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N. 110 - Febbraio 2017 (CXLI)

Giovenale e la poetica dell’indignatio
Riflessioni sul genere satirico a Roma - Parte I

di Paola Scollo

 

La satira è un genere letterario tipicamente romano, così come sostiene lo stesso Quintiliano quando afferma «satura tota nostra est». I suoi esordi si pongono a Roma intorno al IV secolo a.C. e, spesso, vengono associati, come nel caso della tragedia e della commedia greche, a un’improvvisazione.

 

Prime manifestazioni satiriche furono i cosiddetti Ludi scaenici, rappresentazioni drammatiche aggiunte agli antichi ludi Romani, filoaristocratici, derivanti dai Fescennini. Questi ultimi, forse di origine etrusca, erano dei diverbi dialogati a versi alterni, recitati da attori girovaghi, caratterizzati da un contenuto pungente e molto licenzioso, inscenati durante le feste agricole della stagione del raccolto. Queste rappresentazioni ottennero un primo riconoscimento religioso intorno al 364 a.C. in occasione di festività sacre.

 

Dopo la sua prima comparsa, la satira acquista con Lucilio una vera e propria vis polemica, un tono di aggressività desunto recta via dalla poesia giambica greca. Quanto ai temi Lucilio predilige l’esperienza autobiografica e l’aspra censura dei comportamenti contemporanei: la satira è il campo di battaglia attraverso cui affermare la verità. La varietà dei temi, tipica del genere, viene mantenuta attraverso la varietà dei metri, anche se è già possibile riscontrare un tendenza all’esametro che assicura al genere un assetto formale ben definito.

 

In età augustea, con Orazio la satira acquista un tono più colloquiale. Nei suoi Sermones, infatti, sebbene vi sia una critica della società del tempo, non prevale alcun tono accusatorio: emerge, piuttosto, il tentativo di esortare i cittadini a cambiare modus vivendi. Riguardo al metro, è da segnalare l’utilizzo dell’esametro.

 

All’ormai consolidato modello della satira esametrica di Orazio si rifanno i due maggiori poeti satirici dell’età imperiale, Persio e Giovenale. In particolar modo quest’ultimo intreccia un serrato discorso sui vitia contemporanei al fine di mettere sotto accusa la società.

 

Decimo Giunio Giovenale ambisce a proporsi quale “portavoce” di una indignatio che volutamente lo trascende in quanto entità biografica (1, 79-80). Solo a partire dal libro IV, in parallelo con la rinuncia all’indignatio, si apre qualche spiraglio autobiografico (soprattutto nelle satire 11 e 12). Dai pochi indizi ricavati dalle Satire stesse si ipotizza che il poeta sia nato da padre liberto, ma di agiate condizioni economiche, tra il 50 e il 60 d.C. Quanto al luogo di nascita, un passo della terza satira (318 ss.) induce a ritenere che sia nato ad Aquinum, cittadina del Lazio meridionale. In tempi più recenti Syme ha proposto di collocare la patria del poeta nelle province occidentali dell’impero, dunque in Spagna, nelle Gallie e, magari, in Africa. A sostegno di questa ipotesi giungerebbe l’avversione di Giovenale verso l’elemento greco-orientale mista a una evidente indulgenza nei confronti delle popolazioni d’Occidente.

 

L’unica vera testimonianza esterna che possediamo sul poeta delle Satire è costituita di tre epigrammi di Marziale a lui indirizzati, in cui viene presentato come un poeta cliens insoddisfatto della sua vita al seguito dei potenti patroni. Tale immagine potrebbe esser confermata dall’interesse di Giovenale per i clientes, tema vitale nelle satire 1, 3, 5, 7 e 9.

 

Centrale nell’educazione di Giovenale è la retorica che gli consente di vivere a Roma dapprima come insegnante di retorica, poi come avvocato. Dati alcuni possedimenti a Roma e nella natia Aquino, possiamo arguire che le sue condizioni economiche non debbano essere state troppo precarie. Tuttavia, come Marziale, sceglie di vivere all’ombra dei potenti, nell’umiliante condizione di poeta cliens. Con ogni probabilità, più che una scelta economica questo asservimento al potere costituito scaturisce dalla consapevolezza, da parte di Giovenale, della situazione di incertezza e di ambiguità in cui il letterato si trova in quel periodo. Nulla sappiamo della sua morte, certamente successiva al 127 d.C., avvenuta forse in Egitto.

 

Giovenale ha composto 16 satire in esametri e divise in cinque libri. Il primo libro contiene cinque satire, mentre il secondo una soltanto, la celebre invettiva contro le donne. Il terzo e il quarto libro presentano tre satire ciascuno, il quinto quattro. La composizione delle Satire va collocata dopo il 96 d.C., ossia tra la fine del governo di Domiziano e all’inizio di quello di Traiano, accolto come il restauratore della libertas.

 

Come spiega nella prima satira, data la preoccupazione di poter essere perseguito, Giovenale fa oggetto delle sue satire i morti sepolti lungo la via Latina o la via Flaminia. In realtà, la sua furia aggressiva è indirizzata alle figure più emblematiche della società e del costume della brulicante metropoli romana. All’epoca l’aristocrazia è priva del potere politico, mentre i liberti appaiono sempre più ricchi e potenti. Le famiglie nobili, che un tempo hanno protetto gli artisti, sono ormai scomparse oppure ridotte in miseria, mentre i nuovi ricchi, avari e rozzi, sono all’origine dell’indigenza dei letterati e, di conseguenza, della decadenza della cultura.

 

In primo luogo Giovenale denuncia la decadenza della letteratura, protetta da ricchi mossi solo da personale narcisismo. In tale contesto si rifiuta di considerare nobile chi è tale per nascita: la vera nobiltà risiede nella ricchezza interiore. Più in generale, è viva nel poeta una idealizzazione nostalgica del passato, quindi del mos maiorum, in contrapposizione al presente corrotto. L’anelito al tempo antico sfocia in una vera e propria indignatio che è sia musa ispiratrice sia implicita ammissione di frustrante impotenza. Un marcato cambiamento di toni si avverte negli ultimi due libri delle Satire, in cui il poeta rinuncia espressamente alla violenta invettiva dell’indignatio e assume posizioni più distaccate.



 

 

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