
di
virtù
universalmente
valido,
ma
sull’organizzazione
per
“status”
o
“ordini
sociali”.
Durante
l’età
di
Giove
scompaiono
dalla
terra,
quindi
dalla
società,
la
frugalità
e la
semplicità
di
costume
soppiantate
dall’abitudine,
o
anche
moda,
dell’adulterio.
Al
termine
dell’età
d’argento,
Giovenale
sostiene
dunque
che
la
moralità
delle
donne
sia
precipitata.
In
questi
versi
scopo
dell’autore
è,
dunque,
quello
di
comparare
i
tempi
moderni
al
buon
tempo
antico:
prima
a
dominare
erano
la
povertà,
l’amore
per
la
patria,
la
presenza
di
spose
e di
madri
caste;
adesso,
di
contro,
le
donne
banchettano
come
gli
uomini
fino
a
tarda
notte,
ubriache
in
modo
disgustoso.
E il
poeta
non
può
che
mostrare
evidente
fastidio
per
questa
forma
di
emancipazione
femminile.
Di
qui
il
suo
pesante
sarcasmo.
L’indignatio
di
Giovenale
raggiunge
l’apice
nel
momento
in
cui
delinea
il
ritratto
di
Messalina,
prima
moglie
dell’imperatore
Claudio,
vittima
dello
stesso
princeps.
La
tesi
sostenuta
qui
da
Giovenale
è
che
la
donna
vada
sempre
respinta,
anche
quando
sembri
apparentemente
perfetta.
Ben
diverso,
infatti,
era
l’atteggiamento
delle
matrone
basato
su
onestà
e
fedeltà
nei
confronti
dei
mariti.
E
tra
le
figure
femminili
da
evitare
sono,
anzitutto,
da
annoverare
le
donne
colte
ed
esperte
di
politica.
A
concludere
tale
desolante
galleria
di
immagini
femminili
è la
donna
dedita
a
pratiche
abortive
e
rea
di
avvelenare
mariti
e
figli.