N. 19 -
Luglio 2009
(L)
GIOVANNI DELLE
bande nere
Vita e morte del Gran Diavolo
di Cristiano Zepponi
Il sei
aprile dell’anno 1498 venne alla luce il piccolo
Ludovico de’ Medici, figlio di "Giovanni di Giovanni
di Pierfrancesco de Medici, e di Caterina, figlia di
Galeazzo Sforza duca di Milano, padrona allora d'Imola e
di Furlì" .
Il
padre, Giovanni detto “Il popolano”, era nipote di
Lorenzo, discendente del ramo secondogenito della
celebre casata; la madre, invece, oltre a vantare la
discendenza milanese (che spiega anche la scelta del
nome, in onore di
Ludovico il Moro), era vedova di
Girolamo Riario (ucciso durante la congiura del 14
aprile 1488).
Il
piccolo fu tenuto per due anni nascosto al ramo
milanese, dato che lo zio materno, Ludovico Sforza,
aveva usurpato il ducato alla morte del fratello
Galeazzo.
La
sorte prese da subito a bersagliare il bambino: la morte
del padre, avvenuta nella notte tra il 14 ed il 15
dicembre di quell’anno, lasciò campo libero a Cesare
Borgia (il “Valentino” di machiavelliana memoria),
che a sua volta costrinse la madre Caterina a lasciare
Milano.
Fuggita a Firenze, decise di cambiare il nome del figlio
in Giovanni, in ricordo del padre.
A
Firenze, mentre il figlio cresceva nella villa di
Castello, Caterina tentò di impartirgli un’educazione
letteraria; ben presto, però, il giovane rivelò un
carattere orgoglioso, acceso e ribelle, ed una spiccata
predisposizione per mansioni considerate più virili:
"fiero di natura, poco apprezzando le lettere, volse
infino da' primi anni l'animo solo al cavalcare, al
notare e ad esercitarsi della persona in tutti quei modi
che al soldato convengono".
Ma
Giovanni era destinato a soffrire, ed a conoscere molto
presto la morte, fedele compagna di vita. All’età di
undici anni, il 28 maggio 1509, perse anche la madre,
rimanendo così completamente solo.
Fu suo
tutore da quel momento Jacopo Salviati, marito di
una delle figlie di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia. E
sembra che abbia avuto il suo bel daffare, se è vero che
il ragazzo si lanciava assai spesso in accesi duelli
personali, mettendosi così in luce nella città
d’adozione. Conobbe così il sangue, ed il furore dello
scontro.
Nel
1516 Giovanni sposò la figlia del suo tutore, Maria
di Giacomo Salviati, nipote per parte di madre di
Lorenzo il Magnifico; e da tale unione - che
vedeva riuniti i due rami della famiglia - nacque
Cosimo (poi Cosimo I, primo granduca di Toscana).
Tuttavia, visto che Firenze non garantiva grandi
possibilità di mettersi alla prova, il ragazzo decise di
trasferirsi ancora, stavolta a Roma, al seguito dello
zio di secondo grado, nel frattempo divenuto papa col
nome di Leone X de Medici, che fece anche da
padrino al bimbo in cui erano riposte le speranze di
successione legittima della famiglia Medici.
Dopo
aver rivelato anche nella “Città Eterna” le spiccate
capacità nel menar le mani, ebbe finalmente occasione di
affrontare il “battesimo del fuoco” nel mestiere delle
armi nel corso delle due guerre contro Francesco
Maria della Rovere duca d'Urbino, tra il 1516 ed il
1517. Al diciottenne Giovanni fu assegnato nel corso dei
primi scontri il comando di 100 cavalli "leggeri"
(turchi e spagnoli), con i quali si distinse per
l'ardimento e le azioni sul campo: nacquero allora,
quasi in sordina, quelle che sarebbero diventate le "Bande
Nere".
Durante la seconda guerra, inoltre, il contingente a sua
disposizione fu ulteriormente rafforzato, mentre
s’accresceva la fama di cui godeva, specie dopo esser
riuscito a sconfiggere la cavalleria leggera nemica, al
comando dell'albanese Andrea Bua (al quale sembra
avesse anche strappato la mazza, tenendola come trofeo).
Il
conflitto terminò nel corso del 1517, o per alcuni nel
1518. Ma comunque, dopo aver assaporato il fragore della
battaglia, Giovanni fu costretto dagli eventi ad
aspettare un periodo che dovette sembrargli
interminabile. Solo nel 1521, infatti, le nuvole di
guerra tornarono ad oscurare l’orizzonte.
“La
Francia, infatti, doveva cercare di rompere
l’accerchiamento dei domini asburgici, mentre da parte
imperiale si riteneva giunto il momento di strappare
all’avversario il Milanese e la Borgogna”. Quell’anno,
infatti, gli imperiali cacciarono i francesi da Milano e
la cavalleria leggera del Medici ebbe nuovamente modo di
mettersi in luce. L'imperatore aveva, infatti,
sottoscritto insieme a Papa Leone un'alleanza segreta,
la quale prevedeva l'acquisizione allo Stato Pontificio
di Lucca e Ferrara, e la restituzione di Parma e
Piacenza.
Di
nuovo, Giovanni guidò in battaglia la cavalleria
leggera; la sua perizia gli consentì in seguito di
ricevere la nomina di capitano e di riuscire a bloccare
le ripetute scorrerie francesi del "capitan Carbone"
(Thomas de Foix, signore di Lescun, o Jean de Monpezat,
entrambi soprannominati "Carbone") ai danni delle truppe
pontificio-imperiali.
Giovanni riuscì a proteggere le retrovie dell'esercito
imperiale, dal momento in cui era cominciata la ritirata
dall'accampamento posto tra Ribecco e Pontevico verso
Gabbioneta, nella fortezza di Pontevico.
L'esercito francese non seppe sfruttare questo
vantaggio, anche a causa, si disse, della testardaggine
di Odet de Foix, visconte di Lautrech e
maresciallo di Francia.
Le
truppe imperiali seppero invece approfittare della
disorganizzazione che dominava il campo francese e,
grazie all'iniziativa di Francesco Ferdinando
d'Avalos marchese di Pescara, attaccarono Milano
"ove si combattè per ore quattro con molta lode del
signor Giovanni”. Il ragazzo quindi continuò a
raccogliere consensi, nonostante si dimostrasse
decisamente irrequieto e spericolato nelle sue azioni,
senza rifiutare mai lo scontro col nemico. E dimostrò
questa caratteristica allorché i francesi, ritirandosi,
si acquartierarono su una sponde dell'Adda. Giovanni
accampò i soldati sulla riva opposta. Poi, dopo aver
organizzato alcune chiatte per trasportare i fanti al
comando del conte Paolo Onofrio di Montedoglio,
attraversò con i suoi cavalleggeri il fiume a nuoto,
attaccando immediatamente battaglia nell’attesa
dell'arrivo dei rinforzi. Dopo la fuga del nemico, potè
alfine entrare a Milano, evacuata dal nemico.
Ma non
prima di aver sconfitto e respinto anche i veneziani.
Giovanni conosceva l’arte della sorpresa, e l’importanza
della velocità. Rese lo sparuto numero di cavalieri al
suo comando un’unità d’elìte, capace di terrorizzare
l’avversario, e di apparire, inattesa e temuta, in ogni
angolo e settore dello schieramento avversario; ma
soprattutto, mostrò una spiccata capacità di innovare
tattiche e manovre delle proprie Bande, al punto che
alcuni studiosi ritengono oggi di potergli attribuire
l’invenzione dei “dragoni”, archibugeri a cavallo capaci
di combattere una volta smontati a terra (nonostante il
termine fosse coniato in epoca successiva, quando
conobbero grande diffusione, specie nell’esercito
francese).
La
compagnia di ventura ai suoi ordini, comunque, non
furono mai molto numerose: anche nei loro momenti
migliori non superarono le 4000 unità. A Caprino, contro
gli Svizzeri, combatterono 200 cavalieri pesanti, 300
leggeri e 3000 archibugieri, a Pavia 50 cavalieri
pesanti, 200 leggeri e circa 2000 fanti, a Governolo
Giovanni attaccò gli imperiali con 400 archibugieri, che
furono trasportati a cavallo sul campo di battaglia da
altrettanti cavalieri.
Le
Bande erano costituite quasi interamente da italiani,
per lo più toscani e romagnoli, con la probabile
aggiunta di lombardi durante il periodo di combattimenti
nell’Italia del nord. L’Appennino tosco-emiliano, in
particolare, forniva uomini che costavano relativamente
poco ed avanzavano, almeno all’inizio della carriera,
poche pretese.
Nel
1521, dunque, un altro avvenimento cambiò radicalmente
la situazione: improvvisamente venne a mancare papa
Leone X – sostituito dall’ex-precettore fiammingo di
Carlo V, designato nuovo pontefice col nome di
Adriano VI (1522-1523) - ed il legato pontificio
Giulio de' Medici (il futuro Clemente VII) si
allontanò da Milano insieme a Giovanni, suo cugino di
terzo grado. Da allora, si dice, i suoi armati presero a
chiamarsi "Bande Nere": da quando, cioè, decisero
di vestirsi in lutto perpetuo, tingendo le armature di
nero.
In
questo modo, inoltre, potevano nascondersi nel buio, e
assaltare di sorpresa.
La
morte prese per poco tempo il posto della guerra, nei
pensieri di Giovanni; presto, il "Gran Diavolo" fu
nominato generale della Repubblica di Firenze allo scopo
di respingere l'assalto a Siena del duca di Urbino. E
questi, prontamente, dovette abbandonare i suoi
progetti.
Il
ragazzo, è bene chiarirlo, risponderebbe oggi al nome di
mercenario. Un mercenario sì, combattivo e spietato,
coraggioso e brillante, ma pur sempre un mercenario. Un
uomo che sapeva tradire.
Indispettito da difficoltà connesse alle paghe dovute
dagli imperiali di Carlo V - e forse istigato in tal
verso dallo stesso cardinale Giulio de' Medici - mentre
si trovava a Fidenza con i suoi uomini, decise così di
passare al versante francese, accolto dall’incontenibile
sollievo di Francesco I, re di Francia, che
probabilmente ben conosceva tutti i problemi che le
Bande Nere avevano creato alle sue truppe. E le
motivazioni della scelta furono ben rinsaldate dalla
prodigalità dei nuovi committenti: "fu conchiusa la
condotta sua col re di Francia di quattro mila fanti,
quattrocento cavalli e otto mila scudi di provvisione,
con allegrezza grande de' francesi e de' soldati suoi".
Giovanni dovette imparare a conoscere gli aspetti più
meschini ed ignobili di quel mercato di morte che è la
guerra, quando, per unirsi ai francesi, dovette
attraversare il Pò, ed essendogli stati rifiutati
alloggio e vettovaglie nei pressi di Parma, terminò il
saccheggio di Busseto.
Giunto
a Pavia per ricongiungersi coi francesi, iniziò subito i
combattimenti; ma gli imperiali si dimostrarono un
avversario tenace, e per l'ennesima volta respinsero
l'esercito del Valois-Angouleme verso Milano, dove le
forze di entrambi gli schieramenti cominciarono a
prepararsi allo scontro presso la Bicocca –
avvenuto il 27 aprile.
Le
Bande uscirono per prime, quel giorno, per osservare i
movimenti del nemico.
E
questo fecero, per poi lanciarsi però all’assalto del
nemico. Riuscirono a far indietreggiare gli imperiali,
furiosamente; e poi, anche con l'aiuto del signore di
Lescun, arrivarono ad assaltare l'accampamento dello
stesso Prospero Colonna o, secondo altri, di
Antonio de Leyva (governatore di Milano e tra i più
fedeli generali dell'imperatore).
Ma gli
altri capitani francesi non eguagliarono questi
successi. Il nemico rimase sul campo, ed i francesi
dovettero ritirarsi; a coprirli, rimasero in
retroguardia le Bande di Giovanni.
Il
destino degli sventurati cui toccava la sorte di
mercenario era però ripetitivo, e non conosceva
bandiere. Come già nel campo tedesco, le paghe presero
ad esaurirsi, e continuarono a farlo; le truppe
cominciarono a protestare e mugugnare, nonostante per un
po’ sembrasse possibile placare le loro voci con le
promesse concilianti del monsignor di Lescun, che spesso
aveva combattuto al loro fianco e contemporaneamente
trattava la resa di Cremona con gli uomini di Carlo V.
Scoperto, dovette subire il contrattacco delle Bande,
che assunsero il controllo del territorio dopo aver
abbandonato il campo francese; e ne risultò "poca
provisione di danari e d'altro per nutrire le sue
genti”.
Le
“Bande Nere” sopravvissero, riuscendo a reperire gli
ingaggi, e tornarono subito alla guerra. Giovanni,
infatti, le guidò da Cremona a sostenere le ragioni
della sorellastra Bianca de' Rossi, figlia di
primo letto della madre. Dopo aver attraversato
rapidamente il Po’ attaccò il nemico, almeno "quattro
mila fanti, sei pezzi d'artiglieria e con buon numero di
cavagli" armati dai parenti della stessa Bianca allo
scopo probabile di appropriarsi dei suoi possedimenti.
Dopo aver sfondato la linea avversaria riuscirono a
catturare l'artiglieria, in seguito donata a Luigi
Gonzaga.
Ma
Francesco I era lungi dal ritenersi sconfitto, e già si
preparava ad una nuova discesa nella penisola, avvenuta
nel settembre 1523, allo scopo di riprendere Milano.
Il
condottiero fiorentino, nuovamente schierato nel campo
imperiale, si apprestò a difendere la città sforzesca. A
quanto pare, questa volta gli fu concesso molto di
quanto chiedeva, giacchè i francesi avevano schierato in
Italia un esercito forte più di trentamila uomini, col
chiaro scopo di lavare l'onta della precedente ritirata.
La condiscendenza alle richieste di Giovanni avvenne
anche, sembra, per insistenza del cardinale Giulio de'
Medici e dello stesso Francesco Sforza, Duca di Milano,
insediato dagli spagnoli nel 1522.
Durante l'assedio di Milano fu proprio Giovanni de'
Medici ad assicurare le vettovaglie necessarie alla
città grazie alle continue incursioni nel campo
francese, che rallentarono l'efficacia dell'assedio fino
al sopraggiungere dell'inverno e forzarono l'esercito
nemico, pressato anche dall’arrivo dei rinforzi
imperiali, a ritirarsi.
Nonostante la morte di Prospero Colonna (avvenuta il 30
dicembre 1523) ed il sopraggiungere di rinforzi dalla
Francia, le Bande medicee seguirono il marchese di
Pescara, tornato dalla Spagna, a Robecco, dove si
scontrarono con il capitan Baiardo (Pierre de Terrail,
signore di Bayard), rinomato cavaliere francese, con
pieno successo.
Ma il
"Gran Diavolo" tenne ancora una volta fede al suo
carattere, entrando in conflitto con il nuovo capitano
generale dell'imperatore in Italia, Charles de Lannoy,
vicerè di Napoli.
Nonostante ciò, l'esercito di Francesco di
Valois-Angouleme era ormai in ritirata, e gli imperiali
– insieme a Giovanni, nominato capitano generale dallo
Sforza, ed al marchese di Pescara - li intercettarono
sul fiume Sesia, dove inflissero loro una durissima
sconfitta, aggravata dalla morte dello stesso
cavalier Baiardo (il 30 aprile del 1524). Ma, per
fortuna dei francesi, l'inseguimento degli imperiali
esaurì la sua energia, anche perché Venezia aveva
proibito alle sue truppe di entrare in territorio
milanese, indebolendo sensibilmente gli inseguitori.
La
nuova tregua diede respiro a tutti i contendenti, ma non
al frenetico ed instancabile temperamento di Giovanni,
che in quello stesso 1524 ricevette in dono dal duca di
Milano Francesco II Sforza il feudo di Busto Arsizio e
altri territori nel lodigiano. Dopo aver comprato delle
proprietà ad Aulla (ne parlò anche Ariosto, in
alcune lettere risalenti al periodo in cui ricopriva il
ruolo di governatore estense della Garfagnana) entrò in
lite con dei marchesi locali, fino ad arrivare, come di
consueto, allo scontro armato. Alla fine, grazie
all’intervento dello stesso papa Clemente VII, Giovanni
fu allontanato da quelle terre in cambio del pagamento
di una forte somma di denaro e del controllo della città
di Fano; una soluzione adottata, forse, anche per
tenerlo lontano dagli affari fiorentini: si temeva,
infatti, un suo eccessivo interesse per la città
toscana, di nuovo sotto controllo papale dopo l'ascesa
della famiglia Medici al Soglio Pontificio.
Erano
anni, però, in cui tutto cambiava in fretta, e la guerra
andava e tornava, come le maree: Francesco I scese
nuovamente in Italia alla testa di un poderoso esercito
– formato da 30.000 uomini, per metà svizzeri - e, presa
di nuovo Milano, si apprestò ad assediare Pavia, difesa
da Antonio de Leyva e da seimila fanti tedeschi.
A
fermarlo, non c’era più la vecchia lega tra i maggiori
protagonisti della penisola e Carlo V; Roma e Venezia,
infatti, avevano firmato la pace con Francesco I,
convinte ormai dell’inevitabile successo del re. Lo
stesso dovette pensare Giovanni, che cambiò bandiera
un'altra volta, e corse a Pavia al comando di
quattromila fanti e quattrocento cavalleggeri per
combattere insieme ai francesi, persuaso anche da
"dodici mila scudi di piatto per la sua persona e
duecento cavalli per lo conte di San Secondo suo
nipote".
Il 24
febbraio 1525 si combattè dunque la battaglia di
Pavia, in cui l’orgogliosa cavalleria francese perse
rovinosamente lo scontro con la fanteria spagnola,
favorita dall’uso delle armi da fuoco. Il condottiero
mediceo, comunque, non partecipò allo scontro: alcuni
giorni prima era stato ferito da una archibugiata, e
dovette farsi curare; e chissà, altrimenti, come
sarebbero mutati gli eventi.
La
Francia aveva dunque perso, e lo stesso re Francesco era
caduto prigioniero.
Tradotto in Spagna, fu costretto – nel gennaio 1526 – a
firmare l’oneroso trattato di Madrid, in cui si
impegnava a rinunciare per sempre al Milanese, ed a
consegnare a Carlo V la Borgogna, per riacquistare la
libertà.
E
naturalmente, non si curò minimamente di mantenere le
promesse.
Già
nel maggio, infatti, fu stipulata a Cognac una Lega
difensiva tra Firenze, Venezia, Parigi ed il nuovo papa
Clemente VII, con l'intento di scacciare gli imperiali
dall'Italia.
L'esercito fu presto organizzato, e ne divenne capitano
generale provvisorio Francesco Maria della Rovere, duca
di Urbino, nonostante sopravvivesse una vana speranza di
convincere Alfonso d'Este, duca di Ferrara.
Nel
luglio 1526, dunque, nonostante l'assenza degli
svizzeri, Francesco Maria della Rovere tentò un assalto
a Milano, forse convinto che in città stesse per
scoppiare una rivolta; tuttavia, bloccato dalla decisa
resistenza opposta dagli imperiali, il 7 luglio ordinò
la ritirata che, avvenuta di notte, si trasformò quasi
in rotta.
L’unico che rifiutò di conformarsi alla fuga fu proprio
Giovanni, che iniziò a retrocedere con le sue Bande Nere
- in formazione ordinata - solo la mattina seguente.
Si
dispose allora l'assedio di Milano, allo scopo di far
cadere la città per fame; e il fulcro di questo piano
era costituito dalla cavalleria leggera, che dal Campo
trincerato di Casaretto poteva intercettare i
rifornimenti imperiali diretti verso la città. Le
scaramucce si fecero continue, e vi si distinse proprio
Giovanni che, per la sua eccessiva audacia, venne
stigmatizzato dallo stesso Guicciardini, conscio dei
danni derivanti da una sua eventuale perdita.
La
situazione rimase comunque molto dinamica, e, messo
momentaneamente fuori gioco nel settembre 1526
l’esercito pontificio – costretto infatti, dalla tregua
di quattro mesi che Clemente VII aveva dovuto firmare
coi Colonna – alleati di Carlo V - a ritirarsi oltre il
Po’, minando seriamente la riuscita dell'assedio che
contemporaneamente veniva portato anche contro Cremona -
le truppe della Lega in Lombardia si trovarono
improvvisamente in una situazione di estrema difficoltà.
Fu
Guicciardini che, tramite sotterfugi e temporeggiamenti,
cercò di ritardare il più possibile la ritirata delle
truppe e di fare in modo che Giovanni de' Medici
restasse sul campo, al soldo dei francesi. Ma anch’egli,
come la gran parte di coloro che sostenevano la bandiera
pontificia, era giunto al limite della sopportazione:
Roma, infatti, si era resa protagonista di una politica
tentennante, influenzata soprattutto dalla costante
penuria di denaro necessario per la paga delle truppe, e
seguitava solo a "dare parole", a "cercare el benefitio
del tempo" di machiavelliana memoria.
Giovanni si lamentò, inoltre, di non aver ricevuto alcun
beneficio, come accaduto ad altri capitani della Chiesa,
nonostante il suo comportamento in battaglia.
La
situazione era però destinata a precipitare di fronte
alla riscossa imperiale ed alla discesa da Trento di ben
dodicimila lanzichenecchi, quasi tutti di fede luterana,
agli ordini di Georg von Frundsberg. Accettando i
pareri del duca di Urbino e di Giovanni, ci si rese
conto che le truppe italiane non sarebbero state in
grado di fermare i Lanzichenecchi in una battaglia
campale e si risolse di adottare una tattica già
sperimentata: una serie di scorrerie e di scaramucce per
logorare i tedeschi, che nel frattempo si muovevano il
più velocemente possibile per passare il Po’ e
raggiungere gli spagnoli impegnati a Milano.
Per
questo, mentre Francesco Maria della Rovere rimase a
nord del Po’ (a protezione del Veneto) con la sua
cavalleria pesante, i cavalleggeri del Medici si
lanciarono velocemente all'inseguimento dei
Lanzichenecchi, tormentandone le retrovie.
Nell'arco di una manciata di giorni del mese di
novembre, nell’anno 1526, si consumò la tragedia finale
di Giovanni dalle Bande Nere.
Dopo
essere stato rallentato anche dalla mancata
collaborazione del marchese di Mantova, Federico Gonzaga,
che aveva serrato il passaggio alle truppe della Lega a
Curtatone la notte del 23 (mentre i Lanzichenecchi
avevano usufruito senza disturbo del transito), riuscì
ad intercettare il nemico il giorno seguente, a
Borgoforte sul Po’.
I
combattimenti, come di consueto, iniziarono subito, e
proseguono anche il 25. I fanti nordici resistettero ad
otto assalti delle Bande medicee, prima di impiegare a
sorpresa tre rivoluzionari pezzi d’artiglieria chiamati
falconetti e donati dal Duca di Ferrara, che aveva
definitivamente tradito la causa pontificia.
E fu
una di queste bocche da fuoco che ferì gravemente ad una
coscia Giovanni de' Medici, all'imbrunire del 25
novembre 1526.
Fu
subito portato nel letto di Luigi Gonzaga, a Mantova;
qui, il medico chiamò dieci uomini per tenerlo fermo.
Sorridendo, Giovanni gli rispose: "nemmeno venti mi
terrebbero", e da solo prese una lampada in mano, per
far luce all’amputazione della gamba, ormai divorata
dalla cancrena.
Nonostante questo, ed i numerosi salassi, morì la notte
tra il 29 ed il 30 novembre 1526.
Fu sepolto in armatura nera (visibile
oggi al museo Stibbert di Firenze), nella chiesa di San
Francesco.
Lo
piansero il Duca d'Urbino e tutti i capitani
confederati, e sembra che, allo spargersi della notizia
della sua morte, la maggior parte dei condottieri s’unì
in un appello universale affinché le armi da fuoco,
considerate una negazione dei valori cavallereschi, non
fossero più usate sui campi di battaglia; lo pianse lo
scrittore ed amico
Pietro
Aretino,
per il quale rimase un uomo generoso che concedeva ai
suoi soldati tutte le prede di guerra: nel suo campo,
durante i periodi di calma, montoni, agnelli, maiali,
vitelli e selvaggina rosolavano su grandi spiedi, mentre
lui giovane e turbolento, partecipava a tornei,
banchetti e feste, conteso dalle donne, nonostante la
sua fama di grande amatore, infedele ed incostante.
Ma
soprattutto, di lì a pochi mesi lo piansero gli abitanti
di Roma: dopo la sua morte, infatti, fallirono i
tentativi di arrestare la discesa dei Lanzichenecchi del
Frundsberg, che teneva appeso alla sella, si dice, un
cappio d’oro con cui impiccare il papa.
Ai
primi di maggio dell’anno 1527, questi arrivarono sotto
le mura della Città eterna, orfana del suo ultimo
difensore.
Riferimenti bibliografici:
DE'
ROSSI G.; "Vita di Giovanni de' Medici detto delle Bande
Nere"
TROSO
M.; "Italia! Italia! 1526-1530 La prima guerra di
indipendenza italiana"
DEL
NEGRO Pi.; "Guerra ed eserciti da Machiavelli a
Napoleone"
VANNUCCI M.; “Giovanni delle Bande Nere il 'Gran
diavolo'. Il tempo e l'esistenza di un uomo che ha avuto
breve vita e poi lunga fama”
SCALINI M.; “Giovanni delle Bande Nere”, Silvana 2002
CAPRA
C.; “Storia moderna”, Le Monnier Università 2008
Si
consiglia a chi volesse approfondire l’argomento la
visione del film “Il mestiere delle armi”, di E. Olmi
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