N. 136 - Aprile 2019
(CLXVII)
Gentile, il lungo oblio
La
filosofia
italiana
scritta
dai
poeti
di
Gaetano
Cellura
Nella
primavera
del
1944,
davanti
alla
sua
residenza
fiorentina,
Giovanni
Gentile
venne
assassinato
dai
GAP
di
Bruno
Fanciullacci
e
Giuseppe
Martini.
L’Unità,
edita
clandestinamente,
diede
così
la
notizia:
«Il
filosofo
del
fascismo
è
stato
abbattuto
dalla
giustizia
popolare.
Mentre
la
stampa
prostituita
al
nemico
nazista
ipocritamente
si
commuove
sulla
sua
“nobile
e
pura”
figura
di
educatore,
gli
intellettuali
italiani,
gli
insegnanti
e
discepoli
ricordano
invece
con
disprezzo
l’opera
di
corruzione
della
vita
culturale
compiuta
da
quest’uomo
che
del
fascismo
fu
servo
e
manutengolo
per
vent’anni».
Si
era
in
guerra,
e
nella
tempesta
della
guerra
civile,
Gentile
era
un
nemico
che
veniva
ucciso,
colui
che,
per
l’Unità,
aveva
prostituito
“la
scienza
all’ingiustizia
e
alla
corruzione”:
ma
nessuna
guerra,
nessuna
guerra
civile,
nessun
settarismo
ideologico
possono
giustificare
parole
così
cariche
di
odio
e di
avversione
nei
riguardi
di
uno
studioso
indifeso
che
moriva
a
sessantanove
anni
–
vecchio,
stanco
e
forse
anche
disilluso
–
vittima
della
“civile”
violenza
antifascista.
Gentile
aveva
rinunciato
alla
scorta
della
Repubblica
di
Salò
di
cui
dirigeva
l’Accademia
d’Italia.
Fingendosi
studenti,
i
partigiani
si
avvicinarono
all’auto
del
filosofo
e
gli
spararono.
All’organizzazione
dell’omicidio,
quel
15
aprile
di
settantacinque
anni
fa,
partecipò
Teresa
Mattei,
una
delle
nostre
madri
costituenti.
La
madre
costituente
vissuta
più
a
lunga.
Teresita
o
Chicchi,
come
la
chiamavano,
è
morta
nel
2013,
a
novantadue
anni,
e
diede
il
suo
contributo
alla
stesura
dell’articolo
3
della
Costituzione:
“Tutti
i
cittadini
hanno
pari
dignità
sociale
e
sono
uguali
di
fronte
alla
legge”.
È la
donna
che
ha
scelto
la
mimosa
come
simbolo
dell’8
marzo:
“perché
–
disse
– è
un
fiore
povero,
facile
da
trovare
nelle
campagne”.
Di
Giovanni
Gentile
conosceva
le
abitudini
e
diede
le
informazioni
utili
per
farlo
fuori.
Pare
che
Teresa
Mattei
si
sia
poi
pentita
di
aver
fatto
la
sua
parte
in
quest’omicidio
che
divise
il
fronte
antifascista.
Crollato
il
fascismo,
una
coltre
d’oblio
ha
coperto
per
tanto
tempo
l’opera
del
filosofo
siciliano.
Siciliano
di
Castelvetrano.
Un
oblio
sul
quale
il
giudizio
(o
il
pregiudizio)
politico
ha
influito
senza
dubbio
più
del
giudizio
teoretico.
Perché
Gentile,
nonostante
l’adesione
al
fascismo
avvenuta
nel
1923,
resta
un
grande
filosofo
del
Novecento.
Fu
amico
di
Benedetto
Croce
con
cui
collaborò
fino
al
1925,
l’anno
del
manifesto
e
del
contromanifesto
degli
intellettuali
italiani
pro
e
contro
il
fascismo
e
della
definitiva
rottura
tra
i
due.
Ma
cosa
vedeva
Gentile
nel
fascismo
e
perché
vi
aderì?
Senza
dubbio,
come
sostiene
Denis
Mack
Smith,
la
“sua
vanità
fu
solleticata
quando
il
fascismo
adottò
il
gergo
filosofico
del
suo
idealismo,
imperniato
sul
concetto
di
atto
puro”,
ma
nel
fascismo
Gentile
vedeva
(anche
se
oggi
è
facile
dire
con
occhi
miopi)
qualcosa
di
esaltante,
di
grandioso
e
d’immenso:
la
rigenerazione
morale
e
religiosa
dell’intera
civiltà
italiana,
la
continuazione
del
“Risorgimento
eroico,
creatore
di
uno
Stato
moderno
che
è
potenza
politica,
in
quanto
potenza
economica
e
civiltà”.
Per
dimostrare
che
esiste
una
continuità
storica
tra
liberalismo
e
fascismo,
Gentile
opera
una
sottile
e
nello
stesso
tempo
profonda
distinzione
tra
il
liberalismo
democratico,
parlamentare
e
individualistico
che
era
stato
abbattuto
dal
fascismo
e il
liberalismo
di
Cavour
e
Mazzini
che
riconosceva
il
primato
dello
Stato
sull’individuo.
Autorità
dello
Stato
e
libertà
dell’individuo.
Concetti,
questi,
che
riprenderà
nell’ultima
opera,
Genesi
e
struttura
della
società,
scritta
tra
il
25
luglio
e
l’8
settembre
del
1943
quando
il
destino
del
fascismo
pareva
ormai
segnato.
La
sua
adorazione
dello
Stato
etico
sembra
non
avere
limiti:
sostiene
Gentile
che
“in
fondo
all’Io”
(cioè
all’individuo)
“c’è
un
Noi”
(cioè
lo
Stato)
che
è lo
scopo
supremo
cui
deve
tendere
una
comunità.
Il
ruolo
che
per
Agostino
aveva
Dio
nell’animo
di
ognuno,
lo
stesso
ruolo
assume
lo
Stato
nei
confronti
dell’individuo.
Anche
Croce,
in
un
primo
momento
attratto
dall’idea
di
uno
Stato
forte,
aveva
sostenuto
che
lo
“Stato
senza
autorità
non
è
uno
Stato”,
ma
cambiò
opinione
dopo
il
delitto
Matteotti,
non
appena
si
accorse
della
vera
natura
del
fascismo.
Gentile,
al
contrario,
proseguì
per
la
sua
strada:
per
dimostrare,
in
polemica
con
il
liberalismo
ottocentesco,
che
un
vero
liberale
non
poteva
non
essere
fascista.
Sono
apparsi
in
questi
anni
degli
studi
che
tendono
a
“riabilitare”
la
figura
dell’ideologo
principe
del
fascismo,
che
sostengono
l’opportunità
di
disgiungere
il
suo
pensiero
dall’impegno
politico
e
che
considerano
un
errore,
una
grave
lacuna
il
fatto
che
l’opera
gentiliana
sia
stata
così
poco
letta
nel
lungo
dopoguerra.
Apprezzamenti
per
l’opera
del
filosofo
siciliano
sono
venuti
da
Gennaro
Sasso
(Le
due
Italie
di
Giovanni
Gentile)
e da
altri
eminenti
studiosi
di
area
crociana.
Come
si
può
non
leggere
e
condannare
all’oblio
la
Storia
della
Filosofia
italiana
che
venne
pubblicata
a
dispense
nella
Storia
dei
generi
letterari
del
Vallardi
nel
1904?
Nelle
pagine
vallerdiane,
Gentile
fa
iniziare
da
Dante
e da
Petrarca
(che
non
sono
filosofi
ma
poeti)
la
tradizione
filosofica
nazionale.
In
Dante,
egli
vede
“il
maestro
della
libertà
italiana”,
colui
che
consegna
l’eredità
della
scolastica
all’Italia
dei
tempi
nuovi;
in
Petrarca
colui
che,
attraverso
la
polemica
“contro
il
formalismo
aristotelico
non
meno
che
contro
la
miscredenza
degli
averroisti”,
caratterizza
una
nuova
visione
della
vita.
Gentile
amplia
il
concetto
di
filosofia:
rende
invisibile
il
confine
che
separa
i
filosofi
in
senso
stretto
da
poeti
e
scienziati,
letterati
e
uomini
d’azione.
La
storia
della
filosofia
come
storia,
dunque,
dell’intero
pensiero
nazionale.
Di
più:
come
storia
dell’umanità.
Federico
II,
Dante,
Petrarca,
Savonarola,
gli
umanisti,
Campanella,
Machiavelli,
Vico,
Alfieri,
Leopardi
e
Manzoni:
la
storia
speculativa
inserita
in
un
ricchissimo
contesto
culturale
dal
quale
non
bisogna
separarla.
Questa
bellissima
opera,
che
contiene
anche
un
interessante
capitolo
dedicato
a
Gino
Capponi
e
alla
cultura
toscana
del
secolo
decimonono,
è
stata
per
tanto
tempo
trascurata
e
posta
nel
dimenticatoio
solo
perché
il
suo
autore
era
fascista,
era
stato
fedele
alle
sue
idee
sino
alla
morte.
Gentile
fu
una
colomba
del
regime
mussoliniano.
E
questo
revisionismo
tardivo
nei
riguardi
della
sua
opera
va
esteso
anche
all’uomo
politico.
Che
dal
regime,
in
certi
momenti,
seppe
anche
prendere
le
distanze.
Non
fu
come
lo
descrisse
l’Unità
dandone
la
notizia
della
morte:
un
servo
e un
manutengolo
del
fascismo,
un
corruttore
della
vita
culturale.
Durante
la
guerra
civile
lanciò
un
appello,
onesto
ma
in
quel
momento
velleitario,
alla
concordia
nazionale.
Marcello
Veneziani
scrive
che
del
materialismo
storico
capì
tanto
la
forza
quanto
la
debolezza.
Dove
c’è
il
materialismo,
diceva,
non
ci
può
essere
la
storia,
che
è
attività
spirituale.
Ministro
della
pubblica
istruzione,
commissario
e
poi
direttore
della
Normale
di
Pisa,
Giovanni
Gentile,
che
dal
1925
al
1944
diresse
anche
l’Enciclopedia
Italiana,
sfruttò
la
sua
carica
per
difendere
sempre
la
cultura;
e
molti
intellettuali
antifascisti
del
dopoguerra
si
formarono
alla
sua
scuola.
Al
fascismo
e
all’Italia
diede,
nel
1923,
quella
riforma
della
scuola,
“risultato
di
studi
seri,
diligenti,
controllati”,
che
Mussolini
definì
“la
più
fascista
delle
riforme”
e
che
era,
invece,
una
riforma
liberale.
Commise
degli
errori,
certo,
scrivendo
pagine
di
esaltazione
dello
stile
fascista
e
del
sistema
corporativo
e
non
ribellandosi
a
Mussolini
quando
disse
che
uno
squadrista
valeva
quanto
due
filosofi.
Ciononostante
i
suoi
demeriti
di
uomo
politico
e di
filosofo
sono
inferiori
ai
meriti.
Riguardo
all’accusa
di
razzismo
che
ancora
oggi
gli
viene
mossa
con
insistenza,
crediamo
basti
dire
che
ci
sono
prove
(documentabili)
e
autorevoli
testimonianze
che
dimostrano
il
contrario.
Il
coraggio
civile
“è
la
ferma
fedeltà
alla
propria
coscienza,
nel
parlare
od
agire
secondo
i
suoi
dettami,
assumendosi
di
fronte
agli
altri
tutta
la
responsabilità”.
Questo
scrisse
pochi
mesi
prima
di
essere
ucciso.