N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
GIOVANNA D’ARCO
La vergine guerriera
di Cristiano Zepponi
Nonostante
il
lento
ma
inesorabile
scorrere
dei
secoli,
numerosi
aspetti
della
figura
di
Giovanna
d'Arco
sono
ancora incerti.
Persino
il
nome.
Infatti,
come
ribadito
da
lei
durante
il
processo,
tutti,
nel
paese
d’origine
di
Domrèmy
(dipendente
dal
castello
di
Vaucouleurs,
nel
ducato
di
Bar,
sulla
riva
sinistra
della
Mosa)
l’avevano
sempre
chiamata
Jeannette,
fino
all’arrivo
in
quella
che
allora
poteva
essere
chiamata
a
buon
diritto
Francia
(l’odierna
parte
centrale
del
Paese),
ovvero
gli
scarni
possedimenti
dei
re
francesi,
dove
le
fu
attribuito
il
nome
di
Jeanne
(italianizzato,
Giovanna).
Il
cognome,
poi,
comparso
per
la
prima
volta
nel
processo
di
riabilitazione
del
1455,
prima
di
fissarsi
nel
corso
dell’ottocento
nella
forma
universalmente
nota,
d’Arc,
apparve
nelle
più
svariate
grafie:
Dars,
Dai,
Day,
Darx,
Tarc,
Tard,
Dart,
Tart.
Probabilmente,
quella
scelta
fu
frutto
di
un
tentativo
di
nobilitarne
le
origini,
mentre,
a
detta
di
alcuni
(F.Cardini,
“G.
D’Arco”,
pag.
7),
sarebbe
preferibile
Tart,
considerando
la
pronuncia
dura
della
regione
di
provenienza.
Comunque
sia,
Giovanna
nacque
intorno
al
1412,
si
dice
il
giorno
dell’Epifania,
da
Jacques
e
Isabelle
Romèe.
Aveva
quattro
fratelli,
tre
maschi
(Jacques,
Pierre
e
Jean)
e
una
femmina
(Catherine),
i
cui
nomi
esemplificavano
perfettamente
la
devozione
e
l’impegno
della
famiglia
nel
pellegrinaggio,
rappresentando
i
quattro
maggiori
santuari
medievali
(Santiago,
Roma,
Gerusalemme,
Sinai).
Le
tradizioni
che
hanno
voluto
fornire
alla
ragazza
nobili
natali,
o,
al
contrario,
umili
origini,
sono
smentite
dalla
constatazione
del
ruolo
di
“laboureurs”
del
padre,
una
sorta
di
piccolo
proprietario
terriero
piuttosto
agiato;
inoltre,
ci
si
interroga
ancora
sul
supposto
cognome
della
madre,
Romèe,
che
potrebbe
invece
rivelarsi
un
appellativo
che
sottolinea
con
ancora
maggior
forza
la
tendenza
della
donna
al
“cammino”
religioso
(“romei”
erano
detti
i
pellegrini
sull’omonima
via,
diretta
a
Roma).
Merita
di
essere
segnalata,
inoltre,
la
particolare
situazione
del
paese
d’origine:
durante
la
guerra
che
attraversa
l’esistenza
della
fanciulla,
e
che
lei
visse
così
intensamente,
questo
era
sottoposto
al
sovrano
legittimo
di
Francia,
il
“delfino”
Carlo
di
Valois,
spodestato
nel
trattato
di
Troyes
dei
diritti
al
trono,
chiamato
per
dileggio
“re
di
Bourges”
vista
la
scarsa
estensione
dei
suoi
possedimenti;
ma,
al
contempo,
si
poteva
considerare
una
“marca”,
una
regione
di
frontiera,
circondata
com’era
dai
domini
borgognoni
(il
vicino
paese
di
Maxey
apparteneva,
infatti,
agli
avversari
più
detestati
del
re).
La
fanciulla
appariva
particolarmente
devota,
capace
nelle
faccende
domestiche,
tranquilla,
anche
se,
seguendo
la
norma
del
tempo,
non
sapeva
leggere
né
scrivere,
vista
l’assoluta
mancanza
di
scuole
a
Domrèmy.
Viveva
in
un
mondo
di
credenze,
conoscenze
per
lo
più
tecniche
e
manuali,
leggende,
tradizioni
locali:
e
proprio
in
contatto
con
gli
antichi
miti
celtici
va
considerata
l’abitudine
folkloristica,
comune
anche
a
Giovanna
ed
ai
suoi
coetanei,
di
appendere
ghirlande
di
fiori,
nel
mese
di
maggio,
all’
“albero
delle
fate”
nel
paese,
in
seguito
fonte
d’ispirazione
per
il
“Sogno
di
una
notte
di
mezza
estate”
di
Shakespeare.
Nell’estate
del
1425,
all’età
di
tredici
anni,
Giovanna
udì
per
la
prima
volta
le
“voci”,
secondo
la
tradizione
nel
“Bois
Chenu”,
il
bosco
“magico”,
di
gallica
sacralità,
poco
lontano
dall’abitato.
Le
apparve,
sostenne
lei,
l’arcangelo
Michele:
una
figura
ricca
di
significati
nella
Francia
del
tempo,
protettore
effettivo
dei
francesi,
che
dava
il
nome
a
Saint-Michel-au-Pèril-de-la-Mer
(oggi
noto
semplicemente
come
Mont-Saint-Michel),
tra
Bretagna
e
Normandia;
la
piazzaforte
isolata
dal
mare
e
consacrata
all’arcangelo
che
resisteva
agli
inglesi,
e
resisteva
con
valore.
Si
diceva
che
l’arcangelo
in
persona
vi
fosse
apparso,
in
cielo,
armato
di
spada
per
proteggere
le
genti
di
Francia;
ma
improbabili
apparizioni
divine
non
erano
necessarie,
per
spiegarne
la
resistenza:
le
caratteristiche
del
terreno
(solo
per
brevi
periodi
si
collegava,
come
accade
oggi,
alla
terraferma)
ne
garantivano,
unitamente
al
valore
dei
difensori,
la
difesa,
nonostante
l’abbondanza
di
mezzi
profusa
dagli
inglesi,
l’impiego
di
una
delle
più
temibili
menti
militari
del
tempo,
ovvero
William
de
la
Pole
conte
di
Suffolk,
ed
il
passaggio
al
nemico
dell’abate
del
monastero,
Robert
Jolivet.
“Come
una
freccia
dall’alto
scocca/vola
veloce
di
bocca
in
bocca”;
così
si
diffuse
la
notizia
della
resistenza
della
fortezza,
e,
forse,
arrivò,
alle
orecchie
di
una
fanciulla
tredicenne,
alle
prese
con
un
periodo
magico
e
terribile,
il
passaggio
all’età
adulta,
la
tempesta
ormonale,
le
prime
perdite
di
sangue,
anche
se
non
manca
chi
sostiene
che
la
ragazza
soffrisse
di
disturbi
mestruali,
o
addirittura
ne
fosse
priva
(ibid.,
pag.
38).
Come
Maria,
allontanata
dal
Tempio
dopo
il
primo
ciclo,
anche
la
fanciulla
poteva
esserne
turbata;
comunque
sia,
alla
stessa
età
della
Vergine
ricevette
una
visita
angelica,
seppur
differente
nella
sostanza.
Le
parlarono,
più
tardi,
Margherita
d’Antiochia
e
Caterina
d’Alessandria.
I
contenuti
erano
impegnativi:
la
missione
che
Dio
le
assegnava
era,
nientemeno,
che
liberare
la
Francia.
Doveva
quindi
recarsi
in
“Francia”
(le
terre
del
Delfino),
e
liberare
Orlèans,
sentinella
avanzata
dei
possedimenti
reali
lungo
la
Loira,
sotto
assedio
inglese
dall’ottobre
del
1428.
D’altro
canto,
l’Europa
pullulava
di
“profetesse”,
spesso
di
umili
origini,
che
arrivavano
a
trattare
da
pari
a
pari
con
i
grandi
del
tempo,
con
sorti
differenti:
si
pensi
a
Caterina
da
Siena,
a
Brigida
di
Svezia,
a
Orsolina
Valerii,
a
Constance
de
Rabastens.
Le
“voci”
di
Giovanna
non
dovevano
destare,
quindi,
reazioni
esagerate:
ma
di
certo
un
grande
scalpore,
specie
in
una
comunità
ridotta
come
quella
di
Domrèmy.
Del
caso
si
occupò
allora
Robert
de
Baudricourt,
capitano
della
piazza;
inizialmente
consigliando
di
curarne
i
mali
con
la
medicina
degli
schiaffi,
forse
assorbito
da
altre,
più
pressanti
incombenze;
solo
nel
gennaio
del
1429
decise
di
darle
ascolto,
sicuramente
spinto
dal
buon
nome
del
padre
di
lei,
Jacques:
e
rimase
per
lo
meno
turbato
dal
colloquio.
La
inviò
quindi
da
Renato
d’Angiò
e
dal
duca
di
Lorena,
suoi
signori
feudali,
che
però
si
tirarono
indietro
dalla
faccenda.
Per
questo,
dopo
averne
richiesto
l’autorizzazione,
il
capitano
de
Baudricourt
la
inviò
direttamente,
senza
esitare,
al
Delfino,
non
prima
che
il
parroco
l’avesse
accuratamente
esorcizzata.
Jacques
d’Arc
sognava
un
incubo
ricorrente,
secondo
alcuni,
nel
quale
la
piccola
Giovanna
abbandonava
la
casa
paterna
al
seguito
di
un
gruppo
d’armati.
Quello
che
il
sogno
poteva
significare,
è
abbastanza
ovvio,
in
quegli
anni
di
miseria
e
conflitto.
Ed
il
padre
non
esitava
a
dire
che
non
avrebbe
tardato
un
attimo
ad
annegare
la
fanciulla,
con
le
sue
stesse
mani
se
necessario,
o
con
quelle
di
un
fratello,
se
ciò
fosse
avvenuto.
Il
22
febbraio,
però,
la
ragazza,
in
abiti
maschili,
salì
a
cavallo,
con
una
scorta
di
armati,
e
partì
verso
il
castello
di
Chinon,
distante
seicento
chilometri,
residenza
del
“suo
dolce
delfino”,
come
lo
chiamava
lei;
ed
il
vecchio
Jacques
non
provò
neanche
a
fermarla.
Nessuno
sapeva
come
aveva
imparato
a
cavalcare.
Il
viaggio
seguì
sentieri
secondari,
snodandosi
per
gran
parte
in
territorio
borgognone,
in
pieno
inverno,
“quando
i
lupi
si
nutrono
di
vento”
secondo
un
accompagnatore,
Bernard
de
Poulengy.
Il 6
marzo,
una
domenica,
trecento
cavalieri
assistettero
al
suo
ingresso
nella
sala
grande
del
castello;
il
re,
allora,
le
indicò
alcuni
cortigiani,
per
mettere
alla
prova
le
sue
capacità,
e
verificarne
la
guida
divina.
Ma
nonostante
nulla
lo
caratterizzasse,
né
il
suo
volto
fosse
conosciuto
fuori
dalla
corte,
lei
gli
s’inginocchiò
davanti,
con
decisione.
E
quando
lui
le
chiese
un
segno,
si
disse,
lei
rispose
che
glielo
avrebbe
dato,
sì.
Ma
davanti
alle
mura
di
Orlèans.
C’è
chi
sostiene
che
Carlo
avesse
buon’occhio,
e ne
intuì
il
potenziale;
per
altri,
la
disperazione
e lo
sconforto
per
le
ripetute
sconfitte
militari
francesi
(dagli
esordi
ad
Azincourt
fino
alla
sconfitta
del
12
febbraio
di
quell’anno
nel
tentativo
di
liberare
Orlèans)
spinsero
un
re
senza
terra,
figlio
di
padre
impazzito,
ad
affidarsi
a
quell’ultimo
appiglio
di
speranza,
confuso
groviglio
di
istanze
religiose
e
patriottiche,
in
un
tempo
in
cui
l’idea
di
nazione
distava
ancora
cinque
secoli.
Comunque
sia,
inviò
la
fanciulla
nell’unica
struttura
universitaria
di
un
certo
livello
ancora
in
funzione
nei
suoi
territori,
l’Università
di
Poitiers
(nata
nel
1422),
dove
la
ragazza
fu
interrogata
a
lungo.
Ne
furono
studiate,
sembra
per
due
settimane,
a
marzo,
ortodossia,
devozione,
verginità,
su
cui
ella
montava
il
suo
castello
profetico.
Dinanzi
ad
una
giuria
di
teologi,
rispose
a
tutte
le
domande,
a
volte
anche
con
humour,
come
quando
un
teologo
di
Limoges
le
chiese
se
le
“voci”
parlassero
francese;
“Meglio
di
voi”,
lo
liquidò
Giovanna.
E
poiché
superò
ogni
prova,
da
quel
momento
divenne
“la
pulzella”,
la
Vergine.
Il
maestro
in
teologia
Jean
Erault
ricordò
allora
la
profezia
di
una
tale
“Marie
d’Avignon”:
“Molte
armi
mi
sono
apparse;
per
un
attimo,
ho
avuto
paura
di
esser
io a
doverle
portare.
Mi
fu
detto
però
di
non
temere:
erano
destinate
non
già
a
me,
bensì
ad
una
fanciulla
vergine
che
sarebbe
venuta
dopo
di
me e
che
avrebbe
liberato
il
regno”.
E’
proprio
questa,
la
sua
grande
novità;
Giovanna
non
si
accontentava
di
profetizzare.
“Gli
uomini
combatteranno
e
Dio
donerà
la
vittoria”,
disse.
E
lei,
tra
questi.
Lei
stessa
scelse
lo
stendardo,
con
Dio
assiso
sull’arcobaleno,
affiancato
da
due
angeli
recanti
tra
le
mani
il
giglio
di
Francia.
Cristo
era
indicato
con
il
trigramma
IHS,
d’origine
francescana.
La
sua
spada,
da
lei
intravista
durante
una
visione,
conficcata
nella
terra
(con
singolare
richiamo
al
ciclo
bretone),
e
recuperata
da
un
cavaliere
appositamente
inviato
a
Sainte-Catherine-de-Fierbois,
recava
incise
cinque
croci.
Le
venne
inoltre
fornita
un’assistenza
militare
nella
forma
di
un
piccolo
gruppo
d’aiutanti,
paggi,
araldi.
Alla
fine
d’aprile,
seguendo
un’abitudine
dell’epoca,
la
ragazza
inviò
una
lettera
di
sfida
ai
suoi
avversari,
ed
in
specie
al
re
d’Inghilterra
ed
al
reggente
di
Francia
duca
di
Bedford,
oltre
che
all’esercito
occupante:
“..rendete
alla
Pulzella,
che
è
inviata
da
Dio,
il
Re
del
Cielo,
le
chiavi
di
tutte
le
città
che
avete
preso
e
violato
in
Francia..”.
Da
sei
mesi
Orlèans
resisteva,
e
dai
sei
mesi
le
comunicazioni
con
l’esterno
erano
interrotte,
eccetto
attraverso
la
porta
rivolta
verso
Gien.
Giovanna
vi
entrò
il
29
aprile.
Il
suo
temperamento
si
impose
nei
confronti
dell’effettivo
comandante
della
città,
Giovanni
(figlio
illegittimo
del
duca
d’Orlèans),
con
cui
entrò
subito
in
conflitto,
rimproverandogli
eccessiva
prudenza.
Il
suo
giudizio
prevalse,
e la
notizia
del
suo
arrivo
rinforzò
il
morale
dei
difensori.
“Sgombrate
il
campo,
nel
nome
del
Signore
e
secondo
la
sua
volontà”,
aveva
ingiunto
agli
inglesi;
le
rispose
un
coro
di
insulti,
l’atmosfera
si
surriscaldò
velocemente,
e si
narra
di
un
breve
ma
feroce
scontro
verbale
tra
la
fanciulla
ed
il
comandante
avversario,
Glasdale,
da
lei
soprannominato
Glacidas,
con
ironico
riferimento
al
gracidare
delle
rane.
E
proprio
in
un
fiume
poco
distante,
di
lì a
poco,
quest’ultimo
sarebbe
affogato;
allora
cominciarono
a
chiamarla
“strega”.
Il 4
maggio
iniziò
l’attacco
francese,
che,
dopo
la
sosta
per
il
giovedì
dell’Ascensione,
proseguì
nei
giorni
seguenti.
Giovanna
fu
ferita
due
volte,
il 6
ed
il
7,
la
prima
volta
al
piede
e la
seconda
al
collo.
Rifiutò
ogni
cura,
eccetto
un
impacco
d’olio
e
lardo,
e
ritornò
a
battersi.
L’8
maggio
1429,
Orlèans
fu
liberata.
La
Francia
tutta,
alla
notizia,
esplose
in
un
entusiasmo
sincero,
ed
ammirato.
La
ragazza
in
armatura
diceva
il
vero.
Ma
Giovanna,
la
Pulzella,
aveva
le
idee
chiare.
La
liberazione
di
Orlèans
era
un
segno,
estremamente
chiaro,
del
volere
divino:
l’incoronazione
di
Carlo
di
Valois
come
legittimo
sovrano
dei
francesi,
secondo
la
tradizione
dei
re
franchi,
nella
cattedrale
di
Reims.
Ci
si è
a
lungo
interrogati
sulla
funzione
di
questa
richiesta:
appare,
in
effetti,
assolutamente
superflua
nel
consacrare
il
ritrovato
potere
del
re.
Ma
l’intima
religiosità
popolare
tendeva
a
vedere
nel
re
terrestre
un
riflesso
del
Cristo
Re
celeste;
e
tale,
nelle
menti
più
semplici,
si
poteva
considerare
solo
chi
seguiva
l’antico
rito
del
santo
vescovo
Remigio,
solo
chi
cingeva
la
corona
sull’altare
della
cattedrale.
Carlo
era
un
uomo
freddo,
influenzabile,
timoroso;
pertanto,
reputando
di
non
avere
niente
da
perdere,
pensò
di
avere
qualcosa
da
guadagnare,
e
accettò.
Per
evitare
di
attraversare
i
domìni
inglesi,
ancora
troppo
solidi,
si
scelse
un
itinerario
ad
arco,
passante
per
Auxerre,
Troyes,
lo
Champagne.
Ma
l’arrivo
di
ingenti
rinforzi
inglesi,
sotto
il
comando
di
John
Talbot
conte
di
Shrewsbury
(meglio
noto
all’epoca
come
“Achille”)
e di
John
Falstolf
(il
“Falstaff”
shakespeariano
delle
“Allegre
comari
di
Windsor”..)
costrinse
ad
una
revisione
dei
piani:
prima
occorreva
affrontare
questo
pericoloso
avversario.
Il
nuovo
comandante
dell’armata
del
Delfino,
Giovanni
II
duca
d’Alençon,
aveva
allora
ventun’anni;
e si
disse,
allora,
che
tra
i
due
si
manifestò
subito
una
certa
simpatia,
nonostante
la
moglie
di
lui.
D’altra
parte,
le
malelingue
non
mancavano,
ed
il
successo
della
fanciulla
ispirava,
come
sempre
accade,
non
poche
antipatie
a
corte.
Ma,
di
certo,
Giovanna
prese
a
chiamarlo
“il
bel
duca”,
e
questi
ricambiò
donandole
un
cavallo,
nero,
bellissimo.
L’intesa
tra
questi
due
giovani,
casta
o
meno,
divenne
perfetta:
l’armata-
forte
di
600
“lance”,
cavalieri
pesanti,
e
numerose
compagnie
di
ventura-
prese
ai
primi
di
agosto
Jargeau,
dove
la
Pulzella
fu
di
nuovo
ferita
alla
testa
da
una
pietra,
ma
ebbe
il
tempo
di
salvare
la
vita
del
suo
comandante.
Gli
urlava,
in
mezzo
alla
mischia,
“Gentile
duca,
hai
forse
paura?
Non
sai
che
ho
promesso
a
tua
moglie
di
portarti
indietro
sano
e
salvo?”,
mostrando,
al
solito,
ironia
e
sfrontatezza.
I
difensori
della
fortezza
furono
massacrati,
tutti.
Caddero
poi
Meung-sur-Loire,
il
15
giugno,
e
Beaugency
il
16.
Infine,
per
la
prima
e
unica
volta,
Giovanna
conobbe
l’ebbrezza
della
vittoria
sul
campo.
A
Patay,
finalmente,
Azincourt
fu
vendicata:
Talbot
e
Falstolf
caddero
prigionieri,
sul
campo
rimasero,
per
alcuni,
diecimila
inglesi
(ibid.,
pag.
67).
La
strada
per
Reims
era
aperta.
Il
ruolo
di
Giovanna
in
battaglia,
per
la
verità,
appare
ancora
oggi
poco
chiaro.
Seppur
portatrice
di
uno
stendardo,
ovvero,
in
ogni
caso,
di
un
simbolo
di
comando,
le
fu
sempre
precluso,
dopo
Orlèans,
un
ruolo
di
guida.
La
sua
funzione
era,
indubbiamente,
psicologica:
il
morale
dell’esercito
cresceva
a
dismisura
alla
sua
sola
vista.
In
più,
mostrava
una
particolare,
e
misteriosa,
conoscenza
delle
tecniche
d’assedio,
appariva
eccellente
nel
cavalcare
e
nel
difendersi,
era
convinta
sostenitrice,
in
ogni
caso,
dell’assalto.
Ciononostante,
al
processo
sostenne
sempre
di
non
aver
ucciso
nessuno,
in
vita
sua.
Ma
la
sua
funzione
di
guida,
d’ispiratrice
di
entusiasmo
messianico,
restano
indubitabili.
La
cavalcata
per
Reims
cominciò
a
Gien,
e
durò
venticinque
giorni;
la
Pulzella
ed
il
duca
d’Alençon
scortarono
il
loro
re
al
battesimo.
Giovanna
invitò
alla
cerimonia
anche
il
duca
di
Borgogna;
questi
non
si
premurò
di
risponderle,
ma
un
suo
tacito
assenso
sembra
indiscutibile,
visto
l’appoggio
offerto
da
molte
sue
città
dello
Champagne
(Auxerre,
Troyes,
Chalons).
In
quei
giorni,
le
fortune
del
re,
e
della
sua
Pulzella,
toccarono
lo
zenith.
Tutti
volevano
vederla,
tutti
volevano
omaggiarla,
i
cavalieri
stessi
cercavano
di
apparirne
degni.
Alla
sera
del
16
luglio,
l’armata
arrivò
alle
porte
di
Reims.
La
mattina
seguente,
dopo
aver
prelevato
la
Santa
Ampolla
(secondo
la
leggenda,
recata
dagli
angeli
per
il
battesimo
di
Clodoveo),
si
svolse
la
cerimonia
nella
cattedrale;
i
“pari
del
regno”
depositarono
sul
regio
capo
la
corona,
mentre
Giovanna
la
Pulzella,
imperterrita
ed
orgogliosa,
rimaneva
al
fianco
del
Delfino,
sventolando
il
suo
bianco
stendardo.
Era
il
17
luglio
1429.
L’incoronazione,
per
le
genti
di
Francia,
costituì
un
momento
inebriante:
e
poiché
quella
era
l’origine
della
ragazza,
lei
lo
sapeva
bene.
Christine
de
Pizan
arrivò
a
dedicarle
versi
nei
quali
la
immaginava
già
alla
conquista
della
Terrasanta,
dopo
aver
ristabilito
la
pace
in
Europa;
alcuni
giurarono
di
aver
visto
il
cielo
attraversato
da
bianchi
cavalieri
alati,
altri
sostennero
che
Giovanna,
appagata
dalla
cerimonia,
si
sarebbe
presto
ritirata.
Ma
le
ragioni
della
politica,
si
sa,
non
procedono
parallele
a
quelle
delle
aspettative
popolari,
e
delle
speranze.
Per
la
prima
volta,
le
idee
della
maggiore
artefice
del
successo,
e
del
maggiore
beneficiario,
cominciarono
a
divergere.
Probabilmente
l’ispirazione
le
venne
dalle
“voci”,
che
fino
a
quel
momento
non
le
avevano
mai
mentito;
ma
fatto
sta
che
i
“falchi”,
raccolti
attorno
alla
Pulzella,
proposero
l’immediata
prosecuzione
dell’offensiva,
stavolta
in
direzione
di
Parigi,
che
subiva
pesantemente
il
fascino
della
“liberatrice”.
L’
esercito
era
stato
equipaggiato
nel
frattempo
da
banchieri
dell’epoca,
tra
cui
Jacques
Coeur.
Ma
anche
gli
inglesi
si
prepararono
con
cura:
fecero
affluire
dall’Inghilterra
tremilacinquecento
tra
cavalieri
ed
arcieri,
frettolosamente
impiegati
nonostante
fossero
stati
organizzati
per
la
crociata
in
Boemia,
contro
gli
eretici
hussiti;
per
la
prima
volta,
dei
crociati
furono
cioè
impiegati
contro
la
“soldatessa
di
Dio”,
che
però
cominciava
a
suscitare
forti
perplessità
nel
mondo
cristiano.
Un’armata
crociata
poteva
essere
impiegata
contro
altri
cristiani
solo
se
questi
fossero
stati
chiaramente
eretici;
e
Giovanna,
agli
occhi
di
molti,
si
stava
dimostrando
sempre
più
pericolosa,
e,
quindi,
sempre
più
demoniaca.
A
Filippo
di
Borgogna
fu
affidato
il
governo
di
Parigi;
e
questi
ricambiò
appoggiando
il
suddetto
esercito
con
settecento
armigeri
piccardi.
Nonostante
sembrasse
imminente
una
tregua
con
la
Borgogna,
la
strada
aperta
verso
Parigi
spinse
il
novello
re
di
Francia,
ora
Carlo
VII,
a
tentare
l’impresa.
Tra
Parigi
e
Compiègne,
il
15
agosto
di
quell’anno,
i
due
eserciti
si
incontrarono.
Ma
fu
una
giornata
particolare,
e,
un
po’
per
la
riluttanza
di
entrambi
gli
schieramenti
(gli
inglesi
temevano
un
altro
rovescio,
i
francesi
volevano
soprattutto
raggiungere
Parigi),
un
po’
per
le
condizioni
climatiche
(caldo
afoso,
nebbia
fitta),
quello
strano
carosello
di
soldati
che
apparivano
e
scomparivano
all’orizzonte
terminò
con
un
nulla
di
fatto.
A
corte,
il
ministro
La
Trèmoïlle
manteneva
importanti
rapporti,
economici
e
politici,
con
la
Borgogna.
Il
che
non
sarebbe
stato
così
rilevante,
se
questi
non
fosse
stato
anche
creditore
nei
confronti
del
re,
che,
contemporaneamente,
doveva
decidere
di
prendere
o
meno
Parigi,
come
abbiamo
visto
amministrata,
con
acuta
mossa
diplomatica,
da
Filippo
di
Borgogna:
ogni
attacco
alla
città
avrebbe
insomma
annullato
ogni
possibilità
di
giungere
ad
un
accomodamento
con
il
potente
vicino
borgognone,
rappresentando
un
atto
di
aperta
ostilità.
Ed
oltre
al
ministro
in
molti,
a
palazzo,
puntavano
proprio
ad
una
tregua.
Tra
questi
ed
il
loro
obiettivo,
restava
solo
un’incognita:
Giovanna.
Parigi,
a
dire
il
vero,
non
avrebbe
mai
aperto
le
porte
alla
Pulzella,
stretta
com’era
in
un
forte
lealismo
nei
confronti
del
duca
di
Borgogna
e di
Enrico,
re
di
Francia
e
d’Inghilterra.
Al
tempo
stesso
un
assalto
di
cristiani
contro
altri
cristiani
avrebbe
rappresentato
un
evidente
caso
politico;
ed
una
sconfitta
sarebbe
stata
uno
smacco
al
prestigio
del
neonato
re
Carlo.
Fu
proprio
ciò
che
accadde:
l’attacco
dell’8
settembre,
Natività
di
Maria
nel
calendario
cristiano,
verso
la
Porta
Saint-Honorè
fallì,
e
Giovanna
fu
ferita
ancora,
da
un
colpo
di
balestra,
alla
coscia.
La
Pulzella
pretendeva
che
i
suoi
soldati
mantenessero,
sempre,
una
condotta
pura,
in
linea
con
i
dettami
evangelici;
ma,
in
questo
caso,
attaccare
proprio
quel
giorno
fu
molto
peggio
di
una
sconfitta:
fu
un
errore.
Il
giorno
dopo,
re
Carlo
ordinò
all’esercito
di
ritirarsi
a
Saint-Denis.
Giovanna
aveva
perso
sul
campo,
e,
quel
ch’è
peggio,
a
corte.
L’armata
venne
sciolta.
Quel
che
ne
rimaneva,
dopo
essere
arretrato
verso
la
Loira,
fu
impiegato,
nell’inverno
del
1429,
contro
Perrinet
Gressart,
pittoresca
figura
di
brigante,
capobanda,
mercenario,
che
occupava
all’epoca
il
Nivernais,
saccheggiando
i
reali
domini.
Chiaramente,
la
Pulzella
perdeva
rapidamente
potere,
e
questo
impiego,
contro
un
avversario
trascurabile,
ne
era
testimonianza.
Nondimeno,
il
bandito
seppe
darle
filo
da
torcere,
resistendo
a La
Charitè-sur-Loire
con
tanta
efficacia
da
vanificare
l’impiego,
da
parte
reale,
di
una
nuova,
enorme
bocca
da
fuoco,
detta
“La
Bergère”.
In
quello
stesso
periodo,
Giovanna
continuò
ad
accumulare
nemici:
stavolta
si
tratta
di
una
tale
Catherine
de
La
Rochelle,
sedicente
veggente
con
cui
la
ragazza
era
entrata
in
contatto
tramite
un
francescano,
Frate
Richard.
Ebbene,
questa
“profetessa”
sosteneva
di
essere
visitata,
ogni
notte,
da
una
“dama
bianca”
(altre
“voci”..)
che
insisteva
affinché
la
Pulzella
si
recasse
dal
re,
per
portargli
certi
misteriosi
tesori
che
l’ipotetica
visione
le
avrebbe
indicato.
Ma
Giovanna
era
caratterizzata,
anche,
da
un’ironia
tagliente,
e, a
tratti,
sprezzante;
dopo
aver
vegliato
insieme
per
due
notti,
con
esito
scontato,
le
“suggerì”
d’occuparsi
di
casa,
marito
e
figli.
Ma
Catherine,
evidentemente,
sapeva
coltivare
il
seme
della
vendetta,
a
lungo,
se,
più
avanti
nel
tempo,
arrivò
a
testimoniare
contro
di
lei,
dopo
essere
stata,
a
sua
volta,
arrestata.
L’attivismo
febbrile
che
la
caratterizzava,
quasi
intuendo
la
fugace
avventura
che
avrebbe
avuto
in
sorte,
non
accennava
a
placarsi;
né
lo
placarono
la
patente
di
nobiltà
concessa
ai
genitori
con
tanto
di
araldo,
né
l’esenzione
di
Domrèmy
dalle
tasse
regie,
né
gli
omaggi
della
sempre
riconoscente
cittadinanza
di
Orlèans,
nel
gennaio
del
1430.
Per
ultimo,
e
più
importante,
non
lo
placava
l’avvio
della
tregua
con
la
Borgogna,
che
certo
non
favoriva
un
gesto
di
aperta
ostilità
come
l’attacco
a
Parigi,
ancora
fedele
al
suo
duca
Filippo.
Ma
le
voci
dalla
città
parlavano
di
sordi
malumori,
e
silenti
complotti,
e
l’orecchio
della
fanciulla
vi
prestavano
particolare
attenzione.
Se
re
Carlo
si
lasciava
beffare
dai
borgognoni,
che
nel
frattempo
stavano
occupando
l’
Oise,
fedele
al
re,
occorreva
forzargli
la
mano,
e
mostrargli
il
pericolo
di
un
patto
con
la
Borgogna.
Alla
fine
di
marzo
Giovanna
lasciò
Sully,
con
duecento
mercenari
piemontesi
agli
ordini
di
Bartolomeo
Baretta.
Passò
per
Melun
e
Lagny-sur-Marne
(dove,
pare,
riportò
un
bambino
in
vita
il
tempo
necessario
per
il
battesimo:
un
miracolo
abbastanza
comune
al
tempo
e
chiamato
in
Francia
“rèpit”,
“tregua”),
diretta
verso
Compiègne,
assediata
dai
borgognoni.
Qui
prese
Margny,
una
delle
fortezze
costruite
dagli
avversari
per
l’assedio:
ma
il
loro
contrattacco
la
colse
sola,
fuori
dalle
mura
della
città,
che
le
si
chiusero
davanti.
A
Chinon,
profeticamente,
pare
avesse
detto:
”Durerò
un
anno,
non
di
più”.
Venne
catturata
da
Lionel
de
Wamdonne,
luogotenente
di
Jean
de
Luxembourg
conte
di
Ligny,
vassallo
borgognone,
il
23
maggio
dell’anno
1430,
un
martedì.
Carlo
VII,
il
suo
“dolce
re”,
non
provò
ad
intavolare
una
trattativa,
né a
liberarla
in
alcun
modo,
nonostante
la
sua
corona
dorata
derivasse,
in
gran
parte,
da
lei.
Il
granduca
d’Occidente
Filippo
III
di
Borgogna,
che
si
trovava
a
guerreggiare
da
quelle
parti,
volle
incontrarla,
per
poi
impegnarsi
altrettanto
decisamente
a
minimizzare
gli
effetti
del
colloquio,
mostrando
invece
un
certo
fastidio
per
la
ragazza.
Il
che,
forse,
non
equivale
a
verità.
La
corte
di
Carlo
fece
lo
stesso:
prese
cioè
a
ridicolizzarla,
a
screditarla
agli
occhi
della
Francia,
minimizzando
il
suo
contributo
(enorme,
e
ben
più
evidente
di
quelle
misere
manovre
politiche)
nella
guerra;
era,
lei,
il
prodotto
residuo
di
un
periodo
passato,
e
non
più
gradito,
un
contenitore
usato,
ed
inutile,
da
riscattare
oltretutto
a
peso
d’oro:
il
gioco
non
valeva
la
candela,
tanto
valeva
eliminarla
dalle
coscienze.
Il
cancelliere
del
regno
arrivò
a
sostenere
che
la
fanciulla
si
era
“perduta
per
la
sua
superbia”,
e
che
era
pronto
a
sostituirla
un
pastorello,
“emulo”,
proveniente
dal
Gevaudan.
Rapidamente,
l’Università
di
Parigi,
il
26
maggio,
chiese,
in
forma
epistolare,
che
la
ragazza
fosse
processata
dall’Inquisitore
di
Francia,
in
quanto
sospetta
d’eresia.
Giovanna,
in
pratica,
fu
abbandonata
da
tutti,
come
sovente
accade
quando
l’astro
del
successo
comincia
ad
oscurarsi,
ed
il
viale
del
declino
si
fa
più
prossimo.
Per
sei
mesi
fu
sballottata,
in
prigionia,
tra
Piccardia,
Artois,
e
Normandia;
ma
soprattutto,
nella
torre
del
castello
di
Beaurevoir.
Come
accade
con
le
fiere,
catalizzò,
da
subito,
un’enorme
attenzione,
specie
nelle
inedite
vesti
di
prigioniera
inerme.
Figure
di
rilievo
o
meno
volevano
vederla,
ora,
docile
ed
immobile:
tra
questi,
Isabella
del
Portogallo,
consorte
del
duca
di
Borgogna,
che
pare
ne
rimase
affascinata
al
punto
da
incedere
in
suo
favore.
Come
prevedibile,
dato
il
carattere
del
soggetto,
Giovanna
tentò
una
rocambolesca
fuga
dalla
torre,
calandosi
lungo
la
struttura,
forse
esasperata
dalla
separazione
con
il
fratello,
Pierre,
e
Jean
d’Aulon,
suo
“attendente”
ed
amico;
ma
cadde,
e si
ferì
seriamente.
Non
se
lo
sarebbe
mai
perdonato.
Tuttavia,
la
pena
fu
mitigata
dall’amicizia
di
tre
dame,
Jeanne
de
Luxembourg,
zia
del
suo
vincitore,
la
moglie
Jeanne
de
Bèthune,
e la
figlia,
Jeanne
de
Bar,
a
lei
accomunate
da
un
sincero
e
spontaneo
affetto,
oltre
che
dall’omonimia.
Contro
di
lei,
ufficialmente,
si
muoveva
ormai
l’Inquisizione,
nella
figura
del
vescovo
di
Beauvais
Pierre
Cauchon,
che
appare
personaggio
amletico,
e
complesso:
un
po’
collaborazionista,
un
po’
arrivista,
forse
sincero
sostenitore
del
trattato
di
Troyes,
e,
quindi,
del
re
d’Inghilterra
e
Francia,
Enrico
VI.
A
settembre
la
sua
più
influente
alleata,
Jeanne
de
Luxembourg,
era
passata
a
miglior
vita;
in
più,
l’Inghilterra
mise
sul
piatto
fiumi
di
denaro
per
ottenere
la
prigioniera,
ovvero
diecimila
lire
tornesi,
oltre
che
l’influenza
di
Cauchon.
Al
principio
di
novembre,
forse
ad
Arras,
Giovanna
passò
in
mani
inglesi.
Carlo
VII
osservò
la
vicenda,
in
silenzio.
Arrivò
a
Rouen
il
23
dicembre
di
quel
lungo
1430;
il 9
gennaio,
Pierre
Cauchon
aprì
il
processo,
che
si
divideva
in
due
fasi:
“l’istruttoria”,
fondata
sulle
testimonianze
raccolte
su
una
supposta
cattiva
fama
della
Pulzella,
ed
una
“ordinaria”,
con
l’invito
a
pentirsi,
o,
se
strettamente
necessario,
la
tortura
e la
sentenza.
La
prima
durò
fino
al
26
marzo,
accompagnata
dall’arrivo
alla
spicciolata
della
“corte”:
un
pubblico
ministero
(“promotore
della
causa”),
Jean
d’Estivet,
un
consigliere
esaminatore,
Jean
de
la
Fontane,
tre
notai
cancellieri,
sei
universitari
parigini
e
una
sessantina
di
prelati
e
avvocati
come
assessori,
ed
un
secondo
giudice,
individuato
dopo
dinieghi
e
tentennamenti
in
Jean
Le
Maistre.
Giovanna
conosceva
la
fama
degli
inglesi
nel
turpiloquio
(erano
chiamati
Godon
in
terra
francese,
storpiando
la
bestemmia
preferita
oltremanica,
“god
damn”),
ed
ebbe
modo
di
verificarla
personalmente.
Le
dicevano
che
fosse
una
strega,
oltre
che
una
puttana,
forse
col
preciso
obiettivo
di
sfiancarne
il
morale.
Pare
fosse
fatta
oggetto
di
continue
attenzioni
da
parte
dei
suoi
carcerieri,
ma
nessuno
sa
se
queste
arrivarono
allo
stupro.
Il
che,
peraltro,
non
stupirebbe.
Il
duca
di
Bedford,
reggente
di
Francia,
fu
il
vero
patrocinatore
del
processo,
pur
senza
interventi
diretti,
e
senza
palesi
irregolarità.
Ma
nella
corte
vi
erano
sue
creature,
né
il
profondo
senso
del
processo
va
ricercato
fuori
dal
quadro
politico.
Per
quanto
regolare
a
livello
procedurale,
questo
rimaneva
senza
dubbio
influenzato
dalla
volontà
di
colpire
re
Carlo
attraverso
colei
che
della
sua
incoronazione
era
stata
artefice.
Colpendo
Giovanna,
avrebbero
delegittimato
il
re
di
Francia.
Nella
prima
fase,
almeno,
la
Pulzella
non
rischiava
la
morte:
sarebbe
bastato
ammettere
l’eresia,
e
spogliarsi
quindi
dalle
vesti
sacre,
per
essere
forse
confinata
in
uno
dei
tanti
monasteri
che,
purtroppo,
adempivano
a
questo
compito
in
tutto
il
continente.
Ma
Giovanna
mostrava
di
credere
alle
sue
“voci”,
e le
difendeva
con
successo,
nonostante
l’Europa
del
periodo
cominciasse
ad
affrontare
quella
fase
persecutoria,
e
bigotta,
che
va
sotto
il
nome
di
“caccia
alle
streghe”:
donne
spesso
sole,
e
vulnerabili,
ree
di
essere
state
iniziate
all’arte
divinatoria.
A
partire
dal
21
febbraio
la
ragazza
fu
interrogata,
sei
volte
in
pubblico
e
altre
in
privato,
nella
sua
cella,
senza
mai
aver
diritto
ad
un
difensore,
da
alcune
delle
menti
più
esperte
in
campo
teologico,
quelle
dell’Università
di
Parigi;
non
mostrò
timore
per
la
sua
sorte,
né,
come
lecito
aspettarsi
da
una
contadinella
analfabeta,
commise
passi
falsi
nelle
deposizioni:
ed i
dotti
teologi,
che
facevano
di
tutto
per
nasconderlo,
arrivarono
a
temerla,
oltre
che,
almeno
in
parte,
ammirarla.
Le
fu
impedito
di
assistere
alla
messa,
le
sue
gambe
vennero
incatenate,
per
impedirle
di
fuggire;
la
gloriosa
Sorbona
(l’
“autorità”)
risentiva,
evidentemente,
dell’influenza
di
quel
carisma
che
ora
avrebbe
dovuto
giudicare.
Furono
studiate
le
sue
consuetudini
religiose,
le
sue
abitudini,
le
sue
conoscenze;
inoltre,
fu
svolta
un’indagine
nel
suo
paese
natale,
Domrèmy,
soprattutto
riguardo
l’
“albero
delle
fate”,
il
“Bois
Chenu”
ed
altri
rimasugli
di
spiritualità
celtica,
che
si
rivelò
favorevole
all’accusata:
ma
questi
verbali
non
figurarono
tra
gli
atti.
Alle
richieste
di
giuramento,
rispose
che
l’avrebbe
fatto,
ma
si
riservò
il
diritto
di
tacere
sugli
argomenti
che
le
“voci”
non
volevano
fossero
affrontati;
alla
domanda
se
gli
inglesi
fossero
“nemici
di
Dio”,
che
non
lo
sapeva,
ma
in
ogni
caso
avrebbero
dovuto
andarsene
dalla
Francia,
e
solo
dopo
i
due
regni,
riconciliati,
avrebbero
potuto
convivere,
e
organizzare
una
crociata;
finché
gli
fu
posta
una
difficile,
ed
acuta,
domanda-trabocchetto:
“Giovanna,
sei
in
grazia
di
Dio?”
Avesse
risposto
‘sì’,
avrebbe
peccato
d’orgoglio;
con
un
’no’,
avrebbe
negato
quello
che,
fin’allora,
aveva
rappresentato.
“Se
non
ci
sono,
Dio
mi
ci
metta;
se
ci
sono,
mi
ci
mantenga”.
Da
poco,
e
con
difficoltà,
aveva
imparato
a
scrivere
il
suo
nome.
Un
altro
punto
controverso,
cui
i
giudici
si
mostrarono
particolarmente
interessati,
fu
quello
della
sua
fedeltà
alla
Chiesa:
e
lei
rispose
che
era
sì
incondizionata,
ma
in
primis
rivolta
alla
Chiesa
celeste
(“Chiesa
trionfante”)
e
solo
dopo
a
quella
terrestre
(“Chiesa
militante”),
dei
prelati
e
dei
teologi.
Il
suo
naturale
umorismo
si
manifestava
spesso,
sbeffeggiando
domande
particolareggiate:
“I
patroni
celesti
hanno
i
capelli?”,
le
chiesero,
e
lei,
senza
scomporsi,
“E
perché
mai
dovrebbero
tagliarseli?”;
o
ancora,
“Indossano
delle
vesti?”
”E
che,
si
deve
pensare
che
Dio
non
abbia
di
che
vestirli?”.
E,
così,
disorientava,
sbalordiva,
e
innervosiva
i
suoi
accusatori.
Forse,
insieme
a
quello
delle
“voci”,
l’altro
punto
sensibile
era
quello
dell’abito
maschile,
ed i
suoi
avversari
se
ne
accorsero
presto:
“La
donna
non
vestirà
abito
d’uomo,
né
l’uomo
abito
di
donna”,
recitava
infatti
il
Deutoronomio
(22,5),
“chi
lo
farà,
sarà
abominevole
agli
occhi
di
Dio”,
e lo
stesso
doveva
avvenire
con
i
capelli,
come
ricordato
con
forza
da
Paolo
di
Tarso;
oltre
a
ciò,
la
sua
condotta
andava
a
scontrarsi
con
la
tendenza,
nel
periodo,
a
favorire
una
certa
standardizzazione
(e
“corporazione”)
del
vestiario,
in
linea
con
la
morale
pubblica
(almeno
secondo
la
Chiesa),
in
base
quindi
al
sesso
ed
al
mestiere
d’appartenenza.
A
peggiorare
le
cose,
Giovanna,
così
abbigliata,
aveva
osato
prendere
i
sacramenti,
e
quindi
mostrarsi
al
cospetto
di
Dio.
“Per
quello
che
dipende
da
me,
io
non
cambierò
d’abito
per
fare
la
Comunione.
Permettetemi
di
sentir
messa
in
abito
maschile:
quest’abito
non
cambia
la
mia
anima.
Indossarlo
non
è
contro
la
Chiesa!”,
arrivò
ad
affermare
con
forza,
alla
fine
della
prima
fase
del
processo.
La
tecnica
adottata
nei
colloqui
era,
in
effetti,
molto
dura;
accadeva
fosse
interrogata
per
ore,
e
spesso
più
volte
al
giorno,
per
accelerarne
il
crollo
psicologico.
Inoltre,
l’interrogatorio
prevedeva
rapidi
cenni
su
ogni
argomento
(i
settantadue
capi
d’imputazione),
cambiando
continuamente
discorso,
affinché
la
ragazza
cadesse
in
contraddizione,
e
potesse
essere
più
facilmente
appurata
la
sua
fede
eretica.
Gli
inquisitori
le
chiesero,
a
più
riprese,
se
avesse
fatto
benedire
stendardo
e
armi
(come
d’altronde
era
tradizione,
ed
era
probabile
fosse
accaduto),
ma
lei,
forse
per
proteggere
quei
chierici,
negò
sempre.
Tante
volte
gli
inglesi
erano
fuggiti,
in
battaglia,
alla
sua
vista,
e
quindi
quegli
strumenti
dovevano,
ai
loro
occhi,
avere
qualcosa
di
sacrilego.
”Perché
lo
stendardo
è
entrato
all’incoronazione
a
Reims,
prima
degli
altri
capitani
di
guerra?”,
le
chiese
il
giudice,
a
marzo.
”Era
stato
alla
pena;
era
ben
giusto
che
stesse
all’onore”.
S’informarono
su
un
supposto
“segno”
ricevuto
a
Chinon,
all’inizio
dell’avventura,
gli
rinfacciarono
alcuni
esempi
di
devozione
nei
suoi
confronti
avvenuti
nel
momento
di
maggiore
successo,
continuarono
a
sfiancarla
raccogliendo
indizi
su
presunti
“sabba”
avvenuti
a
Domrèmy.
La
sua
resistenza,
ogni
giorno
di
più,
s’indeboliva.
Possiamo,
ora,
anche
ammettere
che
Giovanna
d’Arco
vivesse
una
religiosità
ingenua,
che
fosse
solo
una
pastorella
analfabeta,
che
credesse
che
i
vari
santi
parteggiassero
per
l’una
o
per
l’altra
parte
nel
conflitto:
ma
subì
una
pressione
psicologica
senza
pari,
e
fu,
a
lungo,
in
grado
di
dominare
la
situazione.
E
ciò,
comunque
lo
si
valuti,
ebbe
dell’incredibile,
ma
non
poteva
durare.
Ed
infatti,
ad
un
certo
punto,
la
ragazza
parlò,
chiarendo
però
che
solo
allora
le
voci
l’avevano
autorizzata
a
farlo:
il
“segno”
di
Chinon
consisteva
in
un
angelo,
disceso,
dall’alto,
nel
tardo
pomeriggio
di
marzo
o
aprile
del
1429,
nella
camera
del
Re.
Qui-
continuò-
aveva
portato
all’arcivescovo
di
Reims,
per
consegnarla
al
Re,
una
corona
aurea
profumata.
Questo,
quindi,
era
il
“segno”.
E
questa
era
la
prova
attesa
da
quel
gigantesco
apparato
inquisitorio,
che
avrebbe
potuto
legittimare
il
proprio
operato
solo
con
un’ammissione
di
colpa:
ma,
in
questo
caso,
lo
sconcerto
e la
meraviglia,
in
tutti,
furono
inenarrabili.
Giovanna,
quindi,
era
sfiancata,
e lo
dimostrava
arrivando
a
minacciare
i
suoi
avversari:
“Voi
dite
d’esser
mio
giudice,
e
non
so
se
lo
siete.
Ma
fate
attenzione
a
non
giudicar
male.
Io
ve
ne
avverto
affinché,
se
Nostro
Signore
vi
castigherà,
io
abbia
fatto
il
mio
dovere
avvisandovi”.
Da
sabato
17 a
giovedì
22
marzo,
gli
inquirenti
si
riunirono
per
chiudere
il
“processo
d’ufficio”,
ed
il
24 i
verbali
dell’interrogatorio
furono
letti
alla
prigioniera.
Il
27
dello
stesso
mese,
si
aprì
la
seconda
fase:
il
“processo
ordinario”.
A
questo
punto
le
venne
sottoposto
l’elenco
delle
accuse,
che
contava
settantadue
punti:
ma
Giovanna
lo
rifiutò
integralmente.
Il
promotore
Jean
d’Estivet
la
apostrofava
pesantemente,
con
accuse
numerose
e
circostanziate:
“incantatrice
e
indovina,
falsa
profetessa,
invocatrice
e
scongiuratrice
di
malvagi
spiriti,
superstiziosa,
dedita
alle
arti
magiche,
malpensante,
scismatica,
poco
ferma
e
poco
sicura
nella
fede,
di
fede
sacrilega,
idolatra,
apostata,
maldicente
e
malfacente,
bestemmiatrice
nei
confronti
di
Dio
e
dei
santi,
scandalosa,
sediziosa,
turbatrice
e
osteggiatrice
della
pace,
incitante
alla
guerra,
crudelmente
assetata
di
sangue
umano
e
incitante
a
spanderne,
del
tutto
dimentica
e
svergognata
quanto
alla
decenza
e al
riserbo
consoni
al
suo
sesso,
rivendicante
spudoratamente
l’uso
dell’abito
infame
e
dello
stato
degli
uomini
d’arme,
per
questo
e
per
altri
motivi
ancora
abominevole
a
Dio
e
agli
uomini,
prevaricatrice
della
legge
divina,
di
quella
naturale
e
della
disciplina
ecclesiastica,
seduttrice
di
principi
e di
gente
semplice
[…],
usurpatrice
dell’omaggio
dovuto
solo
al
culto
divino,
eretica
o
quanto
meno
fortemente
sospetta
d’eresia”.
Riassumendo,
le
accuse
sono
fondamentalmente
le
tre
precedentemente
trattate:
la
provenienza
divina
delle
“voci”,
l’abito
maschile,
il
rifiuto
dell’intermediazione
della
chiesa
visibile
nel
rapporto
con
quella
celeste.
Ad
onor
del
vero,
non
tutti
gli
assessori
approvarono
il
pamphlet
di
accuse;
ed
alcuni,
con
discrezione,
arrivarono
a
contestare
l’intero
sistema
processuale.
Ma
ormai
gli
eventi
correvano,
veloci,
lungo
un
sentiero
sgombro,
e
sarebbe
servito
ben
altro,
per
fermarli.
Fino
al
31
marzo,
Sabato
Santo,
furono
letti
gli
articoli;
dal
2 al
5
aprile
ci
si
tornò
a
riunire.
Tuttavia,
da
settantadue,
i
capi
d’accusa
furono
ridotti
a
dodici,
per
evitare
eccessive
ripetizioni,
e
forse
anche
per
accelerare
la
sentenza.
Gli
articoli
superstiti
furono
allora
inviati
al
giudizio
della
Facoltà
di
teologia
e di
diritto
canonico
dell’Università
di
Parigi.
Nel
frattempo,
però,
Giovanna,
che
tra
auliche
riflessioni
ed
incertezze
teologiche
continuava
ad
essere
solo
una
ragazza,
cedette,
stavolta
dal
punto
di
vista
fisico.
Lunedì
16
aprile,
due
giorni
prima
che
si
svolgesse
una
seduta
per
convincerla
a
confessare
e
pentirsi,
la
Pulzella
visse
un
forte
attacco
febbrile,
vomitando
più
volte:
fu
subito
visitata
da
tre
valenti
medici,
tra
cui
quello
della
duchessa
di
Bedford
(Jean
Tiphaine).
Giovanna
sostenne
che
la
causa
del
malessere
fosse
una
carpa
inviatele
dal
vescovo
Cauchon;
molti,
subito,
pensarono
invece
che
avesse
di
nuovo
tentato
il
suicidio.
Il
conte
di
Warwick
sembrava
preoccupato
che
la
prigioniera
potesse
morire
prima
di
essere
adeguatamente
punita;
ma
si
dice
che
il
governatore
di
Rouen
si
lasciò
scappare
che
bisognava
tenerla
in
vita
per
il
rogo.
Per
curarla,
e
per
rinforzare
la
propria
fama
nel
turpiloquio
(era
ironicamente
chiamato
Benedicite..),
appena
arrivato
Jean
d’Estivet,
il
suo
accusatore,
prese
ad
accusarla
con
forza,
inveendo
di
fronte
ad
un
avversario
inerme.
La
parola
puttana,
allora,
risuonò
più
volte.
Ma
Giovanna
era
giovane,
e di
buona
tempra:
si
rimise
in
fretta.
Due
giorni
dopo,
quindi,
i
lavori
ripresero;
due
settimane
dopo,
fallita
l’
”esortazione”
alla
confessione,
si
procedette
alla
pubblica
ammonizione.
Jean
de
Châtillon,
maestro
teologo
e
canonico
di
Evreux,
lesse
un
sermone
complesso,
strutturato
intorno
ai
sei
peccati
di
cui
la
ragazza
era
considerata
colpevole:
orgoglio,
indisciplina,
indecenza,
arroganza,
ostinazione,
impudenza.
Se
non
si
fosse
pentita,
la
via
era
chiara,
indicata
da
secoli
di
tradizione
procedurale:
il
braccio
secolare
della
giustizia
terrena.
La
chiesa
l’avrebbe
dunque
abbandonata,
ed
il
suo
destino
sarebbe
stato
scontato.
”Rileggete
le
carte
procedurali,
la
mia
posizione
vi è
chiaramente
esposta”,
rispose
alla
proposta
di
correggere
finalmente
la
sua
condotta.
Il
suo
destino
appariva
segnato.
Il 9
maggio
fu
minacciata
di
tortura
dai
suoi
giudici
e
dai
numerosi
assessori
presenti;
una
consuetudine
abbastanza
diffusa,
ed
interpretata
anche
da
chi
ne
faceva
uso
come
un
mezzo
per
indurre
alla
confessione,
senza
arrecare
(per
quanto
possibile)
danni
irreparabili,
ed
abbreviare
l’iter
processuale:
era,
insomma,
quasi
una
forma
caritatevole
di
(dubbia)
pietà.
Ma
non
se
ne
fece
nulla,
forse
perché
le
condizioni
di
Giovanna
erano
già
abbastanza
critiche,
e si
temeva
per
la
sua
salute;
o
forse
perché
la
ragazza
capì,
e se
ne
difese
con
successo:
“Anche
se
voi
mi
doveste
straziare
le
membra
e
far
uscire
l’anima
dal
corpo,
non
vi
direi
niente.
E se
vi
dicessi
qualcosa,
dichiarerei
subito
dopo
che
me
l’avete
fatta
dire
con
la
forza”.
Gli
inglesi,
che
da
una
posizione
defilata
ma
concreta
attendevano
una
precisa
conclusione,
cominciarono
a
perdere
la
pazienza:
Giovanna
doveva
confessare,
a
tutti
i
costi.
E
probabilmente,
contro
ogni
moderna
regola
giuridica,
il
conte
di
Warwick,
invitati
a
cena
il
13
maggio
il
vescovo
di
Cauchon
e
altri,
non
mancò
di
farlo
notare,
con
decisione.
I
dottori
di
Rouen,
riuniti,
decisero
il
19
di
organizzare
una
pubblica
cerimonia,
in
cui
farla
confessare.
Era
la
sua
ultima
possibilità,
fu
sottolineato,
di
evitare
il
braccio
secolare,
e
con
esso
il
fuoco.
Probabilmente,
a
spingere
in
questa
direzione
erano
in
questa
fase
coloro
che
avevano
più
a
cuore
la
sua
sorte:
era
nel
suo
interesse.
E,
dopo
una
pressione
di
questo
tipo,
probabilmente
esausta
nel
corpo
e
nella
mente,
accettò
di
abiurare,
il
24
maggio,
in
una
cerimonia,
organizzata
in
fretta
e
furia,
al
cimitero
di
Saint-Ouen.
Quel
giorno,
con
(involontario?)
sadismo,
il
magister
Guillaume
riprese
il
passo
del
Vangelo
di
Giovanni
(15,1-6)
sull’unità
della
chiesa:
”Io
sono
la
vera
vite,
il
Padre
mio
è il
coltivatore.
Ogni
tralcio
che
in
me
non
dà
frutto,
lo
getterò
via..
Chi
non
rimane
in
me
sarà
gettato
come
tralcio
e
seccherà;
e,
raccolto,
sarà
buttato
nel
fuoco
a
bruciare..”.
Ed
il
rogo
era
lì,
a
ricordarlo.
Giovanna,
affranta,
ebbe
solo
un
sussulto,
sentendo
nominare
il
suo
re,
ed
esplose:
“Non
nominatelo,
egli
è
buon
cristiano!”.
Il
suo
appello
all’autorità
del
papa,
benché
perfettamente
lecito,
fu
lasciato
cadere.
Un
documento
di
poche
righe,
di
abiura,
le
fu
sottoposto.
E la
Pulzella,
di
fronte
ad
una
vasta
folla,
che
non
voleva
perdersi
lo
spettacolo,
lo
sottoscrisse,
con
mano
incerta,
forse
sostenuta
da
qualcuno.
Secondo
alcuni
era
stravolta
al
punto
da
non
capire
cosa
accettava,
per
altri
fu
minacciata
di
finire
immediatamente
sul
rogo,
il
notaio
Manchon
sostenne
che,
addirittura,
rise.
Per
altri
ancora,
tracciò
un
cerchio,
simbolo
sarcastico,
che
usava
già
da
tempo
per
indicare
i
documenti
indegni
di
considerazione.
Tra
gli
altri
impegni
assunti
al
momento
dell’abiura,
c’era
quello,
fondamentale,
della
rinuncia
all’abito
maschile.
Nella
prigione
inglese
dove
fu
portata,
le
furono
recapitati
abiti
femminili,
che
indossò,
per
la
prima
volta
da
quando
era
apparsa
nella
scena
politica.
Ma
sulla
cerimonia
d’abiura,
comunque,
aleggiavano
sinistri
presagi:
gli
inglesi
sembravano
delusi
di
quella
conclusione
incruenta,
che,
comunque
la
si
giudichi,
aveva
salvato
la
vita
alla
Pulzella.
Sembravano
irritati,
in
particolare,
il
conte
di
Warwick,
il
reggente
di
Francia
duca
di
Bedford,
gli
inquisitori
stessi.
Nell’entourage
del
vescovo,
a
qualcuno
scappò
che
non
c’era
da
preoccuparsi,
l’eretica
sarebbe
stata
riacciuffata.
Forse,
ma
si
tratta
di
sole
supposizioni,
l’epilogo,
così
desiderato
dai
suoi
carcerieri,
fu
provocato
dalla
delusione
di
Giovanna,
cui
era
stata
promessa
la
consegna
ad
un
istituto
religioso,
e
non
agli
aguzzini
inglesi;
forse,
semplicemente,
era
una
decisione
sofferta,
ma
meditata
con
calma;
o
magari
gli
abiti
maschili,
che
permettevano
la
difesa
della
sua
verginità,
e
che
costituivano
il
segno
visibile
della
sua
chiamata,
l’attraevano
troppo
per
potervi
rinunciare.
Frate
Martin
Ladvenu
sostenne
di
aver
appreso
da
lei
che
un
inglese
aveva
tentato
di
farle
violenza,
da
cui
l’abito
virile
l’avrebbe
protetta;
Jean
Massieu,
invece,
si
disse
certo
che
tre
giorni
dopo
la
cerimonia,
di
domenica,
i
carcerieri
le
avessero
lanciato
in
un
sacco
le
sue
vecchie
vesti,
privandola
di
quelle
femminili.
E,
d’altra
parte,
sembra
davvero
improbabile
che
un
carcerato
potesse
godere
della
libertà
di
decidere
il
proprio
vestiario.
Comunque
sia,
il
27
maggio,
festa
della
Trinità,
il
vescovo
di
Beauvais
fu
informato
della
cosa:
Giovanna
era
tornata
a
vestirsi
con
abiti
maschili,
dichiarandosi
perciò
recidiva;
e la
lex
Iulia
de
maiestate
era
abbastanza
chiara
riguardo
la
sorte
degli
eretici
impenitenti
.
Interrogata,
immediatamente,
ritrattò
la
sua
abiura:
“Tutto
quello
che
ho
detto
e
ritrattato,
l’ho
fatto
solo
per
paura
del
fuoco..
Non
ho
mai
detto
né
inteso
dir
nulla
per
rinnegare
le
mie
apparizioni,
cioè
che
si
trattava
delle
sante
Margherita
e
Caterina..
di
quello
che
stava
scritto
nella
formula
di
ritrattazione,
non
ho
capito
una
sola
parola!
E
poi,
proprio
in
quel
momento,
dissi
che
non
intendevo
ritrattare
nulla,
qualora
dispiacesse
a
Dio..”.
Pare
che
il
vescovo,
terminato
l’interrogatorio,
si
sia
rivolto
scherzosamente
agli
inglesi
presenti:
“
Fare
well”,
disse
mischiando
le
lingue,
come
per
gioco,
“state
allegri,
è
fatta..”.
A
posteriori,
il
clima
di
quei
giorni
concitati
appare
misterioso,
e
sospetto.
Forse,
questa
conclusione
andava
bene
a
tutti-
o
quasi-
e
anche
chi
capì,
o
intuì
soltanto,
preferì
tacere
sulla
sorte
di
una
ragazza
che
ormai
costituiva
solo
il
giovane
relitto
di
un
tempo
andato,
e,
peggio
ancora,
un
ostacolo
(eminentemente
politico)
sulla
via
della
pace.
Qualche
assessore
suggerì
di
spiegare
a
Giovanna
le
conseguenze
della
sua
azione,
ma
non
c’era
più
tempo,
o
forse
non
c’era
mai
stato.
La
macchina
della
morte
non
tardò
un
secondo
ad
attivarsi,
in
fretta,
furtivamente,
come
se
non
aspettasse
altro
che
una
fanciulla
ventenne
indossasse
il
“suo”
abito.
Non
vi
fu
neanche
un
processo:
non
serviva
più.
Giovanna
d’Arco,
la
Pulzella
d’Orlèans,
fu
accompagnata
sul
rogo
il
30
maggio
dell’anno
1431,
nella
pubblica
piazza
del
Vieux-
Marchè
di
Rouen.
Le
venne
permesso
di
confessarsi;
ed
un
soldato
inglese,
per
esaudire
un
suo
desiderio,
le
fabbricò
una
croce,
legando
insieme
due
pezzetti
di
legno.
Frate
Isembard
de
la
Pierre
corse
alla
chiesa
di
Saint-
Laurent,
e vi
prelevò
una
grande
croce
astile,
che
avvicinò
al
volto
della
giovane,
in
modo
che,
bruciando,
potesse
vederla.
Un
secondo
soldato
inglese,
che
si
rinfrescava
in
una
taverna
poco
distante,
disse
di
aver
visto
una
colomba
levarsi
dal
rogo
che
l’avvolgeva;
un
altro,
accorso
per
alimentare
le
fiamme,
s’arrestò
di
colpo,
le
mani
a
mezz’aria,
sentendo
la
ragazza,
avvolta
dal
fuoco,
urlare
più
volte
il
nome
di
Gesù.
Nel
1456,
una
nuova
sentenza
dell’Inquisizione
la
dichiarò
innocente.
Aveva
diciannove
anni.