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MEDIEVALE


N. 23 - Novembre 2009 (LIV)

GIOVANNA D’ARCO
La vergine guerriera

di Cristiano Zepponi

 

Nonostante il lento ma inesorabile scorrere dei secoli, numerosi aspetti della figura di Giovanna d'Arco sono ancora incerti. Persino il nome.

Infatti, come ribadito da lei durante il processo, tutti, nel paese d’origine di Domrèmy (dipendente dal castello di Vaucouleurs, nel ducato di Bar, sulla riva sinistra della Mosa) l’avevano sempre chiamata Jeannette, fino all’arrivo in quella che allora poteva essere chiamata a buon diritto Francia (l’odierna parte centrale del Paese), ovvero gli scarni possedimenti dei re francesi, dove le fu attribuito il nome di Jeanne (italianizzato, Giovanna).

 

Il cognome, poi, comparso per la prima volta nel processo di riabilitazione del 1455, prima di fissarsi nel corso dell’ottocento nella forma universalmente nota, d’Arc, apparve nelle più svariate grafie: Dars, Dai, Day, Darx, Tarc, Tard, Dart, Tart. Probabilmente, quella scelta fu frutto di un tentativo di nobilitarne le origini, mentre, a detta di alcuni (F.Cardini, “G. D’Arco”, pag. 7), sarebbe preferibile Tart, considerando la pronuncia dura della regione di provenienza.

 

Comunque sia, Giovanna nacque intorno al 1412, si dice il giorno dell’Epifania, da Jacques e Isabelle Romèe. Aveva quattro fratelli, tre maschi (Jacques, Pierre e Jean) e una femmina (Catherine), i cui nomi esemplificavano perfettamente la devozione e l’impegno della famiglia nel pellegrinaggio, rappresentando i quattro maggiori santuari medievali (Santiago, Roma, Gerusalemme, Sinai). Le tradizioni che hanno voluto fornire alla ragazza nobili natali, o, al contrario, umili origini, sono smentite dalla constatazione del ruolo di “laboureurs” del padre, una sorta di piccolo proprietario terriero piuttosto agiato; inoltre, ci si interroga ancora sul supposto cognome della madre, Romèe, che potrebbe invece rivelarsi un appellativo che sottolinea con ancora maggior forza la tendenza della donna al “cammino” religioso (“romei” erano detti i pellegrini sull’omonima via, diretta a Roma).

 

Merita di essere segnalata, inoltre, la particolare situazione del paese d’origine: durante la guerra che attraversa l’esistenza della fanciulla, e che lei visse così intensamente, questo era sottoposto al sovrano legittimo di Francia, il “delfino” Carlo di Valois, spodestato nel trattato di Troyes dei diritti al trono, chiamato per dileggio “re di Bourges” vista la scarsa estensione dei suoi possedimenti; ma, al contempo, si poteva considerare una “marca”, una regione di frontiera, circondata com’era dai domini borgognoni (il vicino paese di Maxey apparteneva, infatti, agli avversari più detestati del re).

 

La fanciulla appariva particolarmente devota, capace nelle faccende domestiche, tranquilla, anche se, seguendo la norma del tempo, non sapeva leggere né scrivere, vista l’assoluta mancanza di scuole a Domrèmy. Viveva in un mondo di credenze, conoscenze per lo più tecniche e manuali, leggende, tradizioni locali: e proprio in contatto con gli antichi miti celtici va considerata l’abitudine folkloristica, comune anche a Giovanna ed ai suoi coetanei, di appendere ghirlande di fiori, nel mese di maggio, all’ “albero delle fate” nel paese, in seguito fonte d’ispirazione per il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare.

 

Nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, Giovanna udì per la prima volta le “voci”, secondo la tradizione nel “Bois Chenu”, il bosco “magico”, di gallica sacralità, poco lontano dall’abitato. Le apparve, sostenne lei, l’arcangelo Michele: una figura ricca di significati nella Francia del tempo, protettore effettivo dei francesi, che dava il nome a Saint-Michel-au-Pèril-de-la-Mer (oggi noto semplicemente come Mont-Saint-Michel), tra Bretagna e Normandia; la piazzaforte isolata dal mare e consacrata all’arcangelo che resisteva agli inglesi, e resisteva con valore. Si diceva che l’arcangelo in persona vi fosse apparso, in cielo, armato di spada per proteggere le genti di Francia; ma improbabili apparizioni divine non erano necessarie, per spiegarne la resistenza: le caratteristiche del terreno (solo per brevi periodi si collegava, come accade oggi, alla terraferma) ne garantivano, unitamente al valore dei difensori, la difesa, nonostante l’abbondanza di mezzi profusa dagli inglesi, l’impiego di una delle più temibili menti militari del tempo, ovvero William de la Pole conte di Suffolk, ed il passaggio al nemico dell’abate del monastero, Robert Jolivet.

 

“Come una freccia dall’alto scocca/vola veloce di bocca in bocca”; così si diffuse la notizia della resistenza della fortezza, e, forse, arrivò, alle orecchie di una fanciulla tredicenne, alle prese con un periodo magico e terribile, il passaggio all’età adulta, la tempesta ormonale, le prime perdite di sangue, anche se non manca chi sostiene che la ragazza soffrisse di disturbi mestruali, o addirittura ne fosse priva (ibid., pag. 38). Come Maria, allontanata dal Tempio dopo il primo ciclo, anche la fanciulla poteva esserne turbata; comunque sia, alla stessa età della Vergine ricevette una visita angelica, seppur differente nella sostanza. Le parlarono, più tardi, Margherita d’Antiochia e Caterina d’Alessandria. I contenuti erano impegnativi: la missione che Dio le assegnava era, nientemeno, che liberare la Francia.

 

Doveva quindi recarsi in “Francia” (le terre del Delfino), e liberare Orlèans, sentinella avanzata dei possedimenti reali lungo la Loira, sotto assedio inglese dall’ottobre del 1428.

 

D’altro canto, l’Europa pullulava di “profetesse”, spesso di umili origini, che arrivavano a trattare da pari a pari con i grandi del tempo, con sorti differenti: si pensi a Caterina da Siena, a Brigida di Svezia, a Orsolina Valerii, a Constance de Rabastens. Le “voci” di Giovanna non dovevano destare, quindi, reazioni esagerate: ma di certo un grande scalpore, specie in una comunità ridotta come quella di Domrèmy. Del caso si occupò allora Robert de Baudricourt, capitano della piazza; inizialmente consigliando di curarne i mali con la medicina degli schiaffi, forse assorbito da altre, più pressanti incombenze; solo nel gennaio del 1429 decise di darle ascolto, sicuramente spinto dal buon nome del padre di lei, Jacques: e rimase per lo meno turbato dal colloquio. La inviò quindi da Renato d’Angiò e dal duca di Lorena, suoi signori feudali, che però si tirarono indietro dalla faccenda.

 

Per questo, dopo averne richiesto l’autorizzazione, il capitano de Baudricourt la inviò direttamente, senza esitare, al Delfino, non prima che il parroco l’avesse accuratamente esorcizzata.

 

Jacques d’Arc sognava un incubo ricorrente, secondo alcuni, nel quale la piccola Giovanna abbandonava la casa paterna al seguito di un gruppo d’armati. Quello che il sogno poteva significare, è abbastanza ovvio, in quegli anni di miseria e conflitto. Ed il padre non esitava a dire che non avrebbe tardato un attimo ad annegare la fanciulla, con le sue stesse mani se necessario, o con quelle di un fratello, se ciò fosse avvenuto.

 

Il 22 febbraio, però, la ragazza, in abiti maschili, salì a cavallo, con una scorta di armati, e partì verso il castello di Chinon, distante seicento chilometri, residenza del “suo dolce delfino”, come lo chiamava lei; ed il vecchio Jacques non provò neanche a fermarla.

 

Nessuno sapeva come aveva imparato a cavalcare.

 

Il viaggio seguì sentieri secondari, snodandosi per gran parte in territorio borgognone, in pieno inverno, “quando i lupi si nutrono di vento” secondo un accompagnatore, Bernard de Poulengy. Il 6 marzo, una domenica, trecento cavalieri assistettero al suo ingresso nella sala grande del castello; il re, allora, le indicò alcuni cortigiani, per mettere alla prova le sue capacità, e verificarne la guida divina. Ma nonostante nulla lo caratterizzasse, né il suo volto fosse conosciuto fuori dalla corte, lei gli s’inginocchiò davanti, con decisione.

 

E quando lui le chiese un segno, si disse, lei rispose che glielo avrebbe dato, sì. Ma davanti alle mura di Orlèans.

 

C’è chi sostiene che Carlo avesse buon’occhio, e ne intuì il potenziale; per altri, la disperazione e lo sconforto per le ripetute sconfitte militari francesi (dagli esordi ad Azincourt fino alla sconfitta del 12 febbraio di quell’anno nel tentativo di liberare Orlèans) spinsero un re senza terra, figlio di padre impazzito, ad affidarsi a quell’ultimo appiglio di speranza, confuso groviglio di istanze religiose e patriottiche, in un tempo in cui l’idea di nazione distava ancora cinque secoli. Comunque sia, inviò la fanciulla nell’unica struttura universitaria di un certo livello ancora in funzione nei suoi territori, l’Università di Poitiers (nata nel 1422), dove la ragazza fu interrogata a lungo. Ne furono studiate, sembra per due settimane, a marzo, ortodossia, devozione, verginità, su cui ella montava il suo castello profetico.

 

Dinanzi ad una giuria di teologi, rispose a tutte le domande, a volte anche con humour, come quando un teologo di Limoges le chiese se le “voci” parlassero francese; “Meglio di voi”, lo liquidò Giovanna.

 

E poiché superò ogni prova, da quel momento divenne “la pulzella”, la Vergine.

 

Il maestro in teologia Jean Erault ricordò allora la profezia di una tale “Marie d’Avignon”: “Molte armi mi sono apparse; per un attimo, ho avuto paura di esser io a doverle portare. Mi fu detto però di non temere: erano destinate non già a me, bensì ad una fanciulla vergine che sarebbe venuta dopo di me e che avrebbe liberato il regno”.

 

E’ proprio questa, la sua grande novità; Giovanna non si accontentava di profetizzare.

“Gli uomini combatteranno e Dio donerà la vittoria”, disse. E lei, tra questi.

 

Lei stessa scelse lo stendardo, con Dio assiso sull’arcobaleno, affiancato da due angeli recanti tra le mani il giglio di Francia. Cristo era indicato con il trigramma IHS, d’origine francescana. La sua spada, da lei intravista durante una visione, conficcata nella terra (con singolare richiamo al ciclo bretone), e recuperata da un cavaliere appositamente inviato a Sainte-Catherine-de-Fierbois, recava incise cinque croci. Le venne inoltre fornita un’assistenza militare nella forma di un piccolo gruppo d’aiutanti, paggi, araldi. Alla fine d’aprile, seguendo un’abitudine dell’epoca, la ragazza inviò una lettera di sfida ai suoi avversari, ed in specie al re d’Inghilterra ed al reggente di Francia duca di Bedford, oltre che all’esercito occupante: “..rendete alla Pulzella, che è inviata da Dio, il Re del Cielo, le chiavi di tutte le città che avete preso e violato in Francia..”.

 

Da sei mesi Orlèans resisteva, e dai sei mesi le comunicazioni con l’esterno erano interrotte, eccetto attraverso la porta rivolta verso Gien. Giovanna vi entrò il 29 aprile. Il suo temperamento si impose nei confronti dell’effettivo comandante della città, Giovanni (figlio illegittimo del duca d’Orlèans), con cui entrò subito in conflitto, rimproverandogli eccessiva prudenza.

 

Il suo giudizio prevalse, e la notizia del suo arrivo rinforzò il morale dei difensori.

 

“Sgombrate il campo, nel nome del Signore e secondo la sua volontà”, aveva ingiunto agli inglesi; le rispose un coro di insulti, l’atmosfera si surriscaldò velocemente, e si narra di un breve ma feroce scontro verbale tra la fanciulla ed il comandante avversario, Glasdale, da lei soprannominato Glacidas, con ironico riferimento al gracidare delle rane. E proprio in un fiume poco distante, di lì a poco, quest’ultimo sarebbe affogato; allora cominciarono a chiamarla “strega”.

 

Il 4 maggio iniziò l’attacco francese, che, dopo la sosta per il giovedì dell’Ascensione, proseguì nei giorni seguenti. Giovanna fu ferita due volte, il 6 ed il 7, la prima volta al piede e la seconda al collo. Rifiutò ogni cura, eccetto un impacco d’olio e lardo, e ritornò a battersi.

 

L’8 maggio 1429, Orlèans fu liberata. La Francia tutta, alla notizia, esplose in un entusiasmo sincero, ed ammirato. La ragazza in armatura diceva il vero.

 

Ma Giovanna, la Pulzella, aveva le idee chiare. La liberazione di Orlèans era un segno, estremamente chiaro, del volere divino: l’incoronazione di Carlo di Valois come legittimo sovrano dei francesi, secondo la tradizione dei re franchi, nella cattedrale di Reims. Ci si è a lungo interrogati sulla funzione di questa richiesta: appare, in effetti, assolutamente superflua nel consacrare il ritrovato potere del re. Ma l’intima religiosità popolare tendeva a vedere nel re terrestre un riflesso del Cristo Re celeste; e tale, nelle menti più semplici, si poteva considerare solo chi seguiva l’antico rito del santo vescovo Remigio, solo chi cingeva la corona sull’altare della cattedrale.

 

Carlo era un uomo freddo, influenzabile, timoroso; pertanto, reputando di non avere niente da perdere, pensò di avere qualcosa da guadagnare, e accettò.

Per evitare di attraversare i domìni inglesi, ancora troppo solidi, si scelse un itinerario ad arco, passante per Auxerre, Troyes, lo Champagne. Ma l’arrivo di ingenti rinforzi inglesi, sotto il comando di John Talbot conte di Shrewsbury (meglio noto all’epoca come “Achille”) e di John Falstolf (il “Falstaff” shakespeariano delle “Allegre comari di Windsor”..) costrinse ad una revisione dei piani: prima occorreva affrontare questo pericoloso avversario.

 

Il nuovo comandante dell’armata del Delfino, Giovanni II duca d’Alençon, aveva allora ventun’anni; e si disse, allora, che tra i due si manifestò subito una certa simpatia, nonostante la moglie di lui. D’altra parte, le malelingue non mancavano, ed il successo della fanciulla ispirava, come sempre accade, non poche antipatie a corte. Ma, di certo, Giovanna prese a chiamarlo “il bel duca”, e questi ricambiò donandole un cavallo, nero, bellissimo. L’intesa tra questi due giovani, casta o meno, divenne perfetta: l’armata- forte di 600 “lance”, cavalieri pesanti, e numerose compagnie di ventura- prese ai primi di agosto Jargeau, dove la Pulzella fu di nuovo ferita alla testa da una pietra, ma ebbe il tempo di salvare la vita del suo comandante.

 

Gli urlava, in mezzo alla mischia, “Gentile duca, hai forse paura? Non sai che ho promesso a tua moglie di portarti indietro sano e salvo?”, mostrando, al solito, ironia e sfrontatezza.

 

I difensori della fortezza furono massacrati, tutti.

 

Caddero poi Meung-sur-Loire, il 15 giugno, e Beaugency il 16. Infine, per la prima e unica volta, Giovanna conobbe l’ebbrezza della vittoria sul campo. A Patay, finalmente, Azincourt fu vendicata: Talbot e Falstolf caddero prigionieri, sul campo rimasero, per alcuni, diecimila inglesi (ibid., pag. 67). La strada per Reims era aperta.

 

Il ruolo di Giovanna in battaglia, per la verità, appare ancora oggi poco chiaro. Seppur portatrice di uno stendardo, ovvero, in ogni caso, di un simbolo di comando, le fu sempre precluso, dopo Orlèans, un ruolo di guida. La sua funzione era, indubbiamente, psicologica: il morale dell’esercito cresceva a dismisura alla sua sola vista. In più, mostrava una particolare, e misteriosa, conoscenza delle tecniche d’assedio, appariva eccellente nel cavalcare e nel difendersi, era convinta sostenitrice, in ogni caso, dell’assalto. Ciononostante, al processo sostenne sempre di non aver ucciso nessuno, in vita sua. Ma la sua funzione di guida, d’ispiratrice di entusiasmo messianico, restano indubitabili.

 

La cavalcata per Reims cominciò a Gien, e durò venticinque giorni; la Pulzella ed il duca d’Alençon scortarono il loro re al battesimo. Giovanna invitò alla cerimonia anche il duca di Borgogna; questi non si premurò di risponderle, ma un suo tacito assenso sembra indiscutibile, visto l’appoggio offerto da molte sue città dello Champagne (Auxerre, Troyes, Chalons). In quei giorni, le fortune del re, e della sua Pulzella, toccarono lo zenith. Tutti volevano vederla, tutti volevano omaggiarla, i cavalieri stessi cercavano di apparirne degni. Alla sera del 16 luglio, l’armata arrivò alle porte di Reims. La mattina seguente, dopo aver prelevato la Santa Ampolla (secondo la leggenda, recata dagli angeli per il battesimo di Clodoveo), si svolse la cerimonia nella cattedrale; i “pari del regno” depositarono sul regio capo la corona, mentre Giovanna la Pulzella, imperterrita ed orgogliosa, rimaneva al fianco del Delfino, sventolando il suo bianco stendardo. Era il 17 luglio 1429.

 

L’incoronazione, per le genti di Francia, costituì un momento inebriante: e poiché quella era l’origine della ragazza, lei lo sapeva bene. Christine de Pizan arrivò a dedicarle versi nei quali la immaginava già alla conquista della Terrasanta, dopo aver ristabilito la pace in Europa; alcuni giurarono di aver visto il cielo attraversato da bianchi cavalieri alati, altri sostennero che Giovanna, appagata dalla cerimonia, si sarebbe presto ritirata. Ma le ragioni della politica, si sa, non procedono parallele a quelle delle aspettative popolari, e delle speranze. Per la prima volta, le idee della maggiore artefice del successo, e del maggiore beneficiario, cominciarono a divergere.

 

Probabilmente l’ispirazione le venne dalle “voci”, che fino a quel momento non le avevano mai mentito; ma fatto sta che i “falchi”, raccolti attorno alla Pulzella, proposero l’immediata prosecuzione dell’offensiva, stavolta in direzione di Parigi, che subiva pesantemente il fascino della “liberatrice”. L’ esercito era stato equipaggiato nel frattempo da banchieri dell’epoca, tra cui Jacques Coeur. Ma anche gli inglesi si prepararono con cura: fecero affluire dall’Inghilterra tremilacinquecento tra cavalieri ed arcieri, frettolosamente impiegati nonostante fossero stati organizzati per la crociata in Boemia, contro gli eretici hussiti; per la prima volta, dei crociati furono cioè impiegati contro la “soldatessa di Dio”, che però cominciava a suscitare forti perplessità nel mondo cristiano. Un’armata crociata poteva essere impiegata contro altri cristiani solo se questi fossero stati chiaramente eretici; e Giovanna, agli occhi di molti, si stava dimostrando sempre più pericolosa, e, quindi, sempre più demoniaca.

 

A Filippo di Borgogna fu affidato il governo di Parigi; e questi ricambiò appoggiando il suddetto esercito con settecento armigeri piccardi.

 

Nonostante sembrasse imminente una tregua con la Borgogna, la strada aperta verso Parigi spinse il novello re di Francia, ora Carlo VII, a tentare l’impresa. Tra Parigi e Compiègne, il 15 agosto di quell’anno, i due eserciti si incontrarono.

 

Ma fu una giornata particolare, e, un po’ per la riluttanza di entrambi gli schieramenti (gli inglesi temevano un altro rovescio, i francesi volevano soprattutto raggiungere Parigi), un po’ per le condizioni climatiche (caldo afoso, nebbia fitta), quello strano carosello di soldati che apparivano e scomparivano all’orizzonte terminò con un nulla di fatto.

 

A corte, il ministro La Trèmoïlle manteneva importanti rapporti, economici e politici, con la Borgogna. Il che non sarebbe stato così rilevante, se questi non fosse stato anche creditore nei confronti del re, che, contemporaneamente, doveva decidere di prendere o meno Parigi, come abbiamo visto amministrata, con acuta mossa diplomatica, da Filippo di Borgogna: ogni attacco alla città avrebbe insomma annullato ogni possibilità di giungere ad un accomodamento con il potente vicino borgognone, rappresentando un atto di aperta ostilità. Ed oltre al ministro in molti, a palazzo, puntavano proprio ad una tregua.

 

Tra questi ed il loro obiettivo, restava solo un’incognita: Giovanna.

 

Parigi, a dire il vero, non avrebbe mai aperto le porte alla Pulzella, stretta com’era in un forte lealismo nei confronti del duca di Borgogna e di Enrico, re di Francia e d’Inghilterra. Al tempo stesso un assalto di cristiani contro altri cristiani avrebbe rappresentato un evidente caso politico; ed una sconfitta sarebbe stata uno smacco al prestigio del neonato re Carlo.

 

Fu proprio ciò che accadde: l’attacco dell’8 settembre, Natività di Maria nel calendario cristiano, verso la Porta Saint-Honorè fallì, e Giovanna fu ferita ancora, da un colpo di balestra, alla coscia.

La Pulzella pretendeva che i suoi soldati mantenessero, sempre, una condotta pura, in linea con i dettami evangelici; ma, in questo caso, attaccare proprio quel giorno fu molto peggio di una sconfitta: fu un errore.

 

Il giorno dopo, re Carlo ordinò all’esercito di ritirarsi a Saint-Denis. Giovanna aveva perso sul campo, e, quel ch’è peggio, a corte. L’armata venne sciolta.

 

Quel che ne rimaneva, dopo essere arretrato verso la Loira, fu impiegato, nell’inverno del 1429, contro Perrinet Gressart, pittoresca figura di brigante, capobanda, mercenario, che occupava all’epoca il Nivernais, saccheggiando i reali domini. Chiaramente, la Pulzella perdeva rapidamente potere, e quest­­o impiego, contro un avversario trascurabile, ne era testimonianza. Nondimeno, il bandito seppe darle filo da torcere, resistendo a La Charitè-sur-Loire con tanta efficacia da vanificare l’impiego, da parte reale, di una nuova, enorme bocca da fuoco, detta “La Bergère”. In quello stesso periodo, Giovanna continuò ad accumulare nemici: stavolta si tratta di una tale Catherine de La Rochelle, sedicente veggente con cui la ragazza era entrata in contatto tramite un francescano, Frate Richard. Ebbene, questa “profetessa” sosteneva di essere visitata, ogni notte, da una “dama bianca” (altre “voci”..) che insisteva affinché la Pulzella si recasse dal re, per portargli certi misteriosi tesori che l’ipotetica visione le avrebbe indicato. Ma Giovanna era caratterizzata, anche, da un’ironia tagliente, e, a tratti, sprezzante; dopo aver vegliato insieme per due notti, con esito scontato, le “suggerì” d’occuparsi di casa, marito e figli.

 

Ma Catherine, evidentemente, sapeva coltivare il seme della vendetta, a lungo, se, più avanti nel tempo, arrivò a testimoniare contro di lei, dopo essere stata, a sua volta, arrestata.

 

L’attivismo febbrile che la caratterizzava, quasi intuendo la fugace avventura che avrebbe avuto in sorte, non accennava a placarsi; né lo placarono la patente di nobiltà concessa ai genitori con tanto di araldo, né l’esenzione di Domrèmy dalle tasse regie, né gli omaggi della sempre riconoscente cittadinanza di Orlèans, nel gennaio del 1430. Per ultimo, e più importante, non lo placava l’avvio della tregua con la Borgogna, che certo non favoriva un gesto di aperta ostilità come l’attacco a Parigi, ancora fedele al suo duca Filippo. Ma le voci dalla città parlavano di sordi malumori, e silenti complotti, e l’orecchio della fanciulla vi prestavano particolare attenzione. Se re Carlo si lasciava beffare dai borgognoni, che nel frattempo stavano occupando l’ Oise, fedele al re, occorreva forzargli la mano, e mostrargli il pericolo di un patto con la Borgogna.

 

Alla fine di marzo Giovanna lasciò Sully, con duecento mercenari piemontesi agli ordini di Bartolomeo Baretta. Passò per Melun e Lagny-sur-Marne (dove, pare, riportò un bambino in vita il tempo necessario per il battesimo: un miracolo abbastanza comune al tempo e chiamato in Francia “rèpit”, “tregua”), diretta verso Compiègne, assediata dai borgognoni. Qui prese Margny, una delle fortezze costruite dagli avversari per l’assedio: ma il loro contrattacco la colse sola, fuori dalle mura della città, che le si chiusero davanti. A Chinon, profeticamente, pare avesse detto: ”Durerò un anno, non di più”.

Venne catturata da Lionel de Wamdonne, luogotenente di Jean de Luxembourg conte di Ligny, vassallo borgognone, il 23 maggio dell’anno 1430, un martedì. 

 

Carlo VII, il suo “dolce re”, non provò ad intavolare una trattativa, né a liberarla in alcun modo, nonostante la sua corona dorata derivasse, in gran parte, da lei. Il granduca d’Occidente Filippo III di Borgogna, che si trovava a guerreggiare da quelle parti, volle incontrarla, per poi impegnarsi altrettanto decisamente a minimizzare gli effetti del colloquio, mostrando invece un certo fastidio per la ragazza. Il che, forse, non equivale a verità.

 

La corte di Carlo fece lo stesso: prese cioè a ridicolizzarla, a screditarla agli occhi della Francia, minimizzando il suo contributo (enorme, e ben più evidente di quelle misere manovre politiche) nella guerra; era, lei, il prodotto residuo di un periodo passato, e non più gradito, un contenitore usato, ed inutile, da riscattare oltretutto a peso d’oro: il gioco non valeva la candela, tanto valeva eliminarla dalle coscienze.

Il cancelliere del regno arrivò a sostenere che la fanciulla si era “perduta per la sua superbia”, e che era pronto a sostituirla un pastorello, “emulo”, proveniente dal Gevaudan. Rapidamente, l’Università di Parigi, il 26 maggio, chiese, in forma epistolare, che la ragazza fosse processata dall’Inquisitore di Francia, in quanto sospetta d’eresia.

 

Giovanna, in pratica, fu abbandonata da tutti, come sovente accade quando l’astro del successo comincia ad oscurarsi, ed il viale del declino si fa più prossimo. Per sei mesi fu sballottata, in prigionia, tra Piccardia, Artois, e Normandia; ma soprattutto, nella torre del castello di Beaurevoir.

Come accade con le fiere, catalizzò, da subito, un’enorme attenzione, specie nelle inedite vesti di prigioniera inerme. Figure di rilievo o meno volevano vederla, ora, docile ed immobile: tra questi, Isabella del Portogallo, consorte del duca di Borgogna, che pare ne rimase affascinata al punto da incedere in suo favore.

 

Come prevedibile, dato il carattere del soggetto, Giovanna tentò una rocambolesca fuga dalla torre, calandosi lungo la struttura, forse esasperata dalla separazione con il fratello, Pierre, e Jean d’Aulon, suo “attendente” ed amico; ma cadde, e si ferì seriamente. Non se lo sarebbe mai perdonato.

Tuttavia, la pena fu mitigata dall’amicizia di tre dame, Jeanne de Luxembourg, zia del suo vincitore, la moglie Jeanne de Bèthune, e la figlia, Jeanne de Bar, a lei accomunate da un sincero e spontaneo affetto, oltre che dall’omonimia.

                                                                                                      

Contro di lei, ufficialmente, si muoveva ormai l’Inquisizione, nella figura del vescovo di Beauvais Pierre Cauchon, che appare personaggio amletico, e complesso: un po’ collaborazionista, un po’ arrivista, forse sincero sostenitore del trattato di Troyes, e, quindi, del re d’Inghilterra e Francia, Enrico VI. A settembre la sua più influente alleata, Jeanne de Luxembourg, era passata a miglior vita; in più, l’Inghilterra mise sul piatto fiumi di denaro per ottenere la prigioniera, ovvero diecimila lire tornesi, oltre che l’influenza di Cauchon. Al principio di novembre, forse ad Arras, Giovanna passò in mani inglesi. Carlo VII osservò la vicenda, in silenzio.

 

Arrivò a Rouen il 23 dicembre di quel lungo 1430; il 9 gennaio, Pierre Cauchon aprì il processo, che si divideva in due fasi: “l’istruttoria”, fondata sulle testimonianze raccolte su una supposta cattiva fama della Pulzella, ed una “ordinaria”, con l’invito a pentirsi, o, se strettamente necessario, la tortura e la sentenza. La prima durò fino al 26 marzo, accompagnata dall’arrivo alla spicciolata della “corte”: un pubblico ministero (“promotore della causa”), Jean d’Estivet, un consigliere esaminatore, Jean de la Fontane, tre notai cancellieri, sei universitari parigini e una sessantina di prelati e avvocati come assessori, ed un secondo giudice, individuato dopo dinieghi e tentennamenti in Jean Le Maistre.

 

Giovanna conosceva la fama degli inglesi nel turpiloquio (erano chiamati Godon in terra francese, storpiando la bestemmia preferita oltremanica, “god damn”), ed ebbe modo di verificarla personalmente. Le dicevano che fosse una strega, oltre che una puttana, forse col preciso obiettivo di sfiancarne il morale. Pare fosse fatta oggetto di continue attenzioni da parte dei suoi carcerieri, ma nessuno sa se queste arrivarono allo stupro. Il che, peraltro, non stupirebbe.

 

Il duca di Bedford, reggente di Francia, fu il vero patrocinatore del processo, pur senza interventi diretti, e senza palesi irregolarità. Ma nella corte vi erano sue creature, né il profondo senso del processo va ricercato fuori dal quadro politico. Per quanto regolare a livello procedurale, questo rimaneva senza dubbio influenzato dalla volontà di colpire re Carlo attraverso colei che della sua incoronazione era stata artefice. Colpendo Giovanna, avrebbero delegittimato il re di Francia.

 

Nella prima fase, almeno, la Pulzella non rischiava la morte: sarebbe bastato ammettere l’eresia, e spogliarsi quindi dalle vesti sacre, per essere forse confinata in uno dei tanti monasteri che, purtroppo, adempivano a questo compito in tutto il continente. Ma Giovanna mostrava di credere alle sue “voci”, e le difendeva con successo, nonostante l’Europa del periodo cominciasse ad affrontare quella fase persecutoria, e bigotta, che va sotto il nome di “caccia alle streghe”: donne spesso sole, e vulnerabili, ree di essere state iniziate all’arte divinatoria.

 

A partire dal 21 febbraio la ragazza fu interrogata, sei volte in pubblico e altre in privato, nella sua cella, senza mai aver diritto ad un difensore, da alcune delle menti più esperte in campo teologico, quelle dell’Università di Parigi; non mostrò timore per la sua sorte, né, come lecito aspettarsi da una contadinella analfabeta, commise passi falsi nelle deposizioni: ed i dotti teologi, che facevano di tutto per nasconderlo, arrivarono a temerla, oltre che, almeno in parte, ammirarla. Le fu impedito di assistere alla messa, le sue gambe vennero incatenate, per impedirle di fuggire; la gloriosa Sorbona (l’ “autorità”) risentiva, evidentemente, dell’influenza di quel carisma che ora avrebbe dovuto giudicare.

 

Furono studiate le sue consuetudini religiose, le sue abitudini, le sue conoscenze; inoltre, fu svolta un’indagine nel suo paese natale, Domrèmy, soprattutto riguardo l’ “albero delle fate”, il “Bois Chenu” ed altri rimasugli di spiritualità celtica, che si rivelò favorevole all’accusata: ma questi verbali non figurarono tra gli atti.

 

 

Alle richieste di giuramento, rispose che l’avrebbe fatto, ma si riservò il diritto di tacere sugli argomenti che le “voci” non volevano fossero affrontati; alla domanda se gli inglesi fossero “nemici di Dio”, che non lo sapeva, ma in ogni caso avrebbero dovuto andarsene dalla Francia, e solo dopo i due regni, riconciliati, avrebbero potuto convivere, e organizzare una crociata; finché gli fu posta una difficile, ed acuta, domanda-trabocchetto:

“Giovanna, sei in grazia di Dio?” Avesse risposto ‘sì’, avrebbe peccato d’orgoglio; con un ’no’, avrebbe negato quello che, fin’allora, aveva rappresentato.

“Se non ci sono, Dio mi ci metta; se ci sono, mi ci mantenga”.

Da poco, e con difficoltà, aveva imparato a scrivere il suo nome.

Un altro punto controverso, cui i giudici si mostrarono particolarmente interessati, fu quello della sua fedeltà alla Chiesa: e lei rispose che era sì incondizionata, ma in primis rivolta alla Chiesa celeste (“Chiesa trionfante”) e solo dopo a quella terrestre (“Chiesa militante”), dei prelati e dei teologi.

 

Il suo naturale umorismo si manifestava spesso, sbeffeggiando domande particolareggiate: “I patroni celesti hanno i capelli?”, le chiesero, e lei, senza scomporsi, “E perché mai dovrebbero tagliarseli?”; o ancora, “Indossano delle vesti?” ”E che, si deve pensare che Dio non abbia di che vestirli?”. E, così, disorientava, sbalordiva, e innervosiva i suoi accusatori.

 

Forse, insieme a quello delle “voci”, l’altro punto sensibile era quello dell’abito maschile, ed i suoi avversari se ne accorsero presto: “La donna non vestirà abito d’uomo, né l’uomo abito di donna”, recitava infatti il Deutoronomio (22,5), “chi lo farà, sarà abominevole agli occhi di Dio”, e lo stesso doveva avvenire con i capelli, come ricordato con forza da Paolo di Tarso; oltre a ciò, la sua condotta andava a scontrarsi con la tendenza, nel periodo, a favorire una certa standardizzazione (e “corporazione”) del vestiario, in linea con la morale pubblica (almeno secondo la Chiesa), in base quindi al sesso ed al mestiere d’appartenenza. A peggiorare le cose, Giovanna, così abbigliata, aveva osato prendere i sacramenti, e quindi mostrarsi al cospetto di Dio. “Per quello che dipende da me, io non cambierò d’abito per fare la Comunione. Permettetemi di sentir messa in abito maschile: quest’abito non cambia la mia anima. Indossarlo non è contro la Chiesa!”, arrivò ad affermare con forza, alla fine della prima fase del processo.

 

La tecnica adottata nei colloqui era, in effetti, molto dura; accadeva fosse interrogata per ore, e spesso più volte al giorno, per accelerarne il crollo psicologico. Inoltre, l’interrogatorio prevedeva rapidi cenni su ogni argomento (i settantadue capi d’imputazione), cambiando continuamente discorso, affinché la ragazza cadesse in contraddizione, e potesse essere più facilmente appurata la sua fede eretica.

 

Gli inquisitori le chiesero, a più riprese, se avesse fatto benedire stendardo e armi (come d’altronde era tradizione, ed era probabile fosse accaduto), ma lei, forse per proteggere quei chierici, negò sempre. Tante volte gli inglesi erano fuggiti, in battaglia, alla sua vista, e quindi quegli strumenti dovevano, ai loro occhi, avere qualcosa di sacrilego. ”Perché lo stendardo è entrato all’incoronazione a Reims, prima degli altri capitani di guerra?”, le chiese il giudice, a marzo. ”Era stato alla pena; era ben giusto che stesse all’onore”. S’informarono su un supposto “segno” ricevuto a Chinon, all’inizio dell’avventura, gli rinfacciarono alcuni esempi di devozione nei suoi confronti avvenuti nel momento di maggiore successo, continuarono a sfiancarla raccogliendo indizi su presunti “sabba” avvenuti a Domrèmy. La sua resistenza, ogni giorno di più, s’indeboliva.

 

Possiamo, ora, anche ammettere che Giovanna d’Arco vivesse una religiosità ingenua, che fosse solo una pastorella analfabeta, che credesse che i vari santi parteggiassero per l’una o per l’altra parte nel conflitto: ma subì una pressione psicologica senza pari, e fu, a lungo, in grado di dominare la situazione. E ciò, comunque lo si valuti, ebbe dell’incredibile, ma non poteva durare.

 

Ed infatti, ad un certo punto, la ragazza parlò, chiarendo però che solo allora le voci l’avevano autorizzata a farlo: il “segno” di Chinon consisteva in un angelo, disceso, dall’alto, nel tardo pomeriggio di marzo o aprile del 1429, nella camera del Re. Qui- continuò- aveva portato all’arcivescovo di Reims, per consegnarla al Re, una corona aurea profumata. Questo, quindi, era il “segno”. E questa era la prova attesa da quel gigantesco apparato inquisitorio, che avrebbe potuto legittimare il proprio operato solo con un’ammissione di colpa: ma, in questo caso, lo sconcerto e la meraviglia, in tutti, furono inenarrabili.

 

Giovanna, quindi, era sfiancata, e lo dimostrava arrivando a minacciare i suoi avversari: “Voi dite d’esser mio giudice, e non so se lo siete. Ma fate attenzione a non giudicar male. Io ve ne avverto affinché, se Nostro Signore vi castigherà, io abbia fatto il mio dovere avvisandovi”.

 

Da sabato 17 a giovedì 22 marzo, gli inquirenti si riunirono per chiudere il “processo d’ufficio”, ed il 24 i verbali dell’interrogatorio furono letti alla prigioniera. Il 27 dello stesso mese, si aprì la seconda fase: il “processo ordinario”.

A questo punto le venne sottoposto l’elenco delle accuse, che contava settantadue punti: ma Giovanna lo rifiutò integralmente.

 

Il promotore Jean d’Estivet la apostrofava pesantemente, con accuse numerose e circostanziate: “incantatrice e indovina, falsa profetessa, invocatrice e scongiuratrice di malvagi spiriti, superstiziosa, dedita alle arti magiche, malpensante, scismatica, poco ferma e poco sicura nella fede, di fede sacrilega, idolatra, apostata, maldicente e malfacente, bestemmiatrice nei confronti di Dio e dei santi, scandalosa, sediziosa, turbatrice e osteggiatrice della pace, incitante alla guerra, crudelmente assetata di sangue umano e incitante a spanderne, del tutto dimentica e svergognata quanto alla decenza e al riserbo consoni al suo sesso, rivendicante spudoratamente l’uso dell’abito infame e dello stato degli uomini d’arme, per questo e per altri motivi ancora abominevole a Dio e agli uomini, prevaricatrice della legge divina, di quella naturale e della disciplina ecclesiastica, seduttrice di principi e di gente semplice […], usurpatrice dell’omaggio dovuto solo al culto divino, eretica o quanto meno fortemente sospetta d’eresia”.

Riassumendo, le accuse sono fondamentalmente le tre precedentemente trattate: la provenienza divina delle “voci”, l’abito maschile, il rifiuto dell’intermediazione della chiesa visibile nel rapporto con quella celeste.

 

Ad onor del vero, non tutti gli assessori approvarono il pamphlet di accuse; ed alcuni, con discrezione, arrivarono a contestare l’intero sistema processuale. Ma ormai gli eventi correvano, veloci, lungo un sentiero sgombro, e sarebbe servito ben altro, per fermarli.

 

Fino al 31 marzo, Sabato Santo, furono letti gli articoli; dal 2 al 5 aprile ci si tornò a riunire. Tuttavia, da settantadue, i capi d’accusa furono ridotti a dodici, per evitare eccessive ripetizioni, e forse anche per accelerare la sentenza. Gli articoli superstiti furono allora inviati al giudizio della Facoltà di teologia e di diritto canonico dell’Università di Parigi.

 

Nel frattempo, però, Giovanna, che tra auliche riflessioni ed incertezze teologiche continuava ad essere solo una ragazza, cedette, stavolta dal punto di vista fisico.

Lunedì 16 aprile, due giorni prima che si svolgesse una seduta per convincerla a confessare e pentirsi, la Pulzella visse un forte attacco febbrile, vomitando più volte: fu subito visitata da tre valenti medici, tra cui quello della duchessa di Bedford (Jean Tiphaine).

Giovanna sostenne che la causa del malessere fosse una carpa inviatele dal vescovo Cauchon; molti, subito, pensarono invece che avesse di nuovo tentato il suicidio. Il conte di Warwick sembrava preoccupato che la prigioniera potesse morire prima di essere adeguatamente punita; ma si dice che il governatore di Rouen si lasciò scappare che bisognava tenerla in vita per il rogo.

 

Per curarla, e per rinforzare la propria fama nel turpiloquio (era ironicamente chiamato Benedicite..), appena arrivato Jean d’Estivet, il suo accusatore, prese ad accusarla con forza, inveendo di fronte ad un avversario inerme.

La parola puttana, allora, risuonò più volte.

 

Ma Giovanna era giovane, e di buona tempra: si rimise in fretta.

 

Due giorni dopo, quindi, i lavori ripresero; due settimane dopo, fallita l’ ”esortazione” alla confessione, si procedette alla pubblica ammonizione.

Jean de Châtillon, maestro teologo e canonico di Evreux, lesse un sermone complesso, strutturato intorno ai sei peccati di cui la ragazza era considerata colpevole: orgoglio, indisciplina, indecenza, arroganza, ostinazione, impudenza. Se non si fosse pentita, la via era chiara, indicata da secoli di tradizione procedurale: il braccio secolare della giustizia terrena. La chiesa l’avrebbe dunque abbandonata, ed il suo destino sarebbe stato scontato. ”Rileggete le carte procedurali, la mia posizione vi è chiaramente esposta”, rispose alla proposta di correggere finalmente la sua condotta.

Il suo destino appariva segnato.

 

 

Il 9 maggio fu minacciata di tortura dai suoi giudici e dai numerosi assessori presenti; una consuetudine abbastanza diffusa, ed interpretata anche da chi ne faceva uso come un mezzo per indurre alla confessione, senza arrecare (per quanto possibile) danni irreparabili, ed abbreviare l’iter processuale: era, insomma, quasi una forma caritatevole di (dubbia) pietà. Ma non se ne fece nulla, forse perché le condizioni di Giovanna erano già abbastanza critiche, e si temeva per la sua salute; o forse perché la ragazza capì, e se ne difese con successo: “Anche se voi mi doveste straziare le membra e far uscire l’anima dal corpo, non vi direi niente. E se vi dicessi qualcosa, dichiarerei subito dopo che me l’avete fatta dire con la forza”.

 

Gli inglesi, che da una posizione defilata ma concreta attendevano una precisa conclusione, cominciarono a perdere la pazienza: Giovanna doveva confessare, a tutti i costi. E probabilmente, contro ogni moderna regola giuridica, il conte di Warwick, invitati a cena il 13 maggio il vescovo di Cauchon e altri, non mancò di farlo notare, con decisione.

 

I dottori di Rouen, riuniti, decisero il 19 di organizzare una pubblica cerimonia, in cui farla confessare. Era la sua ultima possibilità, fu sottolineato, di evitare il braccio secolare, e con esso il fuoco. Probabilmente, a spingere in questa direzione erano in questa fase coloro che avevano più a cuore la sua sorte: era nel suo interesse. E, dopo una pressione di questo tipo, probabilmente esausta nel corpo e nella mente, accettò di abiurare, il 24 maggio, in una cerimonia, organizzata in fretta e furia, al cimitero di Saint-Ouen.

                                                                                                        

Quel giorno, con (involontario?) sadismo, il magister Guillaume riprese il passo del Vangelo di Giovanni (15,1-6) sull’unità della chiesa: ”Io sono la vera vite, il Padre mio è il coltivatore. Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo getterò via.. Chi non rimane in me sarà gettato come tralcio e seccherà; e, raccolto, sarà buttato nel fuoco a bruciare..”.

Ed il rogo era lì, a ricordarlo.

 

Giovanna, affranta, ebbe solo un sussulto, sentendo nominare il suo re, ed esplose: “Non nominatelo, egli è buon cristiano!”. Il suo appello all’autorità del papa, benché perfettamente lecito, fu lasciato cadere. Un documento di poche righe, di abiura, le fu sottoposto. E la Pulzella, di fronte ad una vasta folla, che non voleva perdersi lo spettacolo, lo sottoscrisse, con mano incerta, forse sostenuta da qualcuno.

Secondo alcuni era stravolta al punto da non capire cosa accettava, per altri fu minacciata di finire immediatamente sul rogo, il notaio Manchon sostenne che, addirittura, rise.

 

Per altri ancora, tracciò un cerchio, simbolo sarcastico, che usava già da tempo per indicare i documenti indegni di considerazione.

 

Tra gli altri impegni assunti al momento dell’abiura, c’era quello, fondamentale, della rinuncia all’abito maschile. Nella prigione inglese dove fu portata, le furono recapitati abiti femminili, che indossò, per la prima volta da quando era apparsa nella scena politica.

Ma sulla cerimonia d’abiura, comunque, aleggiavano sinistri presagi: gli inglesi sembravano delusi di quella conclusione incruenta, che, comunque la si giudichi, aveva salvato la vita alla Pulzella. Sembravano irritati, in particolare, il conte di Warwick, il reggente di Francia duca di Bedford, gli inquisitori stessi. Nell’entourage del vescovo, a qualcuno scappò che non c’era da preoccuparsi, l’eretica sarebbe stata riacciuffata.

 

Forse, ma si tratta di sole supposizioni, l’epilogo, così desiderato dai suoi carcerieri, fu provocato dalla delusione di Giovanna, cui era stata promessa la consegna ad un istituto religioso, e non agli aguzzini inglesi; forse, semplicemente, era una decisione sofferta, ma meditata con calma; o magari gli abiti maschili, che permettevano la difesa della sua verginità, e che costituivano il segno visibile della sua chiamata, l’attraevano troppo per potervi rinunciare. Frate Martin Ladvenu sostenne di aver appreso da lei che un inglese aveva tentato di farle violenza, da cui l’abito virile l’avrebbe protetta; Jean Massieu, invece, si disse certo che tre giorni dopo la cerimonia, di domenica, i carcerieri le avessero lanciato in un sacco le sue vecchie vesti, privandola di quelle femminili.

E, d’altra parte, sembra davvero improbabile che un carcerato potesse godere della libertà di decidere il proprio vestiario.

 

Comunque sia, il 27 maggio, festa della Trinità, il vescovo di Beauvais fu informato della cosa: Giovanna era tornata a vestirsi con abiti maschili, dichiarandosi perciò recidiva; e la lex Iulia de maiestate era abbastanza chiara riguardo la sorte degli eretici impenitenti .

 

Interrogata, immediatamente, ritrattò la sua abiura: “Tutto quello che ho detto e ritrattato, l’ho fatto solo per paura del fuoco.. Non ho mai detto né inteso dir nulla per rinnegare le mie apparizioni, cioè che si trattava delle sante Margherita e Caterina.. di quello che stava scritto nella formula di ritrattazione, non ho capito una sola parola! E poi, proprio in quel momento, dissi che non intendevo ritrattare nulla, qualora dispiacesse a Dio..”. Pare che il vescovo, terminato l’interrogatorio, si sia rivolto scherzosamente agli inglesi presenti: “ Fare well”, disse mischiando le lingue, come per gioco, “state allegri, è fatta..”.

 

A posteriori, il clima di quei giorni concitati appare misterioso, e sospetto. Forse, questa conclusione andava bene a tutti- o quasi- e anche chi capì, o intuì soltanto, preferì tacere sulla sorte di una ragazza che ormai costituiva solo il giovane relitto di un tempo andato, e, peggio ancora, un ostacolo (eminentemente politico) sulla via della pace.

 

Qualche assessore suggerì di spiegare a Giovanna le conseguenze della sua azione, ma non c’era più tempo, o forse non c’era mai stato. La macchina della morte non tardò un secondo ad attivarsi, in fretta, furtivamente, come se non aspettasse altro che una fanciulla ventenne indossasse il “suo” abito. Non vi fu neanche un processo: non serviva più.

 

Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orlèans, fu accompagnata sul rogo il 30 maggio dell’anno 1431, nella pubblica piazza del Vieux- Marchè di Rouen.

Le venne permesso di confessarsi; ed un soldato inglese, per esaudire un suo desiderio, le fabbricò una croce, legando insieme due pezzetti di legno. Frate Isembard de la Pierre corse alla chiesa di Saint- Laurent, e vi prelevò una grande croce astile, che avvicinò al volto della giovane, in modo che, bruciando, potesse vederla.

 

Un secondo soldato inglese, che si rinfrescava in una taverna poco distante, disse di aver visto una colomba levarsi dal rogo che l’avvolgeva; un altro, accorso per alimentare le fiamme, s’arrestò di colpo, le mani a mezz’aria, sentendo la ragazza, avvolta dal fuoco, urlare più volte il nome di Gesù.

 

Nel 1456, una nuova sentenza dell’Inquisizione la dichiarò innocente.

 

Aveva diciannove anni.



 

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