N. 65 - Maggio 2013
(XCVI)
sull’attualismo di giovanni Gentile
in principio fu la marxiana filosofia della praxis
di Salvatore Ragonesi
A
sessantotto
anni
dalla
morte
deve
essere
possibile
una
rilettura
serena
del
pensiero
di
Giovanni
Gentile,
a
prescindere
dai
suoi
vincoli
politici
con
il
fascismo
e
dall’adesione
finale
alla
Repubblica
di
Salò,
che
gli
costò
la
vita.
Bisogna
smantellare
adesso
ogni
pregiudizio
e
rivedere
filologicamente
il
discorso
non
tanto
della
sua
partecipazione
ai
fasti
del
regime,
quanto
dell’origine
e
dello
svolgimento
del
suo
pensiero
fortemente
radicato
nella
tradizione
storiografica
nazionale,
nel
movimento
dell’idealismo
tedesco
e,
soprattutto,
nella
marxiana
filosofia
della
praxis.
Oggi
gli
antichi
schemi
politicistici
non
reggono
più
ed è
necessario
perciò
un
diverso
lavoro
di
scavo
che
faccia
appello
a
tutte
le
risorse
conoscitive
per
un’attenta
rivisitazione
della
genesi
e
dello
sviluppo
di
quella
teorizzazione
filosofica
che
è
stata
parte
essenziale
della
storia
della
cultura
italiana
prima
ancora
che
il
fascismo
si
presentasse
alla
ribalta
della
politica
e
della
società
nazionale.
Il tema che propongo è l’attenzione
che
Giovanni
Gentile
rivolge
alla
praxis
e
che
ha
una
chiara
genesi
marxiana,
segnalata
in
verità
per
primo
da
Ugo
Spirito
in
anni
lontani
e
dallo
stesso
collegata
strutturalmente
alle
famose
“Tesi
su
Feuerbach”,
di
cui
peraltro
il
filosofo
siciliano
si
era
fatto
subito
traduttore
e
divulgatore,
provvedendo
alla
loro
pubblicazione
nel
paragrafo
sulla
“Critica
di
Marx
a
Feuerbach”
del
saggio
su
“La
filosofia
della
prassi”,
uno
dei
due
scritti(il
primo
è
titolato
“Una
critica
del
materialismo
storico”)
costituenti
il
volume
“La
filosofia
di
Marx”
edito
da
Spoerri
di
Pisa
nel
1899.
Dice
Spirito,
analizzando
in
particolare
il
secondo
saggio
di
più
profondo
interesse
teoretico
ed
ermeneutico:
“Nel
secondo
saggio
su
La
filosofia
della
prassi,
il
problema
si
allarga
e il
Gentile
procede
a
una
ricostruzione
sistematica
della
filosofia
di
Marx.
Qui l’assunto del primo saggio si
chiarisce
nei
particolari
e
Marx
è
portato
sul
piano
della
più
alta
tradizione
speculativa.
La
ricostruzione
è
condotta
principalmente
sulle
famose
undici
tesi
di
Marx
sulla
filosofia
di
Feuerbach
[...]
La
chiave
di
volta
di
questa
costruzione
filosofica,
osserva
il
Gentile
iniziando
uno
schizzo
del
nuovo
filosofare,
sta
nel
concetto
di
prassi.
Ecco,
dunque,
il
principio
fondamentale
che
ci
consente
di
comprendere
davvero
il
materialismo
storico.
Non
si
tratta
più
di
interpretare
il
mondo,
ma
di
cambiarlo,
perché
verum
et
factum
convertuntur”
(Ugo
Spirito,
“Gentile
e
Marx”,
in
“Giornale
Critico
della
filosofia
italiana”,
anno
XXVI,
gennaio-giugno
1947,
pp.
153-156).
L’essenza dell’originaria scoperta di Gentile sta dunque
nell’attribuzione
di
valore
fondativo
al
principio
della
praxis
di
estrazione
marxiana,
alla
quale
poi
il
filosofo
aggiunge
la
forte
soggettività
trascendentale
capace
di
alimentare
la
stessa
praxis,
di
rovesciarne
i
prodotti
e di
procedere
verso
la
costruzione
di
un
nuovo
mondo
sempre
in
via
di
trasformazione.
E qui è anche la vera genesi dell’attualismo che identifica
la
praxis
con
la
soggettività
trascendentale
e
con
il
processo
della
storicità,
che
si
svolge
nel
rovesciarsi
dialettico
dell’azione-pensiero
e
nel
suo
continuo
attuarsi
sotto
la
duplice
forma
di
pensiero
e di
azione.
Nel linguaggio neoidealistico di Gentile questa concezione
del
soggetto
trascendentale
si
esprime
nella
sua
esasperata
autoesaltazione:
“L’Io
che
è,
sì,
l’individuo,
ma
l’individuo
come
soggetto,
il
quale
non
ha
nulla
da
opporre
a se
stesso,
e
che
trova
tutto
in
sé;
e
perciò
è il
concetto
attuale
universale.
Orbene,
questo
Io,
che
è lo
stesso
assoluto,
è in
quanto
si
pone,
è
causa
sui.
Causando
se
stesso,
è il
creatore
di
sé
e,
in
sé,
del
mondo:
del
mondo
più
saldo
che
si
possa
pensare,
del
mondo
assoluto.
E
questo
mondo
è
l’oggetto
di
cui
parla
la
nostra
dottrina,
che
è
perciò
gnoseologica
in
quanto
metafisica”(G.
Gentile,
“Teoria
generale
dello
Spirito
come
atto
puro”,
quarta
edizione,
Laterza,
Bari
1924,
p.
224).
Nell’attualismo gentiliano il soggetto è un fare assoluto e
universale,
un
farsi
dell’universale,
un
atto
che
si
fa
conoscenza,
volontà,
libertà
e
moralità;
e
unità
pensante
e
agente
che
si
pone
continuamente
nel
suo
attuarsi
e
pensarsi.
Il
linguaggio
è
quello
dell’idealismo,
e
perciò
non
è
facile
valutare
la
portata
dell’influenza
di
Marx
su
Gentile;
ma,
se è
vero
che
l’attualismo
si
ricolloca
linguisticamente
all’interno
dell’idealismo
hegelo-fichtiano,
con
l’Io
che
ritrova
Dio,
lo
sostituisce
e lo
storicizza,
e
“sublima
così
davvero
il
mondo
in
una
teogonia
eterna,
che
si
adempie
nell’intimo
del
nostro
essere”(ibidem,
p.
239),
il
rapporto
con
la
praxis
di
estrazione
marxiana
è
altrettanto
indiscutibile;
e
permane
nel
fondo
dell’attualismo
un
ineludibile
richiamo
alla
sostanza
rivoluzionaria
marxista,
che
è
appunto
quel
decisivo
concetto
di
praxis
per
il
quale
la
vera
filosofia
non
è
quella
che
contempla
il
mondo,
ma
quella
che
entra
nel
terreno
pratico
della
sua
trasformazione:
“Non
è la
filosofia,
in
quanto
speculazione
del
reale,
che
entra
nel
giuoco
delle
forze
spirituali
operanti
nel
corpo
della
storia,
ma è
la
volontà,
o
meglio
quelle
volontà
che
soggettivamente
sono
state
trasformate
e
nuovamente
orientate
da
una
data
filosofia;
non
sono,
poniamo,
gli
elaboratori
del
materialismo
storico,
che
è un
concetto
speculativo,
ma i
compilatori
del
Manifesto
dei
Comunisti,
che
è un
atto
pratico”(G.
Gentile,
“Il
concetto
della
storia
della
filosofia”,
in
“La
riforma
della
dialettica
hegeliana”,
Principato,
Messina
1913,
p.
134).
Questa è la verità scoperta dal Marx giovane-rivoluzionario
e
questa
è
anche
la
posizione
di
Gentile
che
costruisce
il
suo
attualismo,
secondo
il
quale
“la
verità
non
è
spettacolo,
a
cui
tutti,
sol
che
ne
abbiano
un
capriccio,
possano
assistere.
No.
Essa
è
nostra
creazione,
nostra
conquista”(ibidem,
p.
135).
Che,
con
tutta
evidenza,
è
esattamente
la
traduzione
in
linguaggio
gentiliano
della
seconda
“Tesi
su
Feuerbach”
di
Carlo
Marx:
“La
questione
se
al
pensiero
umano
pervenga
la
verità
oggettiva
non
è
una
questione
teorica
ma
una
questione
pratica.
Nella
prassi
può
l’uomo
provare
la
verità,
cioè
la
realtà
e
potenza,
la
positività
del
proprio
pensiero.
La
discussione
sulla
realtà
o
irrealtà
d’un
pensiero,
che
si
isoli
dalla
prassi,
è
una
questione
puramente
scolastica”(C.
Marx,
“Tesi
su
Feuerbach”,
traduzione
italiana
a
cura
di
G.
Gentile,
in
“La
filosofia
di
Marx”,
Le
Lettere,
Firenze
2003,
p.
69).
Sulla base dell’interpretazione del giovane Marx, Gentile
riscopre
dunque
l’idealismo
tedesco
e
può
edificare
il
suo
attualismo.
Dice
ancora
Ugo
Spirito:
“Ecco
la
via
per
la
quale
si
incamminerà
il
Gentile
per
la
costruzione
del
suo
attualismo,
la
prassi
è
già
un
qualche
germe
dell’atto
puro.
La
chiave
d’oro
è la
stessa”(op.
cit.,
p.
161).
E la
predilezione
per
la
praxis
di
derivazione
marxiana
si
mantiene
costante
nel
filosofo
siciliano
dalla
giovanile
opera
su
Marx
alla
sua
riedizione
nel
1937
“per
corrispondere
all’insistente
desiderio
degli
studiosi”
e
riudire
“voci
che
non
si
sono
mai
spente
in
me e
qualche
cosa
di
fondamentale
in
cui
ancora
mi
riconosco
e in
cui
altri
forse
meglio
di
me
potrà
ravvisare
i
primi
germi
di
pensieri
maturati
più
tardi”(G.
Gentile,
“Avvertenza”,
in
“La
filosofia
di
Marx”,
cit.,
pp.
9-10).
Essa
perdura
fino
all’estremo
limite
di
quel
testamento
spirituale
che
è il
suo
ultimo
saggio
filosofico
“Genesi
e
struttura
della
società”,
scritto
di
getto
tra
l’agosto
e i
primi
di
settembre
del
1943
a
Troghi,
nei
pressi
di
Firenze,
pubblicato
nel
1946
dopo
la
tragica
morte
avvenuta
il
15
aprile
1944
e
che
attraversa
le
sue
opere
maggiori,
nelle
quali
si
esprime
più
compiutamente
l’elaborazione
sistematica
dell’attualismo.
L’interpretazione spiritiana del pensiero di Gentile è stata
contestata
da
Gennaro
Sasso,
e
appare
davvero
strano
che
uno
studioso
serio
e di
valore
come
lui
abbia
voluto
negare
continuità
e
profondità
all’interesse
gentiliano
per
la
praxis
marxista,
il
cui
studio
non
può
essere
sbocciato
all’improvviso
per
la
semplice
ambiziosa
volontà
di
partecipare
a un
prestigioso
dibattito
di
fine
Ottocento
o di
impartire
al
vecchio
Antonio
Labriola
una
sonora
lezione
di
storia
della
filosofia:
“Non
è
difficile
avvedersi
che
la
lezione
hegeliana
che
in
queste
pagine
Gentile
impartiva
a
Labriola
proseguiva
a
lungo.
Andava
oltre
e al
di
là
di
Hegel;
e
rischiava
a
tratti
di
trasformarsi,
addirittura,
in
una
lezione
di
filosofia
e di
storia
della
filosofia.
Così,
in
un
punto
della
trattazione,
non
senza
qualche
volontaria
o
involontaria
perfidia,
arrivò
a
obiettargli
che
non
vedeva
proprio
perché
si
dovesse
cercare
in
Engels
ciò
che
non
solo
da
Hegel,
ma
già
da
Eraclito
era
stato
affermato
e
chiarito”(G
Sasso,
“Giovanni
Gentile:
gli
scritti
su
Marx”,
in
“La
Cultura”,
anno
XXXV,
n.
1,
aprile
1977,
p.
77).
No, il marxismo della praxis è per Giovanni Gentile
una
filosofia
davvero
seria,
e
fornita
di
autonomia,
come
chiarisce
il
suo
più
acuto
allievo,
e
non
è
una
pura
“leggenda”
quella
di
voler
fare
di
questo
marxismo
un’autentica
metafisica,
una
filosofia
dell’azione
e
della
rivoluzione.
Sasso
alla
fine
ammette,
bontà
sua,
che
Gentile
traduce
le
“Tesi
su
Feuerbach”,
ma
egli
non
attribuisce
a
questa
operazione
di
traduzione
e
commento
alcun
effetto
che
possa
rappresentare
una
qualche
novità
non
contenuta
nel
suo
idealismo
reinterpretato
e
rivisitato
secondo
le
esigenze
attualistiche,
e
Marx
rimarrebbe
chiuso
nel
suo
alveo
non
riconducibile
neppure
lontanamente
a
quello
propriamente
hegeliano.
L’intelligenza critica di Sasso, insomma, ha voluto separare
nettamente
e
irrimediabilmente
destra
fascista
e
sinistra
marxista,
attribuendo
a
Gentile
una
sola
parentela,
quella
della
destra
hegelo-fichtiana.
Il prassismo attualista è invece figlio legittimo del giovane
Marx,
e
specialmente
delle
“Tesi
su
Feuerbach”,
nelle
quali
il
momento
più
pregnante
è
dato
proprio
dall’enfasi
sul
valore
della
praxis
umana
tesa
a
trasformare
il
mondo
e
sull’impossibilità
di
accedere
alla
filosofia
come
semplicistico
e
anacronistico
strumento
di
contemplazione
e
interpretazione
della
realtà,
come
recita
la
famosa
undicesima
“Tesi”
secondo
la
quale
“i
filosofi
hanno
solo
interpretato
il
mondo
in
modi
diversi;
ma
si
tratta
di
mutarlo”.
Perciò
ritengo
che
accanto
a
Hegel
vi
sia
la
presenza
del
giovane
Marx
nel
pensiero
gentiliano,
e
ciò
serve
a
riproporre
lo
stretto
legame
di
teoria
e
praxis,
con
una
praxis
che
è
immediatamente
teoria,
e
una
teoria
che
è
essa
stessa
praxis.
Diversamente
dalla
teoria
del
materialismo
storico,
affidato
soprattutto
ai
“Manoscritti
economico-filosofici”,
alla
“Ideologia
tedesca”,
alla
“Sacra
famiglia”,
ai
“Lineamenti
fondamentali
della
critica
all’economia
politica”
e
allo
stesso
“Capitale”,
scritti
che
intendono
fare
del
mondo
l’oggetto
della
comprensione
cognitiva;
nelle
“Tesi”,
nel
“Manifesto
del
partito
comunista”,
nel
“Programma
di
Gotha”,
nella
“Miseria
della
filosofia”
e in
altri
lavori
affini
impera
sovrana
la
praxis
rivoluzionaria
che
si
realizza
nella
dialettica
del
rovesciamento
e
nel
primato
della
volontà.
Gentile non vuole ripercorrere certamente il terreno marxista
della
lotta
di
classe
e
del
proletariato
rivoluzionario,
e
tanto
meno
quello
della
dittatura
del
partito,
e si
ferma
alla
fase
della
coscienza
rivoluzionaria
e
dell’azione
sovvertitrice
che
distrugge
e
ricostruisce
il
mondo
naturale
e
storico,
e
quindi
trasforma
la
lotta
di
classe
in
una
forte
tensione
etico-politica
e in
una
libera
capacità
creativa
e
costruttiva
di
nuovi
rapporti
sociali
e
umani.
A
lui
interessa
l’umanità
intera
e
non
il
solo
proletariato
rivoluzionario.
Non dovrebbe essere difficile a questo punto “riposizionare”
la
teoria
della
comunità
politica
e
del
lavoro-valore
di
quel
capolavoro
che
è
veramente
“Genesi
e
struttura
della
società”,
anch’essa
di
marxistica
tessitura,
nella
quale
esistono
tutti
gli
ingredienti
comunistici,
tranne
la
lotta
di
classe,
e si
ripropone
particolarmente
la
valorizzazione
della
prassi
lavorativa
quale
momento
fondamentale
per
la
trasformazione
della
natura,
la
liberazione
dell’uomo
e la
realizzazione
dell’autentica
comunità:
“All’umanesimo
della
cultura,
che
fu
pure
una
tappa
gloriosa
della
liberazione
dell’uomo,
succede
oggi
o
succederà
domani
l’umanesimo
del
lavoro.
Perché la creazione della grande industria e l’avanzata del
lavoratore
nella
scena
della
grande
storia,
ha
modificato
profondamente
il
concetto
moderno
della
cultura.
Che
era
cultura
dell’intelligenza
soprattutto
artistica
e
letteraria
[…]
Da
quando
lavora,
l’uomo
è
uomo
e
s’è
alzato
al
regno
dello
spirito,
dove
il
mondo
è
quello
che
egli
crea
pensando:
il
suo
mondo,
sé
stesso.
Ogni
lavoratore
è
faber
fortunae
suae,
anzi
faber
sui
ipsius
[...]
L’uomo
reale,
che
conta,
è
l’uomo
che
lavora,
e
secondo
il
suo
lavoro
vale
quello
che
vale.
Perché
è
vero
che
il
valore
è il
lavoro”
(G.
Gentile,
“Genesi
e
struttura
della
società”,
Sansoni,
Firenze
1946,
pp.
111-112).
Non si poteva assolutamente evitare la citazione, che riassume
molte
pagine
di
Gentile
e
che
non
ha
bisogno
di
tanti
commenti.
Si
può
solo
sottolineare
il
fatto
che
le
idee
ben
riconoscibili
sul
valore
del
lavoro
sono
di
stretto
conio
marxista,
anche
se
collegabili
concettualmente
per
qualche
aspetto
non
secondario
alla
“Fenomenologia
dello
Spirito”
di
Hegel.
L’attualismo della prassi è, dunque, filosofia della potenza
volitiva
illimitata
che,
se
demolisce
la
stabilità
dell’essere,
esalta
l’attività
incontenibile
del
soggetto
trascendentale
nel
suo
perenne
intervento
sulla
materia,
smaterializzandola.
I risultati di quest’attività sono sempre provvisori nel
flusso
inquieto
del
divenire,
che
non
placa
mai
la
propria
ansia
di
scorrimento
e
non
raggiunge
mai
la
sua
meta
finale.
Ciò
che
importa
stabilire
è
che
diventa
davvero
assurda,
e
contraddittoria,
la
teorizzazione
di
un
regime
“stabilmente”
dittatoriale
che
stritoli
e
fagociti
il
movimento.
I testi fondamentali dicono infatti che ci troviamo al cospetto
di
una
visione
essenzialmente
libertaria
che
esclude
qualsiasi
prospettiva
dogmaticamente
autoritaria
e
intende
quindi
garantire
la
dignità
e la
libertà
del
soggetto
trascendentale.
Lo Stato etico di tristissima memoria si trasforma così
nella
comunità
politica
dei
soggetti
che
tendono
a
perseguire,
dopo
l’alienazione
borghese,
la
loro
sovranità
nella
superiore
civiltà
del
lavoro.
Questa
è
l’idea
gentiliana
che
discende
per
logica
necessità
dallo
scritto
su
Marx
e
dalla
fondamentale
Prolusione
palermitana
del
1907
su
“Il
concetto
della
storia
della
filosofia”
poi
inserita,
come
s’è
visto,
ne
“La
riforma
della
dialettica
hegeliana”.