.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

contemporanea


N. 136 - Aprile 2019 (CLXVII)

Gentile, il lungo oblio

 La filosofia italiana scritta dai poeti

 di Gaetano Cellura

 

Nella primavera del 1944, davanti alla sua residenza fiorentina, Giovanni Gentile venne assassinato dai GAP di Bruno Fanciullacci e Giuseppe Martini. L’Unità, edita clandestinamente, diede così la notizia: «Il filosofo del fascismo è stato abbattuto dalla giustizia popolare. Mentre la stampa prostituita al nemico nazista ipocritamente si commuove sulla sua “nobile e pura” figura di educatore, gli intellettuali italiani, gli insegnanti e discepoli ricordano invece con disprezzo l’opera di corruzione della vita culturale compiuta da quest’uomo che del fascismo fu servo e manutengolo per vent’anni».

 

Si era in guerra, e nella tempesta della guerra civile, Gentile era un nemico che veniva ucciso, colui che, per l’Unità, aveva prostituito “la scienza all’ingiustizia e alla corruzione”: ma nessuna guerra, nessuna guerra civile, nessun settarismo ideologico possono giustificare parole così cariche di odio e di avversione nei riguardi di uno studioso indifeso che moriva a sessantanove anni – vecchio, stanco e forse anche disilluso – vittima della “civile” violenza antifascista.

 

Gentile aveva rinunciato alla scorta della Repubblica di Salò di cui dirigeva l’Accademia d’Italia. Fingendosi studenti, i partigiani si avvicinarono all’auto del filosofo e gli spararono.

 

All’organizzazione dell’omicidio, quel 15 aprile di settantacinque anni fa, partecipò Teresa Mattei, una delle nostre madri costituenti. La madre costituente vissuta più a lunga. Teresita o Chicchi, come la chiamavano, è morta nel 2013, a novantadue anni, e diede il suo contributo alla stesura dell’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge”.

 

È la donna che ha scelto la mimosa come simbolo dell’8 marzo: “perché – disse – è un fiore povero, facile da trovare nelle campagne”. Di Giovanni Gentile conosceva le abitudini e diede le informazioni utili per farlo fuori. Pare che Teresa Mattei si sia poi pentita di aver fatto la sua parte in quest’omicidio che divise il fronte antifascista.

 

Crollato il fascismo, una coltre d’oblio ha coperto per tanto tempo l’opera del filosofo siciliano. Siciliano di Castelvetrano. Un oblio sul quale il giudizio (o il pregiudizio) politico ha influito senza dubbio più del giudizio teoretico. Perché Gentile, nonostante l’adesione al fascismo avvenuta nel 1923, resta un grande filosofo del Novecento.

 

Fu amico di Benedetto Croce con cui collaborò fino al 1925, l’anno del manifesto e del contromanifesto degli intellettuali italiani pro e contro il fascismo e della definitiva rottura tra i due.

 

Ma cosa vedeva Gentile nel fascismo e perché vi aderì? Senza dubbio, come sostiene Denis Mack Smith, la “sua vanità fu solleticata quando il fascismo adottò il gergo filosofico del suo idealismo, imperniato sul concetto di atto puro”, ma nel fascismo Gentile vedeva (anche se oggi è facile dire con occhi miopi) qualcosa di esaltante, di grandioso e d’immenso: la rigenerazione morale e religiosa dell’intera civiltà italiana, la continuazione del “Risorgimento eroico, creatore di uno Stato moderno che è potenza politica, in quanto potenza economica e civiltà”.

 

Per dimostrare che esiste una continuità storica tra liberalismo e fascismo, Gentile opera una sottile e nello stesso tempo profonda distinzione tra il liberalismo democratico, parlamentare e individualistico che era stato abbattuto dal fascismo e il liberalismo di Cavour e Mazzini che riconosceva il primato dello Stato sull’individuo.

 

Autorità dello Stato e libertà dell’individuo. Concetti, questi, che riprenderà nell’ultima opera, Genesi e struttura della società, scritta tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 quando il destino del fascismo pareva ormai segnato.

 

La sua adorazione dello Stato etico sembra non avere limiti: sostiene Gentile che “in fondo all’Io” (cioè all’individuo) “c’è un Noi” (cioè lo Stato) che è lo scopo supremo cui deve tendere una comunità. Il ruolo che per Agostino aveva Dio nell’animo di ognuno, lo stesso ruolo assume lo Stato nei confronti dell’individuo.

 

Anche Croce, in un primo momento attratto dall’idea di uno Stato forte, aveva sostenuto che lo “Stato senza autorità non è uno Stato”, ma cambiò opinione dopo il delitto Matteotti, non appena si accorse della vera natura del fascismo. Gentile, al contrario, proseguì per la sua strada: per dimostrare, in polemica con il liberalismo ottocentesco, che un vero liberale non poteva non essere fascista.

 

Sono apparsi in questi anni degli studi che tendono a “riabilitare” la figura dell’ideologo principe del fascismo, che sostengono l’opportunità di disgiungere il suo pensiero dall’impegno politico e che considerano un errore, una grave lacuna il fatto che l’opera gentiliana sia stata così poco letta nel lungo dopoguerra.

 

Apprezzamenti per l’opera del filosofo siciliano sono venuti da Gennaro Sasso (Le due Italie di Giovanni Gentile) e da altri eminenti studiosi di area crociana. Come si può non leggere e condannare all’oblio la Storia della Filosofia italiana che venne pubblicata a dispense nella Storia dei generi letterari del Vallardi nel 1904?

 

Nelle pagine vallerdiane, Gentile fa iniziare da Dante e da Petrarca (che non sono filosofi ma poeti) la tradizione filosofica nazionale. In Dante, egli vede “il maestro della libertà italiana”, colui che consegna l’eredità della scolastica all’Italia dei tempi nuovi; in Petrarca colui che, attraverso la polemica “contro il formalismo aristotelico non meno che contro la miscredenza degli averroisti”, caratterizza una nuova visione della vita.

 

Gentile amplia il concetto di filosofia: rende invisibile il confine che separa i filosofi in senso stretto da poeti e scienziati, letterati e uomini d’azione. La storia della filosofia come storia, dunque, dell’intero pensiero nazionale. Di più: come storia dell’umanità. Federico II, Dante, Petrarca, Savonarola, gli umanisti, Campanella, Machiavelli, Vico, Alfieri, Leopardi e Manzoni: la storia speculativa inserita in un ricchissimo contesto culturale dal quale non bisogna separarla.

 

Questa bellissima opera, che contiene anche un interessante capitolo dedicato a Gino Capponi e alla cultura toscana del secolo decimonono, è stata per tanto tempo trascurata e posta nel dimenticatoio solo perché il suo autore era fascista, era stato fedele alle sue idee sino alla morte.

 

Gentile fu una colomba del regime mussoliniano. E questo revisionismo tardivo nei riguardi della sua opera va esteso anche all’uomo politico. Che dal regime, in certi momenti, seppe anche prendere le distanze. Non fu come lo descrisse l’Unità dandone la notizia della morte: un servo e un manutengolo del fascismo, un corruttore della vita culturale.

 

Durante la guerra civile lanciò un appello, onesto ma in quel momento velleitario, alla concordia nazionale. Marcello Veneziani scrive che del materialismo storico capì tanto la forza quanto la debolezza. Dove c’è il materialismo, diceva, non ci può essere la storia, che è attività spirituale.

 

Ministro della pubblica istruzione, commissario e poi direttore della Normale di Pisa, Giovanni Gentile, che dal 1925 al 1944 diresse anche l’Enciclopedia Italiana, sfruttò la sua carica per difendere sempre la cultura; e molti intellettuali antifascisti del dopoguerra si formarono alla sua scuola. Al fascismo e all’Italia diede, nel 1923, quella riforma della scuola, “risultato di studi seri, diligenti, controllati”, che Mussolini definì “la più fascista delle riforme” e che era, invece, una riforma liberale.

 

Commise degli errori, certo, scrivendo pagine di esaltazione dello stile fascista e del sistema corporativo e non ribellandosi a Mussolini quando disse che uno squadrista valeva quanto due filosofi. Ciononostante i suoi demeriti di uomo politico e di filosofo sono inferiori ai meriti.

 

Riguardo all’accusa di razzismo che ancora oggi gli viene mossa con insistenza, crediamo basti dire che ci sono prove (documentabili) e autorevoli testimonianze che dimostrano il contrario.

 

Il coraggio civile “è la ferma fedeltà alla propria coscienza, nel parlare od agire secondo i suoi dettami, assumendosi di fronte agli altri tutta la responsabilità”. Questo scrisse pochi mesi prima di essere ucciso.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.