N. 48 - Dicembre 2011
(LXXIX)
NELLA TELA DEL RAGNO
La breve vita di Giovanni Spampinato
di Giuseppe Tramontana
Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo,
la
nostra
sistematica
opposizione
corrisponde
a
un
regolamento
di
conti
fuori
della
storia;
forse
non
avrà
apparentemente
nessuna
positiva
efficacia;
ma
io
sento
che
abbiamo
da
assolvere
una
grande
funzione
dando
esempi
di
carattere
e
di
forza
morale
alla
generazione
che
viene
dopo
di
noi
e
sulla
quale
e
per
la
quale
dobbiamo
lavorare.
(Carlo
Rosselli,
12
gennaio
1925)
A
fine
ottobre,
a
Ragusa,
lontana
provincia
dell’impero,
fa
abbastanza
fresco.
Freddo
no,
ma
fresco
sì.
È
una
città
tranquilla,
Ragusa.
Tranquilla
e
operosa.
E la
sera
del
27
ottobre
del
1972
non
fa
eccezione.
È
quieta,
Ragusa.
Come
può
esserlo
una
città
di
meno
di
centomila
abitanti,
laboriosa,
pacifica,
adagiato
–
metà
in
altura,
metà
a
valle
– su
un
dolce
declivio
che
punta
al
mare,
lontano
da
strepiti,
deliri
e
luparate.
Eh
già,
perché
Ragusa,
pur
trovandosi
in
Sicilia,
è
una
delle
‘province
babbÈ,
fessacchiotte,
dove
non
c’è
traccia
di
mafia
e
dove
è
possibile
vivere
onestamente
del
proprio
lavoro
senza
che
qualcuno
imponga
il
pizzo
e
dove
non
si
fa
la
conta
dei
morti
ammazzati
per
strada.
Ma,
quella
sera,
non
c’è
il
solito
silenzio
quieto,
composto.
C’è
uno
strano
silenzio,
si
dirà
successivamente.
Uno
di
quei
silenzi
carichi
di
tensione,
uno
di
quei
silenzi
che
insospettiscono
le
madri
quando
entrano
nelle
camerette
dei
figli
piccoli:
il
silenzio
del
male.
Le
madri
lo
sanno
cosa
vuol
dire.
E
sono
terrorizzate
da
quel
silenzio.
Contro
il
rumore
si
può
combattere,
ma
il
silenzio
è
peggio:
spesso
non
c’è
scampo,
non
c’è
rimedio.
Alcuni
hanno
parlato
di
uno
strano
silenzio
prima
di
un
terremoto,
di
un’invasione
o
dello
scoppio
di
un’epidemia.
I
vecchi
lo
sanno.
E
anche
le
madri.
Quella
sera,
infatti,
accade
un
fatto
inusuale
per
Ragusa:
si
odono
dei
colpi
di
pistola
provenire
da
dentro
una
Cinquecento
bianca.
Un
giovane
della
Ragusa-bene,
un
ragazzo
di
31
anni,
uccide
un
quasi
coetaneo
di
26.
L’assassino
si
chiama
Roberto
Campria,
figlio
del
Presidente
del
Tribunale
della
città,
la
vittima
Giovanni
Spampinato,
giornalista
del
quotidiano
della
sera
L’Ora.
Oggi
ai
più
il
nome
di
Giovanni
Spampinato
dice
poco.
E
anche
al
momento
della
morte,
a
dire
il
vero,
non
è
per
nulla
una
celebrità.
Giovanni,
occhiali
dalla
montatura
metallica,
capelli
neri
e
incarnato
scuro,
faccia
da
bravo
ragazzo
del
sud,
frequenta
la
facoltà
di
Lettere
di
Catania
e
gli
manca
un
solo
esame
alla
laurea.
Appartiene
ad
una
famiglia
di
onesti
lavoratori.
Il
padre,
Giuseppe,
era
stato
un
partigiano
nella
Jugoslavia
del
maresciallo
Tito
e
aveva
combattuto
contro
l’invasione
nazifascista,
tra
le
file
della
Osvobodilna
Fronta,
il
Fronte
di
liberazione
nazionale
jugolavo,
meritandosi
il
riconoscimento
di
“eroe
della
rivoluzione”
da
parte
di
quella
Repubblica
socialista.
È
giovane
–
avrebbe
compiuto
26
anni
il 6
novembre
del
’72
– e
più
di
ogni
altra
cosa
(persino
più
della
laurea)
vuole
fare
il
giornalista:
è la
sua
passione.
Ed
ecco
che,
armato
di
penna
e
arguzia,
gira
a
bordo
la
provincia
ragusana
a
bordo
della
sua
Cinquecento
scalcagnata
in
cerca
di
notizie.
È
coraggioso
e
determinato,
disposto
al
sacrificio
come
tutti
quelli
che
patiscono
per
amore.
Non
solo:
è
eccezionalmente
dotato
di
quel
qualcosa
che
fa
diventare
grandi
professioni
anche
a
sedici
anni.
È
bravo,
Giovanni.
E
per
questo
la
sua
breve
e
appassionata
esistenza
viene
troncata
la
sera
quella
del
27
ottobre
di
quel
dannato
1972,
a
Ragusa.
Un
delitto
aveva
segnato la
svolta
nella
vita
professionale
e
nella
vicenda
personale
di
Giovanni.
È il
26
febbraio
1972
e
intorno
alle
13,30
una
contadina
aveva
scoperto,
in
contrada
‘Ciarberi’,
alle
porte
della
città
Ragusa,
il
cadavere
di
un
uomo.
Si
tratta
dell’ingegnere
Angelo
Tumino,
conosciutissimo
in
città,
con
un
figlio,
Marco,
avuto
da
una
relazione
con
una
giovane
donna
di
Modica
poi
trasferitasi
a
Roma.
Tumino
passa
per
una
sorta
di
viveur.
Ha
una
Prinz
Nsu,
ma
non
è
stata
con
quella,
bensì
con
una
Spider
decapottabile,
che,
dieci
anni
prima,
aveva
scorazzato
in
lungo
e in
largo
portandosi
dietro
le
attrici
di
Divorzio
all’italiana,
film
girato
proprio
in
quelle
zone
da
Pietro
Germi.
Ma
Tumino
è
anche
dell’altro.
È un
personaggio
multiforme.
È
uomo
di
destra,
militante
del
MSI.
Ma è
anche
un
commerciante
di
oggetti
di
antiquariato,
cosa
che
ne
fa
un
uomo
molto
ricercato
da
certi
autorevoli
personaggi.
“La
sua
morte
–
dice
Casarrubea
-
segna
a
Ragusa
la
rottura
di
una
lunga
pax
sociale
che
dura
da
un
quarto
di
secolo
e
suscita
interrogativi,
specialmente
in
riferimento
a
certi
ambienti
del
neofascismo,
a
strani
traffici
di
armi
e
droga,
a
non
meglio
precisate
manovre
‘di
agenti
del
regime
fascista
greco
dei
colonnelli’,
alla
segnalazione
della
presenza
di
campi
di
addestramento
paramilitare
‘mascherati
da
corsi
per
appassionati
di
archeologia’”.
Giovanni
si
sta
occupato
della
presenza
del
neofascismo
nella
sua
provincia,
una
provincia
che
tutti
ritengono
tranquilla,
babba.
Già
nella
primavera
del
1971,
Giovanni
ha
scritto
un
articolo
interessante
su
L’opposizione
di
sinistra.
Sono
passati
pochi
mesi
dal
tentativo
di
golpe
di
Junio
Valerio
Borghese.
Giovanni,
scavando
e
chiedendo,
ha
scoperto
che
il
‘principe
nero’,
proprio
in
Sicilia,
può
contare
su
alcuni
saldi
contatti
nel
mondo
neofascista.
D’altra
parte,
non
è
una
novità:
per
preparare
il
colpo
di
stato,
Borghese
ha
trafficato
parecchio
nell’Isola,
ora
intrattenendo
rapporti
con
alcune
famiglie
mafiose
che
avrebbero
dovuto
fornire
l’
‘esercito’
per
l’azione
golpista,
ora
installando,
nel
catanese,
veri
campi
di
addestramento
militare.
In
quell’articolo
su
L’opposizione
il
giovane
giornalista
scrive
che
“per
limitarci
alla
sola
Sicilia
orientale,
un
panorama
estremamente
interessante
si
offre
a
chi
vuol
fare
un’idea
del
neofascismo
locale
e
dei
metodi
e
dei
fini
che
si
propone.”
E
giù
con
i
nomi:
“Dirige
il
gruppo
un
certo
Sandro
Bertolani,
amico
intimo
di
Stefano
Galatà,
il
quale
è
dirigente
dei
Volontari
del
MSI,
l’organizzazione
paramilitare
‘ufficialÈ
del
Movimento
Sociale.”
Questo
Galatà,
tra
le
altre
cose,
“è
indicato
come
esecutore
materiale
dell’attentato
all’Altare
della
Patria,
e
quindi
direttamente
implicato
nelle
strage
di
Stato”.
La
strage
di
cui
parla
è
quella
di
Piazza
Fontana,
del
12
dicembre
1969:
in
contemporanea
a
quella
nella
Banca
Nazionale
dell’Agricoltura,
una
bomba
scoppiò
all’Altare
della
Patria.
Altro
nome
che
Giovanni
ha
fatto
è
quello
di
Glauco
Reale,
siracusano,
ex
di
Ordine
Nuovo,
ormai
dirigente
giovanile
e
consigliere
provinciale
missino,
il
quale
“partecipò,
nell’estate
del
’69,
alla
‘gita’
in
Grecia
offerta
dai
colonnelli
ai
loro
più
fedeli
camerati
italiani.”
Questa
‘gita’
è
stata
organizzata
da
Mario
Merlino,
uomo
molto
vicino
a
Stefano
Delle
Chiaie
e
implicato
nella
strage
di
Piazza
Fontana.
È
quello
il
periodo
in
cui
Kosta
Plevris,
l’uomo
dei
servizi
segreti
greci,
indicato
come
l’ideatore
della
‘strategia
della
tensionÈ
che
ha
portato
al
golpe
ellenico
il
21
aprile
del
1967,
viene
assiduamente
in
Italia.
Qui
incontra
Delle
Chiaie,
Merlino,
Pino
Rauti,
Giulio
Maceratini.
E il
24
febbraio
1972,
sull’Ora
Giovanni
ha
scritto:
“Una
novità,
in
provincia,
la
comparsa
delle
SAM,
perseguibili
per
legge
solo
per
il
nome
(Squadre
di
azione
Mussolini):
organizzazioni
paramilitari
nate
per
aggredire,
per
uccidere.
(…)
Non
fanno
mistero
di
essere
armati,
mostrano
i
tirapugni,
persino
le
pistole
(..).
Intorno
stanno
contrabbandieri
di
sigarette
e
trafficanti
di
droga.
Personaggi
oscuri,
che
vivono
in
bilico
fra
il
lecito
e
l’illecito,
che
maneggiano
molti
soldi.”
Due
giorni
dopo,
viene
trovato
il
corpo
senza
vita
di
Tumino.
Ed
il 6
marzo,
sull’onda
di
quel
delitto,
torna
ad
occuparsi
dei
traffici,
delle
inquietanti
realtà
che
quella
apparentemente
pacifica
provincia
occulta.
Nulla
può
essere
ovvio
in
quella
realtà
che
sembra
assopita.
“La
tranquillità
di
un
posto
può
popolarsi
di
mostri”
avrebbe
scritto
qualche
tempo
dopo
uno
scrittore
siciliano
ed a
caccia
di
questi
mostri
va
Giovanni.
Così
registra
–
tramite
notizie
passate
di
bocca
in
bocca
- la
presenza
a
Ragusa
di
Stefano
Delle
Chiaie.
Pubblica
poi
un
rapporto
sullo
squadrismo
in
città
e a
Siracusa.
L’8
marzo
invece,
sempre
sull’Ora,
nota
che
“come
ricercato
Stefano
Delle
Chiaie
dovrebbe
essere
un
nome
scritto
a
chiare
lettere
nel
‘calepino’
dei
poliziotti
– in
specie
di
quelli
della
‘politica’
– e
la
sua
foto
segnaletica
dovrebbe
campeggiare
in
tutte
le
questure
del
territorio
nazionale;
invece
a
Ragusa
il
maresciallo
Minniti
non
sapeva
nemmeno
chi
fosse
e,
per
istinto,
ha
chiesto
se
si
trattasse
di
un
anarchico.
(…)
Negli
ultimi
due
mesi,
al
Mediterraneo,
a
più
riprese,
ha
preso
alloggio
il
signor
Quintavalle
(con
moglie
e
figli):
romano,
ex X
Mas,
conosciuto
come
fascista
e
fedelissimo
del
golpista
mancato,
principe
Junio
Valerio
Borghese
[…]
Secondo
le
dichiarazioni
fatteci,
è
lui
che
avrebbe
preso
il
caffè
con
Stefano
Delle
Chiaie
(…)”.
È
questo
il
clima
che
si
respira
nella
Sicilia
orientale
nelle
settimane
che
precedono
e
nei
mesi
che
seguono
l’uccisione
di
Tumino,
la
sua
“esecuzione
capitale”.
O
meglio
questa
è la
realtà
che
ricostruisce
Giovanni
Spampinato,
giovane
cronista
dall’occhio
allenato
e
dalla
mente
lucida.
Ed è
anche
quello
che
emerge
dalle
ricostruzione
operata
da
Gianni
Bonina
(Il
triangolo
della
morte.
Tumino,
Campria,
Spampinato,
1992)
Luciano
Mirone
(Gli
insabbiati.
Storie
di
giornalisti
uccisi
dalla
Mafia
e
sepolti
dall’Indifferenza,
Castelvecchi,
1999),
Carlo
Ruta
(Morte
a
Ragusa,
2004)
ed
Alberto
Spampinato,
fratello
di
Giovanni
(C’erano
bei
cani
ma
molto
seri,
Ponte
alle
Grazie,
2009).
Nel
caso
di
Giovanni
Spampinato
ci
troviamo
di
fronte
al
disvelamento
delle
relazioni
tra
destra
eversiva
e
mafia.
Giovanni
non
si
limita
a
denunciare,
ma
scava,
analizza,
cerca
di
collegare
per
capire
e
capendo,
collega.
È
intelligente,
acuto,
irriducibile,
coraggioso.
Ma
soprattutto,
è
capace
di
andare
al
di
là
ed
al
di
sotto
della
superficie
delle
cose.
Per
questo,
come
sottolinea
Casarrubea,
“il
suo
osservatorio
diventa,
ad
un
certo
punto,
troppo
pericoloso
più
che
per
quanto
era
accaduto
per
quello
che
sarebbe
ancora
successo.”
Sul
delitto
Tumino,
infatti,
i
sospetti
di
Spampinato
si
erano
addensati
su
Roberto
Campria.
Sospetti
più
che
fondati,
se è
vero
- e
come
ricorda
Paolo
Di
Stefano
in
un
articolo
pubblicato
sul
Corriere
della
sera
(Il
figlio
del
giudice
e
due
pistole
per
uccidere
il
giornalista
curioso,
1
giugno
2008)
–
che
è
una
vicina
di
casa
di
Tumino,
tale
Elisa
Ilea,
a
raccontare
di
averlo
visto
allontanarsi
con
altri
due
tizi
quello
stesso
pomeriggio
del
24
febbraio.
La
descrizione
porta
immediatamente
a
identificare
i
due
personaggi.
Uno
dovrebbe
essere
Giovanni
Cutrone,
47
anni,
di
Chiaromonte
Gulfi,
paese
della
provincia
iblea,
ma
residente
da
decenni
a
Roma,
legato
ad
ambienti
di
estrema
destra,
fondatore
al
suo
paese
di
una
sezione
dell’Uomo
Qualunque,
anche
lui
attivo
nel
campo
del
traffico
d’arte
e
più
volte
finito
in
galera
per
truffa.
Il
profilo
dell’altro
coincide
invece
con
quello
di
Roberto
Campria,
ma
gli
inquirenti
sembrano
fare
orecchio
da
mercante.
“Convocheranno
otto
persone
–
ricorda
Di
Stefano
- da
sottoporre
alla
Ilea
per
un
riconoscimento
all’americana
e
tra
loro
non
ci
sono
né
Cutrone
(che
nel
frattempo
si
rende
irreperibile)
né
Campria.
Con
gli
identikit
della
signora
concordano
quelli
di
altri
testimoni.
Per
la
giustizia,
però,
è
come
se
nulla
fosse.
Non
ci
sarà
nessun
confronto
tra
i
testimoni
e il
figlio
del
magistrato.
Il
procuratore
Agostino
Fera
finirà
nell’occhio
del
ciclone:
dicono
che
troppe
cose
non
vede
e
non
sente.”
È
qui,
allora,
che
il
destino
di
Giovanni
incrocia
per
la
prima
volta
quello
del
Campria.
Spampinato
sarà
il
primo
a
parlare,
sull’Ora,
dei
sospetti
che
si
addensano
sul
figlio
di
Saverio
Campria,
presidente
del
tribunale
di
Ragusa
e
superiore
in
grado
degli
stessi
magistrati
che
si
dedicano
alle
indagini
sul
delitto
Tumino.
Un’anomalia
che
avrebbe
suggerito
per
lo
meno
il
trasferimento
dell’istruttoria
ad
altre
sedi.
Invece
il
caso
resta
a
Ragusa.
Sarà
sempre
il
giovane
giornalista
Spampinato
a
rivelare
che,
subito
dopo
l’omicidio,
Campria
si
trovava
in
casa
del
morto
a
rovistare
tra
le
sue
carte.
Soprattutto:
sarà
Spampinato,
in
diverse
inchieste,
a
spiegare
come
il
commercio
d’arte
e di
arredi
sacri,
così
come
il
crescente
contrabbando
di
sigarette,
serve
a
finanziare
l’eversione
nera
in
combutta
con
quella
greca.
E
Tumino,
come
Campria,
era
legato
al
mercato
antiquario
e ai
circoli
neofascisti
della
città.
Ma è
più
facile
indirizzarsi
verso
piste
meno
inquietanti:
storie
di
corna,
di
donne,
insomma.
E
Tumino
ci
stava
bene
in
mezzo.
Giovanni
sa
che
Campria
può
godere
di
una
certa
condizione
di
privilegio.
Sa
che
potrebbe
farla
franca
in
maniera,
come
dire?,
tradizionale,
per
le
vie
legali,
tra
un
insabbiamento
e
un’archiviazione.
Ma
non
è
questo
il
punto.
Il
giovane
giornalista,
poco
persuaso
fin
dall’inizio
della
dinamica
e
del
movente
dell’omicidio,
capisce
man
mano
che
l’evento,
l’evento
per
antonomasia,
in
realtà
non
è il
delitto
Tumino
in
sé,
ma
il
fatto
che
esso
potrebbe
rappresentare
la
punta
di
iceberg,
la
scintilla
fosgenica
della
presenza
di
quella
alla
massa
inquietanti
di
fenomeni
sommersi
che
possono
travolgere
le
istituzioni
democratiche
dell’Italia
intera.
Basta
collegare
fatti
e
personaggi,
tenere
sveglia
la
mente
e
conservare
un
occhio
allenato.
Per
Giovanni
tutto
parte
da
quel
tentato
golpe
della
notte
dell’Immacolata
del
1970,
il
golpe
Borghese.
Probabilmente
è lì
che
si
rende
conto
della
gravità
della
situazione
e
del
pericolo
che
corre
la
democrazia.
Il
delitto
Tumino
non
fa
altro
che
spingerlo
lungo
la
via
che
lo
porta
a
saperne
di
più
del
fascismo
in
Sicilia.
Si
mette
su
questa
via,
allora,
per
cercare
la
verità,
armato
solo
del
suo
fiuto
e di
una
penna
e un
bloc-notes:
giornalismo
d’inchiesta,
si
chiamava
una
volta,
giornalismo
al
servizio
dei
valori
insostituibili
della
Costituzione
e
quindi
dell’antifascismo.
Gli
investigatori
e i
magistrati,
nel
caso
Tumino,
cominciano
a
seguire,
senza
grandi
convinzioni
né
apprensioni,
le
solite
piste
passionali
o
mafiose.
Ma
Giovanni
si
rende
conto
che
non
si
tratta
del
classico
delitto
di
mafia.
Alberto
Spampinato,
nel
libro
citato,
così
scrive:
“Giovanni
diffidava
del
giovane
Campria,
nel
suo
intimo
era
convinto
che
c’entrasse
con
il
delitto
Tumino,
che
nascondesse
qualcosa,
ma
non
aveva
elementi
di
prova
(…).
Diffidava
di
quel
tipo
che
notoriamente
girava
armato,
gli
faceva
paura,
ma
non
voleva
darlo
a
vedere
e
non
voleva
fare
nulla
che
indicasse
un
suo
cedimento.
Perciò
aveva
deciso
di
non
rifiutare
gli
incontri
e di
resistere
alle
sue
richieste.
Era
convinto
che
le
sue
obiezioni,
approvate
dai
colleghi
della
redazione
di
Palermo,
fossero
ineccepibili
(…)
Nessuno
sa
cosa
successe
veramente
quella
notte.
Le
uniche
cose
certe
sono
che
Giovanni
rientrò
da
Catania
dopo
le
dieci
di
sera,
che
a
casa
nostra
non
c’era
nessuno
e
che,
un’ora
e
mezza
dopo,
crivellato
di
proiettili,
fu
portato
all’Ospedale
civile
di
Ragusa,
dove
giunse
senza
vita”.
Ecco
come
Alberto
la
riassume:
“Campria
riceve
una
telefonata
di
Giovanni
e va
insieme
a
lui
verso
un
bar
della
periferia
di
Ragusa,
che
di
solito
è
aperto
fino
a
tardi.
Vanno
con
la
vecchia
Cinquecento
di
mio
fratello.
Trovano
il
bar
chiuso
e
decidono
di
dirigersi
verso
il
centro,
per
trovare
un
altro
locale.
Intanto
discutono
della
solita
faccenda.
Davanti
all’ingresso
del
carcere,
in
una
strada
poco
illuminata,
mentre
la
macchina
è
incolonnata
nel
traffico,
Campria
chiede
a
Giovanni
di
fermarsi
perché
accusa
un
malore,
si
sente
svenire.
La
Cinquecento
si
ferma
dietro
una
Ottocentocinquanta
che
inaspettatamente
ha
superato
e si
è
fermata
davanti
all’ingresso
del
carcere.
A
questo
punto
il
figlio
del
giudice
apre
il
fuoco
contro
Giovanni
a
due
mani,
con
una
rivoltella
automatica
e
una
pistola
a
tamburo
che
ha
tirato
fuori
dal
borsello.
Esplode
sei
colpi
a
bruciapelo.
La
Cinquecento
rimasta
senza
controllo,
scivola
sulla
discesa
e si
arresta
sul
ciglio
della
strada
col
motore
acceso.
Il
figlio
del
giudice
scende
dall’auto,
attraversa
la
strada,
ingerisce
delle
pasticche
di
tranquillante
che
ha
portato
con
sé,
poi
bussa
alla
porta
del
carcere
e si
costituisce.
Giovanni
giace
accasciato
sul
sedile
della
macchina,
in
un
lago
di
sangue.
Non
è
ancora
morto
quando
alcuni
automobilisti
di
passaggio
accorrono
per
soccorrerlo.
Non
se
la
sentono
di
aspettare
l’ambulanza.
Pietosamente,
lo
caricano
sulla
loro
auto
e lo
portano
di
corsa
al
vicino
Pronto
Soccorso,
dove
giunge
senza
vita”.
Come
fa
notare
Giuseppe
Casarrubea,
alcune
cose
non
convincono.
Ad
esempio,
“è
possibile
che
questi
(Tumino,
nda)
decida
di
eliminare
la
sua
vittima
dentro
un
incolonnamento
nel
traffico,
quando
potrebbero
esserci
diversi
testimoni
dell’omicidio?
È
possibile
che
un
assassino
decida
di
utilizzare
due
diverse
pistole
per
compiere
il
suo
delitto?
Ed è
possibile
che
si
venga
a
determinare
la
straordinaria
coincidenza
tra
la
Ottocentocinquanta
che
supera
la
Cinquecento
per
fermarsi
proprio
sul
punto
dell’omicidio
e la
decisione
di
Campria
di
costituirsi
in
quell’edificio
davanti
al
quale
si
era
manifestata
l’azione
di
sangue?
Le
condizioni
di
oscurità
della
scena
del
delitto
non
aiutano
a
dare
risposte
in
merito.
Anzi,
sollevano
ulteriori
interrogativi.”
E in
effetti,
la
costituzione
in
carcere
dell’assassino
subito
dopo
il
delitto
potrebbe
suggerire
anche
(perché
no?)
l’ipotesi
che
ad
uccidere
Giovanni
Spampinato
siano
stati
più
soggetti,
magari
con
un
ben
più
rilevante
grado
nella
gerarchia
dell’organizzazione
mandante
(qualunque
essa
sia…),
e
che
quindi
Campria
sia
stato
costretto
ad
autoaccusarsi
per
coprire
qualcun
altro
e
porre
già
lì
la
parola
fine
ad
un’inchiesta
che
avrebbe
potuto
far
emergere
altre,
più
gravi
e
inconfessabili
verità.
Tutta
quell’attività
di
ricerca
e di
scoperta
sul
neofascismo
della
Sicilia
orientale
condotta
dal
giornalista
dell’Ora
porta
a
ritenere
che
egli
sia
stato
vittima
di
un
vero
e
proprio
complotto,
ordito
con
coperture
e
connivenze
del
mondo
politico
e
paramilitare
di
estrema
destra,
interessato
a
progetti
eversivi,
e
pertanto
interessato
a
far
tacere
una
voce
scomoda
che
stava
per
far
saltare
il
tappo
a
fatti
e
trame
che,
per
loro
natura,
dovevano
restare
segreti.
Per
Giovanni,
Campria
era
solo
un
anello
di
una
lunga
catena
di
complicità
e
manovre
eversive
che,
attraverso
Junio
Valerio
Borghese,
le
Sam,
e
persino
la
Grecia
dei
colonnelli,
si
allungava
fino
alla
strage
di
Piazza
Fontana
ed
alla
strategia
della
tensione.
Da
quel
momento
in
poi,
l’Italia
era
diventata
un
campo
di
sperimentazione
golpista,
in
cui
si
intrecciavano
rigurgiti
fascisti
e
interessi
mafiosi,
in
un
intreccio
devastante
e
perverso.
Il
giovane
giornalista
dell’
Ora
ha
incominciato
a
mettere
in
fila
i
fatti,
uno
dopo
l’altro.
Il
mosaico
che
ne
viene
fuori
è
inquietante.
Cominciamo
con
la
strage
della
Banca
dell’Agricoltura.
Siamo
al
dicembre
1969.
Passa
un
anno
esatto
e
siamo
di
fronte
al
tentativo
di
colpo
di
stato
dell’Immacolata
(dicembre
1970),
che
segue
di
qualche
mese
(settembre
’70)
la
scomparsa
di
un
altro
giornalista
dell’Ora,
Mauro
de
Mauro,
che
anticipa
di
circa
due
anni
e
getta
una
luce
sinistra
sull’uccisione
del
suo
giovane
collega.
De
Mauro
conosce
bene
certi
ambienti
di
estrema
destra:
è un
ottimo
giornalista,
ma
non
solo:
è
stato
un
elemento
di
spicco
del
fascismo
di
Salò.
Conosce
bene
anche
Borghese
e lo
incontra
nel
luglio
’70
a
Palermo,
durante
una
manifestazione
pubblica
in
un
cinema.
Nel
mezzo,
la
rivolta
di
Reggio
Calabria,
divampata
il
14
luglio
1970
e
ben
presto
monopolizzata
dal
MSI
e
dall’estrema
destra,
la
strage
di
Gioia
Tauro
(22
luglio
1970),
quando
un
attentato
dinamitardo
provoca
il
deragliamento
del
Treno
del
Sole
Palermo-Torino
con
la
morte
di 6
persone
e il
ferimento
di
altre
66,
e la
morte
dei
“Cinque
anarchici
della
Baracca”
ossia
Angelo
Casile,
Franco
Scordo,
Gianni
Aricò,
Annelise
Borth
e
Luigi
Lo
Celso,
vittime
di
un
misterioso
incidente
stradale
sulla
Salerno-Reggio,
all’altezza
di
Ferentino,
il
26
settembre
1970,
mentre
si
stanno
recando
a
Roma
per
consegnare
un
dossier
sulle
trame
neofasciste
in
Calabria.
Riferendosi
alla
scomparsa
di
Mauro
De
Mauro,
Giuseppe
Casarrubea
fa
notare
che
“probabilmente
(De
Mauro)
sa
le
stesse
verità
che
ad
un
certo
punto
Spampinato
riesce
ad
agganciare,
muovendosi
con
frenesia
per
arrivare
alla
costruzione
del
mosaico.
E lo
fa
in
un’area
ritenuta
immune
da
infiltrazioni
mafiose
o di
natura
terroristica,
con
un
apporto
certamente
originale
e
straordinario
nel
panorama
delle
conoscenze
storiche
di
quei
fenomeni
in
quell’area.”
Il
sospetto
è
che
i
due,
De
Mauro
e
Spampinato,
muoiano
per
aver
toccato
i
fili:
hanno
scoperto
qualcosa
di
grosso,
qualcosa
che
nessuno
doveva
conoscere,
ad
esempio
le
trame
di
un
colpo
di
Stato.
Quello
fallito
di
dicembre
(De
Mauro),
e un
altro
che
doveva
essere
attuato
successivamente
(Spampinato).
Quindi
i
due
omicidi
sono
o
sarebbero
collegati.
Ma,
mentre
oggi
dei
fatti
del
’70
si
sa
praticamente
tutto,
di
quelli
del
’72
nulla.
“Da
due
Archivi
di
grande
rilievo
–
scrive
ancora
Giuseppe
Casarrubea
-
distanti
fra
di
loro
diverse
migliaia
di
chilometri,
e
contenenti
documenti
scritti
da
soggetti
appartenenti
a
schieramenti
politici
diversi,
il
Kew
Gardens
britannico
e
l’Archivio
nazionale
dei
Servizi
di
Sicurezza
di
Budapest,
apprendiamo
che
nella
seconda
metà
degli
anni
Settanta
era
in
preparazione
in
Italia
un
colpo
di
Stato,
voluto
dalla
Nato
che
in
Sicilia
aveva
le
sue
principali
basi
strategiche
e
militari.
Non
c’è
dubbio
che
qualcosa
di
grosso
doveva
essere
accaduto.”
E su
questo
non
ci
piove.
E
proprio
questo ha
capito Giovanni
Spampinato.
Ancora
il 5
aprile
1972,
come
ricorda
il
fratello
Alberto,
Giovanni
“lanciò
l’allarme
(…)
ma
l’SOS
non
venne
raccolto.
Scelse
il
modo
e
l’indirizzo
sbagliati:
(…)
scrisse
di
suo
pugno
una
lettera
riservata
al
segretario
della
federazione
del
PCI
di
Ragusa,
la
chiuse
in
una
busta
e
gliela
consegnò
di
persona.”
Ma
la
lettera
finì
in
un
cassetto,
dimenticata.
La
tireranno
fuori
solo
dopo
l’omicidio.
Nella
lettera,
Giovanni
ricapitola
i
fatti
di
cui
è
venuto
a
conoscenza
e
afferma
che
“nella
Sicilia
sud-orientale
elementi
neofascisti
stanno
preparando
le
condizioni
per
una
grossa
provocazione
contro
la
classe
operaia
e le
sinistre
in
genere.”
In
quel
fatidico
1972
fascisti
locali,
ragusani,
siracusani,
catanesi,
e
fascisti
di
peso
sul
piano
nazionale
entrano
in
contatto.
Qualcosa
si
mette
a
punto.
Delle
Chiaie,
latitante
dal
luglio
’70,
viene
visto
il 6
marzo
‘72
a
Ragusa,
all’Hotel
Mediterraneo,
mentre
incontra
due
grossi
esponenti
del
neofascismo
siciliano,
Vittorio
Quintavalle,
ex
Decima
MAS
e
stretto
collaboratore
di
Borghese,
e il
deputato
missino
Salvatore
Cilìa;
strani
‘campi
archeologici’
gestiti
da
società
fantasma
vicine
all’estrema
destra
vengono
approntati
nel
catanese
e
nel
siracusano;
una
bomba
ad
alto
potenziale,
il
14
marzo,
devasta
la
sede
della
CGIL
di
Siracusa.
Poi,
nel
luglio
di
quello
stesso
anno,
viene
arrestato
Pierluigi
Concutelli.
Il
futuro
assassino
del
giudice
Occorsio
si
sta
esercitando
nel
campo
di
addestramento
clandestino
di
Menfi,
Agrigento,
non
lontano
dalla
provincia
iblea,
vicino
a
quella
palermitana.
Impossibile
che
operasse
all’insaputa
di
Cosa
Nostra.
Ma,
nel
frattempo,
accade
un
altro
fatto
inquietante.
Il 5
maggio
1972,
un
paio
di
giorni
prima
delle
elezioni
politiche,
a
Montagna
Longa,
presso
Cinisi,
territorio
di
Tano
Badalamenti,.
Si
verifica
uno
strano
incidente
aereo.
Perdono
la
vita
115
persone,
compresi
i
sette
membri
dell’equipaggio.
E vi
muoiono
persone
vicine
al
giornalista
ragusano.
Ne
conoscono
le
attività
e le
confidenze
più
nascoste.
Sono
Alberto
Scandone
che
lo
aveva
“reclutato”
all’Ora
nel
1969
e
Angela
Fais,
anche
lei
giornalista
e
sua
coetanea
con
la
quale
intratteneva
un’interessante
corrispondenza.
Inoltre,
tra
le
vittime
c’è
anche
Letterio
Maggiore,
medico
del
bandito
Giuliano,
solito
fare
la
spola
tra
Montelepre
e
gli
Usa,
molto
attivo
ancora
in
campo
politico,
anzi
anticomunista.
L’incidente
di
Montagna
Longa,
verificatosi
all’interno
di
uno
spazio
aereo
militare
impenetrabile,
immediatamente
classificato
come
‘disgrazia’,
in
realtà
è
stato
e
resta
un
mistero,
complice
la
coltre
di
silenzio
calatavi
sopra
troppo
in
fretta.
Infatti,
ad
esempio,
è
possibile
un
aereo
vada
a
schiantarsi
per
dare
la
precedenza
ad
un
altro
velivolo?
Non
pochi
dubbi
su
quello
strano
incidente
li
avrà,
nel
1977,
anche
il
vicequestore
di
Trapani
Giuseppe
Peri,
il
quale
invierà
alla
Procura
di
marsala
un
famoso
Rapporto
(il
c.d.
“Rapporto
Peri”,
appunto),
nel
quale
paleserà
alcune
perplessità
sulla
‘disgrazia’.
“Il
5-5-1972,
verso
le
22.30
–
scrive
Peri
- si
ebbe
la
tragedia
di
Montagna
Grande
con
la
morte
dei
118
(in
realtà,
115,
nda)
passeggeri
del
DC
9.
Non
è
convincente
per
lo
scrivente
che
sia
un
caso
fortuito
che
proprio
il 5
maggio
del
71 e
del
72
si
verifichino
rispettivamente
un
grave
duplice
omicidio
per
discreditare
l’Autorità
dello
Stato
ed
un
disastro
aereo
che
getta
nel
lutto
e
nell’angoscia
numerose
famiglie
generando
giudizi
perplessi
sulla
causa.
Ci
si
pone
il
dilemma:
attentato
o
disgrazia
causata
da
improvviso
guasto?
L’ipotesi
dell’attentato
è
corroborata
dalle
seguenti
circostanze
obiettive: —
quella
sera
era
l’ultimo
giorno
della
campagna
elettorale;
—
parecchi
cittadini
di
Carini,
mentre
erano
in
piazza
a
sentire
l’ultimo
comizio,
insolitamente
videro
un
aereo
che
sorvolava
la
zona
e,
come
scrisse
la
stampa,
già
in
fiamme;
— il
pilota
del
DC
9,
sorvolando
Punta
Raisi,
diede
la
precedenza
all’aereo
proveniente
da
Catania
ritardando,
pertanto,
di
10
minuti
l’atterraggio;
— i
cadaveri,
secondo
i
medici
legali,
si
presentavano
disintegrati,
cosa
che
non
avviene,
invece,
a
seguito
di
urti
violenti;
—
non
fu
identificata
la
118a
vittima.
Ammessa
l’ipotesi
che
anche
tale
disastro,
come
la
strage
del
treno
«Italicus»
ed
altre
stragi
del
Nord
attribuite
a
trame
eversive,
come
quella
di
Piazza
della
Loggia
a
Brescia
nel
giugno
del
1974,
di
Piazza
Fontana
a
Milano
nel
dicembre
del
1969,
sia
un
anello
della
«Strategia
della
tensione»,
si
deve
ammettere
che
l’attentatore,
in
possesso
di
una
carica
esplosiva
ad
orologeria,
non
voleva
di
certo
anche
la
sua
morte
e
approssimandosi
il
momento
del
contatto
delle
due
lancette
e,
quindi,
dell’esplosione,
non
si
autodenunziò
al
personale
di
bordo
per
ovviare
alla
deflagrazione
ed i
dieci
minuti
di
ritardo
dell’atterraggio
avrebbero
fatto
esplodere
la
carica
a
bordo.”
A
questo
punto,
Peri
tira
le
somme:
“Ne
discende
che
l’attentatore
non
avrebbe
voluto
anche
la
sua
morte
e
forse
nemmeno
la
strage
perché
ne
sarebbe
stato
coinvolto;
avrebbe
voluto
forse
il
danneggiamento
dell’aereo
già
atterrato
allorquando
tutti
i
passeggeri,
lui
compreso,
fossero
già
scesi
a
terra.”
Quindi,
potrebbe
essere
stato
un
incidente,
una
casualità
a
far
esplodere
anzitempo
la
bomba.
“La
distruzione
dell’aereo
in
questione,
già
atterrato,
abbandonato
dai
passeggeri,
sicuramente
attribuibile
ad
una
carica
esplosiva
ad
orologeria
ad
opera
del
criminale
rimasto
ignoto,
non
avrebbe
forse
discreditato
lo
Stato
fondato
su
Istituzioni
democratiche
alla
vigilia
delle
elezioni?
Essendosi,
invece
verificato
un
evento
diverso
non
voluto,
tale
scopo
è
stato
parzialmente
raggiunto
soprattutto
perché
sembra
essere
ancora
dubbia
la
causa
di
tale
disastro.”
Tra
l’altro,
nota
Peri,
se
si
fosse
trattato
di
un’avaria
agli
strumenti
di
bordo,
il
pilota
avrebbe
avuto
il
tempo,
anche
pochi
secondi,
per
segnalarle
a
terra
al
personale
di
assistenza
al
volo
della
torre
di
controllo
e ne
sarebbe
rimasta
traccia
nela
scatola
nera.
Invece
nulla
di
ciò
si è
verificato:
l’improvvisa
deflagrazione
lo
ha
colto
di
sorpresa.
E
conclude,
il
vicequestore,
ricordando
“che
tale
strage
avviene
qualche
giorno
prima
delle
elezioni
perché
altra
strage
di
tre
uomini,
rappresentanti
dello
Stato,
avviene
l’8-6-76
a
Genova
pure
pochi
giorni
prima
delle
elezioni.”
In
sostanza,
alla
fine
degli
anni
Sessanta-inizi
anni
Settanta
comincia
a
ripetersi
il
paradigma
della
seconda
metà
degli
anni
Quaranta:
gli
Usa
preparano
il
terreno
per
un
colpo
di
Stato
in
Italia,
da
attuarsi
nel
caso
l’avanzata
comunista
diventasse
inarrestabile
con
mezzi
democratici.
Naturalmente
trovando
appoggi,
cervelli
e
manovalanza
nell’estrema
destra
e
nei
servizi
segreti
deviati,
proprio
era
accaduto
in
Grecia
nel
‘67
e
sarebbe
accaduto
in
Turchia
nell’
’80.
Per
tornare
al
delitto,
Campria,
il 7
luglio
1975,
viene
condannato
in
primo
grado
a 21
anni
di
carcere
dalla
Corte
d’assise
di
Siracusa.
Gli
viene
riconosciuta
la
seminfermità
mentale.
La
condanna
viene
ridotta
a 14
anni
nel
processo
d’appello
svoltosi
a
Catania
nel
maggio
1977.
Motivo?
“La
menomazione
del
sistema
nervoso.”
In
quel
contesto,
il
PM
Tommaso
Auletta,
nella
sua
requisitoria,
dice
che
Giovanni
è
stato
“un
modello
di
intellettuale
da
cui
lo
stesso
Campria
era
irresistibilmente
attratto
(…).”
Un
giornalista
di
razza,
che
amava
il
suo
lavoro,
amava
informare
e
lottare
per
la
verità:
“Se
non
sono
questi
i
compiti
dei
giornalisti
–
chiosa
-
allora
si
possono
abolire
i
giornali.
Parlando
poi
dell’omicida
aggiunge:
“Altro
che
pazzo.
La
sua
intelligenza
è
superiore
alla
media
e il
suo
delitto
è
frutto
di
una
mente
lucida
e
criminale”
Secondo
il
Pm,
la
chiave
del
delitto
sta
nella
“paura
di
Campria,
il
quale
non
ha
sparato
per
tutto
quello
che
Spampinato
aveva
scritto,
ma
per
quanto
non
aveva
ancora
scritto
sulle
trame
dei
fascisti
e
suoi
pericolosi
traffici
nei
quali
erano
coinvolti
sia
Tumino
che
Campria.
Il
delitto
è
stato
una
prova
di
fedeltà
a
quel
mondo.”
Dopo
la
condanna,
Campria
viene
rinchiuso
nel
manicomio
criminale
di
Barcellona
Pozzo
di
Gotto,
da
cui
esce
solo
nel
1986.
Si
inventa
il
mestiere
di
falegname,
si
sposa,
ha
due
figli,
svolge
attività
di
volontariato
in
gruppi
di
assistenza
ai
tossicodipendenti,
muore
di
malattia
nel
2007,
poco
prima
che
il
presiedete
della
Repubblica
Giorgio
Napolitano
attribuisca
il
premio
Saint
Vincent
per
il
giornalismo
alla
memoria
di
Giovanni
Spampinato.
Eppure
la
sensazione
è
che
i
misteri
attorno
a
questa
storia
siano
ancora
tanti.
Tanti
e
molto
intricati.
Roberto
Campria,
al
momento
della
morte
non
rivela
nulla,
portandosi
gli
eventuali
segreti
nella
tomba.
Il
dolore
seminato
a
piene
mani
non
è
scomparso,
forse
il
tempo
l’ha
affievolito,
ma
le
cicatrici
restano.
Come
resta
la
perdita,
il
vuoto
creato
nel
seno
di
una
famiglia,
nel
cuore
della
verità
e
della
democrazia.
Tante
domande
restano
aperte.
Tanti
perché
in
cerca
di
risposte.
Oggi
esiste
un’associazione
“Noi
e
Giovanni”,
dedicata
al
giovane
giornalista
ragusano.
È
molto
attiva
nella
lotta
antimafia.
All’interno,
un
link
con
tutti
gli
scritti
di
Giovanni
e
uno
con
la
ricostruzione
della
sua
vicenda
umana.
E
poi
organizza
convegni
e
presentazione
di
libri,
intrattiene
rapporti
e
collegamenti
con
varie
riviste
e
associazioni
antimafia.
Così
si
fa
rivivere
Giovanni.
Lo
stesso
fanno
i
ragazzi
modicani
de
Il
Clandestino,
eredi
ideali
delle
battaglie
per
la
legalità
di
Spampinato,
i
quali
hanno
deciso
di
pubblicare,
ad
ogni
numero,
un
articolo
di
Giovanni,
come
se
fosse
vivo,
come
se
fosse
uno
di
loro.
Come
uno
di
noi.
Riferimenti
bibliografici:
Bonina,
Gianni,
Il
triangolo
della
morte.
Tumino,
Campria,
Spampinato,
Meridie,
1992
Mirone,
Luciano,
Gli
insabbiati.
Storie
di
giornalisti
uccisi
dalla
Mafia
e
sepolti
dall’Indifferenza,
Castelvecchi,
1999,
pp.
80-119
Cuzzola,
Fabio,
Cinque
anarchici
del
sud.
Una
storia
negata,
Città
del
Sole,
2001
Ruta,
Carlo,
Morte
a
Ragusa,
Edi.bi.si,
2004
Rossi,
Roberto
-
Schininà,
Daniele,
Il
caso
Spampinato.
Inchiesta
drammaturgica,
Centro
Studi
Feliciano
Rossitto,
2004
Di
Stefano,
Paolo,
Il
figlio
del
giudice
e
due
pistole
per
uccidere
il
giornalista
curioso,
Corriere
della
Sera,
1
giugno
2008
Spampinato,
Alberto,
C’erano
bei
cani
ma
molto
seri.
Storia
di
mio
fratello
Giovanni
ucciso
per
aver
scritto
troppo,
Ponte
alle
Grazie,
2009