N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
POSITIVISMO
E
ATTRIBUZIONI
PITTORICHE
GIOVANNI
Morelli
e il
riconoscimento
per
stereotipi
di
Federica
Campanelli
Nel
corso
del
XIX
secolo
l’Europa
è
progressivamente
attraversata
da
un’articolata
e
affascinante
corrente
culturale
che
vedrà
nascere
i
suoi
frutti
in
ogni
ramo
della
conoscenza.
È la
dottrina
della
fiducia
nel
progresso
scientifico,
dell’osservazione
e
della
sperimentazione,
nel
continuo
tentativo
di
applicare
i
suoi
principi
ovunque
fosse
presente
l’attività
intellettiva
umana
e
ciascuno
dei
suoi
campi.
Le
molte
valenze
del
Positivismo,
il
cui
germe
si
colloca
principalmente
con Auguste
Comte (1798-1857)
in
Francia
all’indomani
dei
tumulti
rivoluzionari,
conducono
al
mutare
delle
forme
più
importanti
di
comunicazione
ed
espressione
in
maniera
più
o
meno
diretta,
comunque
radicale.
In
questo
clima
rinnovato
e
fiducioso
si
forma
una
delle
personalità
più
importanti,
preziose
e
determinanti
per
lo
studio
e la
critica
d’arte
del
territorio
italiano
e
non
solo: Giovanni
Morelli.
Nato
nel
1816
a
Verona,
da
una
famiglia
di
origini
francesi,
Morelli
si
dedica
inizialmente
alla
Medicina,
specializzandosi
in
anatomia
comparata.
Abbandonerà
ben
presto
la
carriera
medica
per
dedicarsi
completamente
allo
studio
delle
opere
d’arte
e la
politica,
proclamandosi
fervente
sostenitore
del
Risorgimento.
Diviene
così
senatore
del
Regno
d'Italia.
La
carica
rivestita
gli
permette
di
svolgere
con
successo
un
notevole
progetto
di
ricerca
sul patrimonio
artistico
italiano,
impegnandosi
nel
contempo
contro
la
sua
dispersione
e le
illegittime
alienazioni.
A
questa
attività,
per
cui
Morelli
si
affianca
allo
storico
dell’arte Giovanni
Battista
Cavalcaselle (1819-1897)
si
deve,
tra
l’altro,
il censimento del
patrimonio
rinascimentale
marchigiano
e
umbro,
svolto
per
incarico
governativo
nella
primavera
del
1861
e le
successive
fondazioni
di
raccolte
pubbliche,
destinate
alle
amministrazioni
comunali,
comprendenti
le
opere
d'arte
mobili
più
significative
detenute
o
possedute
dagli
ordini
ecclesiastici
soppressi
e
per
ciò
in
pericolo
di
dispersione.
I Taccuini
manoscritti,
anticipo
del
rapporto
ufficiale
del
1861,
rappresentano
a
loro
volta
testimonianza
autentica
del
suo
lavoro.
Questi
sono
ricchi
di
appunti
e
osservazioni
tecniche
affiancate
da
pochi
ma
utili
schizzi
e
informazioni
sullo
stato
di
conservazione
delle
opere,
la
loro
ubicazione
e la
provenienza.
Ma
l’elemento
più
significativo
emergente
proprio
dal
tentativo
di
formulare
una
descrizione
sistematica
dei
dipinti
del
Rinascimento
marchigiano
e
umbro,
è il
mezzo
stesso
con
cui
tale
ricerca
viene
effettuata:
un
metodo
di
attribuzione
innovativo
e
personale,
per
tanto
definito
come morelliano.
Il
testo
formale
in
cui
Morelli
espone
ufficialmente
il
suo
metodo
di
attribuzione
è
Della
pittura
italiana,
scritto
in
lingua
tedesca
e
pubblicata
nel
1890
con
lo
pseudonimo Ivan
Lermolieff.
Volendo
dar
fiducia
a
Giovanni
Morelli
e
alla
sua
teoria
sui “motivi
sigla”,
l’identificazione
della
paternità
di
una
particolare
opera
dovrebbe
essere
largamente
facilitata,
poiché
effettivamente
tale
teoria
ha
rappresentato
un
utile
e schematico
sostegno
agli
studi
artistici.
Se
il
problema
“attribuzione”
non
dovesse
trovare
alcuna
soluzione
in
seguito
a
ordinarie
ricerche,
davvero
basterebbe
munirsi
di
lente
d’ingrandimento
e
focalizzare
quella
vastità
di
particolari
quasi
insignificanti,
piccoli,
silenziosi,
ignorati,
comunemente
marginali?
La
natura
positivista
del
lavoro
svolto
da
Morelli
rende
il
suo
metodo
apparentemente
semplice
e
schematico,
ma
di
fatto
non
lo
è:
secondo
il
metodo
morelliano
si
tenta
di
giungere
agli
automatismi
dell’artista,
cioè
l’antitesi
della
creatività.
Pure
forme,
prive
di
senso,
costantemente
proposte,
eludendo
ogni
sorta
di
speculazione
iconografia
e
iconologica.
Dal
primo
capitolo
del
lavoro
svolto
dallo
storico
e
critico
d'arte
di
origine
russa
Bernard Berenson (1865-1959)
Metodo
e
attribuzione,
ispirato
proprio
al
metodo
attributivo
di
Giovanni
Morelli
(strumento
considerato
da Berenson
stesso
“fondamentale”),
leggiamo
che
“… gli
elementi
necessari
allo
studio
storico
dell’arte
sono
di
tre
specie:
-I
documenti
contemporanei
all’opera
o
alle
opere
prese
in
esame.
-La
tradizione.
-Le
opere
in
sé…”.
È in
quest’ultima
categoria
che
rientra
l’analisi
dei motivi
sigla morelliani.
Scrive
ancora
Berenson
“i
soli
tipi
dei
volti,
le
composizioni,
i
raggruppamenti,
e il
tono
complessivo
classificano
il
quadro
come
appartenente
ad
una
particolare
bottega”:
dunque
un
certo
gruppo
di
pittori
che
presentano affinità,
rassomiglianze
e il
risultato
ottenuto
parrebbe
risolvere
in
parte
la
questione;
invece
la
complica
proprio
a
causa
delle
analogie
che
in
quanto
tali
sono ingannatrici.
Se
il
fine
ultimo
è la
precisa
attribuzione,
il
percorso
da
fare
è
esattamente
l’inverso:
guardare
l’opera
ancora
inattribuita
e
identificarne
le
“idiosincrasie”,
coglierne
le
differenze
rispetto
al
lavoro
degli
altri
,
gli
elementi
discriminanti.
Tali
elementi
sono
da
ricercarsi
nei
particolari
poco
o
per
nulla
necessari
alla
resa
espressiva
e
per
tanto
eseguiti
con
meno
coscienza.
Non
è la
ragione,
quale
supervisore,
a
guidare
l’autore
durante
la
loro
esecuzione,
piuttosto
il
suo
meccanicismo
psichico,
la
sua
spontaneità.
I
suoi
modelli
mentali,
ormai
sedimentati
nella
memoria,
vengono
convertiti
istintivamente
in
forme: stereotipi.
Studio
grafico
di
Giovanni
Morelli
su
mani
e
dita
di
alcuni
celebri
pittori
italiani.
[Galleria
Doria
Pamphilj,
Roma].
Paradossalmente,
sul
piano
psicanalitico
e
del
retroscena
culturale
questi
particolari
“secondari”
rappresenterebbero
una
rivelazione
molto
più
significativa
e
autentica
di
quanto
non
lo
fosse
una
meditata
e
impegnata struttura
compositiva, o
l’
altrettanto
meditata
realizzazione
di
uno
specifico volto, sentimento o moto
dell’anima dei
personaggi.
Sigmund
Freud ipotizza
una
sorta
di
parallelo
fra
il
metodo morelliano
e la
tecnica
psicoanalitica.
A
proposito
della
straordinaria unicità degli
stereotipi,
particolari
denominati
in
questa
sede morelliani, scrive
ancora
Berenson
“…
tanto
più
essi
appaiono
caratteristici:
a)
quanto
meno
servono
come
tramite
di
resa
espressiva;
b)
quanto
meno
attraggono
l’attenzione;
c)
quanto
meno
subiscono
il
controllo
della
moda;
d)
quanto
più
concedono
un
formarsi
d’abitudine
nella
pratica
esecutoria;
e)
quanto
più
sfuggono
all’imitazione
e
alla
copia…”.
Non
solo,
Berenson
presenta
una
sorta
di
gerarchia
dei motivi sigla:
“…
meglio
ci
servono:
le
orecchie,
le
mani,
le
pieghe,
il
paesaggio.
Meno
bene:
i
capelli,
gli
occhi,
il
naso,
la
bocca…”.
È
dunque
soprattutto
la
figura
umana
a
voler
essere
indagata
(reminiscenza
forse
degli
studi
di
anatomia?),
esaminandone
i
particolari,
individuandone
i
dettagli
istintivi,
caratteristici
della
mano
di
un
artista.
Tra
le
più
celebri
attribuzioni
dovute
a
Giovanni
Morelli
in
prima
persona,
secondo
il
suo
metodo,
ricordiamo
alcuni
ritratti
di Raffaello,
numerose
opere
di Dosso
Dossi
e Piero
di
Cosimo,
la
restituzione
dell’Apollo
e
Dafne e
della Venere
a Giorgione
e
altri
dipinti,
più
di
cinquanta,
conservati
nel Gemaeldegallerie
Alte
Meister nella
città
di
Dresda.