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N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

ASPETTANDO I BARBARI
GIOVANI IN ITALIA

di Gennaro Tedesco

 

Pare che il nostro Paese possegga uno dei meno invidiabili primati: quello della quasi infinita permanenza e stagnazione tra le mura domestiche o, con più chiara espressione e definizione, il maggiore, più lungo e stabile insediamento familiare di adolescenti e giovani.


La più recente sociologia, alleata a un’altrettanta superficiale psicologia, si è immediatamente impadronita di un così fertile campo d’indagine e si è sbizzarrita nel tentativo di ridefinire e descrivere questi nuovi territori del sociale e dell’immaginario, addirittura riproponendo tale nuova e complessa situazione giovanile come sintomo di più avanzate frontiere nei rapporti interpersonali e intergenerazionali.

 

Gli adolescenti, ma soprattutto i giovani e in particolare quelli italiani, secondo questa prospettiva, starebbero sperimentando avanguardistiche esperienze esistenziali e costruendo ardite e possenti architetture sociali.


Malgrado le propagandistiche e retoriche affermazioni dei media nostrani sulla raggiunta e piena libertà dei nostri giovani all’interno di una moderna, dinamica e brillante famiglia italiana, che consentirebbe alla nostra dorata e privilegiata gioventù, unica al mondo, insieme agli adolescenti, di godersi una paradisiaca e felliniana dolce vita, tale condizione, al contrario, ci sembra fortemente edulcorata e corrosa da una narcotizzante e paralizzante gabbia familiare e domestica, che costituisce una specie di non dichiarato ammortizzatore sociale che stordisce, indebolisce e mortifica le latenti e vitali energie adolescenziali e giovanili.


Ma, prima di procedere nel nostro percorso esplorativo e sperimentale, è necessario porsi una domanda preliminare: in quale società questi adolescenti e questi giovani vivono, convivono e interagiscono?

 

Domanda non necessariamente oziosa e tanto meno esclusivamente, freddamente e asetticamente sociologica perché chi scrive si sente pienamente e totalmente coinvolto in tale micro-indagine che implicitamente, tra l’altro, assume anche una dimensione storica non sempre chiaramente e facilmente percepibile e percepita.


La società attuale non è più la società solida e compatta con chiari e distinti e duraturi ruoli sociali e produttivi che, dopo la grande depressione del ’29, si era ridefinita, ricostituita e riorganizzata su salde basi dirigistiche, statal-capitalistiche e protezionistiche.

 

All’interno di tale contesto, non ancora globalizzato o scarsamente globalizzato, tutti i soggetti sociali ed economici e finanziari, lavoratori, industriali e banchieri agivano nella certezza del loro presente e del loro avvenire: il capitalismo di stato, il dirigismo e un notevole livello di protezionismo economico e sociale garantivano a tutti o quasi tutti o sembravano garantirla una condizione di relativa stabilità e tranquillità.


Negli ultimi due decenni a cavallo del Terzo Millennio tutto ciò, soprattutto in Italia, sì è lentamente prima, rapidamente e brutalmente poi, dissolto quasi come neve al sole: una epocale catastrofe sociale e non solo sociale di cui solo negli ultimi anni riusciamo a comprenderne la portata e soprattutto l’impatto traumatizzante.


La società italiana non offre più certezze. Giovani, meno giovani ed adolescenti, quando sono fortunati, trovano un lavoro precario e mal retribuito, privo di qualsiasi stabilità e certezza. Il sistema non offre più sbocchi occupazionali, ma soprattutto non fornisce prospettive e speranze. Anche i giovani italiani sono finalmente entrati a pieno regime nella società globale dell’incertezza e del rischio.

 

Una novità assoluta soprattutto per le nostrane nuove generazioni represse, pronte ad esplodere alla prima occasione anche se un sapiente, sofisticato ed efficiente apparato massmediologico, propagandistico, pubblicitario, educativo, politico e sociale consente di monitorare, sorvegliare e sviare eventuali ribellioni di massa giovanili e adolescenziali.

 

La strumentazione ideologica del potere dominante ingenera, costruisce e inculca modelli individualistici che mitizzano e ritualizzano, enfatizzandolo fino al delirio, l’accesso paradisiaco alla proprietà, al mutuo, al perbenismo e al necessario e facile divertimento a portata di mano: uno stordimento e un assopimento aggravato e continuato senza precedenti.


In ogni caso, ammesso pure che qualche movimento politico giovanile prendesse coscienza collettiva e sociale di tale insostenibile situazione organizzandosi in movimento di contestazione di massa, esso avrebbe vita breve, per non dire brevissima (recenti avvenimenti sembrano smentire tale ipotesi, speriamo!), perché le forze di controllo e di repressione dello Stato da qualche anno sono sempre più pervasive, invasive e reattive.


La società italiana in cui i nostri giovani ed adolescenti vivono è cambiata profondamente. Essa non dispone più di centri di gravità permanente, né di solidi punti di riferimento e le sue strutture portanti sembrano irrimediabilmente compromesse.
Naturalmente tutte queste trasformazioni vanno inserite e considerate nel quadro più generale del processo di globalizzazione in corso.

 

Molti nel Bel Paese ne colgono solo i limiti e le distorsioni, limiti e distorsioni che si riflettono soprattutto sugli assetti sociali ed educativi. In modo particolare le prime vittime di tale rapida e virulenta trasformazione non solo italiana, anche se il nostro Paese si è inserito in tale processo in ritardo e quindi è costretto a subire più dirompenti disarticolazioni, ma mondiale, sono i gruppi familiari nei quali ritroviamo insieme adolescenti, giovani e genitori. Essi sono schiacciati e tramortiti da tali devastanti logiche globalizzatrici.

 

Antichi, rassicuranti e consolidati modelli di riferimento e di comportamento familiare sembrano crollare sotto i terribili colpi del maglio globalizzatore mentre all’orizzonte non sembrano profilarsi chiari, alternativi e validi modelli sostitutivi.


E ovviamente, oltre agli adolescenti e ai giovani, i primi destinatari di tali complesse e disgreganti trasformazioni sono proprio i genitori che non riescono più a gestire il loro ruolo sociale ed educativo, messo in crisi anche da una spietata e travolgente crisi economica che mina le basi dello stesso vincolo coniugale.

 

A loro volta gli adolescenti e i giovani riproducono e reinterpretano tale disagio coniugale e familiare amplificandolo nelle aule non solo scolastiche, accentuando il distacco tra esperienza e conoscenza, anzi erigendo una vera e propria cortina di ferro, una barriera impermeabile di netta e impenetrabile incomunicabilità tra la loro quotidiana, dilacerante e magmatica realtà e scuola e istituzioni .


Tale incomunicabilità viene aggravata da ritmi di apprendimento e immaginari collettivi del tutto avulsi da strutture scolastiche e universitarie concepite nell’Ottocento esclusivamente per un’educazione basata sulla linearità della forma-libro e quindi per nulla aperta alle forme multimediali ed elettroniche non lineari entro le quali oggi questi adolescenti e questi giovani si muovono, non solo imparando, ma soprattutto vivendo, sentendosi completamente a loro agio.


E da queste forme elettroniche essi sono sempre più irretiti, invischiati, coinvolti,implicati e in esse immersi, qualcuno, all’oscuro dei nuovi e nuovissimi mondi adolescenziali e giovanili, sbagliando, li direbbe plagiati, in un immaginario oceanico, contaminato, ibridizzato, creolizzato, poliedrico, caleidoscopico e multiverso.

 

Insomma uno Stretto di Magellano ignoto a molti docenti e soprattutto difficile da conoscere ed esplorare e, una volta conosciuto e approfondito con anni di durissimo apprendimento e praticato con un solerte e robusto apprendistato, difficilissimo da affrontare.


La società in cui vivono i nostri adolescenti e i nostri giovani è una realtà che, al contrario del recente passato, si caratterizza per la sua pronunciata dimensione concorrenziale e globale.

 

A tale convergente, combinata, inusitata e impetuosa pressione e sfida neocapitalistica gli adolescenti e i giovani italiani, come gran parte del nostro mondo industriale anche se in un ambito diverso e a un livello diverso, non sono in grado di opporre un’adeguata resistenza e tanto meno un adeguato contrattacco perché, a parte qualche lodevole eccezione, cresciuti ed educati a scuola come in famiglia, ma anche nella così detta comunità educante nazionale, in una prospettiva protezionistica e familistica.

 

Le origini di tale peculiare pedagogia nazionale sono da ricercare nell’ambito della particolare e originale storia italiana.


Nascita e formazione di un tardo, ristretto, fragile e rachitico capitalismo nazionale, per sua voluta e intrinseca natura non concorrenziale, consociativo e protezionistico, timoroso e ostile a tutte quelle spinte di apertura concorrenziale provenienti dal basso e capaci potenzialmente di infrangere il blocco agrario-industriale formatosi e consolidatosi grazie a una chiusura reazionaria nei confronti dei ceti emergenti e grazie a una conseguente spartizione anche dei residui spazi amministrativi, che, a causa delle sue primordiali e limitate basi di accumulazione primaria, divenivano ambitissimi da parte dei rampolli della giovane e protetta borghesia nazionale.


Così penetrava, consolidandosi, nella nostra neonata borghesia nazionale una mentalità parassitaria, assistenzialistica e burocratizzata che finiva col permeare direttamente e indirettamente tutta la società, compresa la Scuola e l’Università, che ne divenivano contemporaneamente la cinghia di trasmissione, la cassa di risonanza e il primo laboratorio di sperimentazione protezionistica e assistenzialistica.


A ciò si aggiunga, coerentemente e conseguentemente alla base di potere più agro-manifatturiera che industriale nel pieno senso del termine almeno agli inizi prima dello sviluppo monopolistico del capitalismo nazionale e per un lungo tempo della nostra espansione capitalistica, un largo strato popolare e contadino, che abbandonato a se stesso e non educato a valori nazional-popolari, facilmente cadde vittima e strumento di un’ideologia piccolo-borghese e post-feudale, consapevolmente e fortemente veicolata dal ceto borghese al potere, intrisa di richiami paternalistici e nostalgici di origine corporativistica e familistica provenienti da mondo rurale e cattolico, concepita e basata ancora in modo prevalente sul rapporto ambiguo e subordinante del patrono-cliente che escludeva dalla propria prospettiva sociale, economica e politica ogni eventuale velleità di alternatività, imprenditorialità, concorrenzialità e indipendenzialità.

 

Tutto ciò si aggrava nei successivi anni del boom economico. Il capitalismo di Stato assume non in base al curriculum professionale, ma in base ai patron partitici, sindacali o ecclesiastici.

 

L’amministrazione centrale e periferica dello Stato, Regioni, Province e Comuni, Scuole e Università non sono da meno, anzi espandono, ritualizzano e mitizzano tale sistema, tale approccio e tale mentalità. Tant’è che possiamo senz’altro affermare, con poche possibilità di smentite, che uno dei principali fattori, ma ovviamente non l’unico, dell’attuale incapacità di capire e prevenire situazioni drammatiche e dell’inadeguatezza degli stimoli reattivi al processo di globalizzazione concorrenziale in corso per il mondo, deriva dalla su detta persistente e demagogica ideologia pedagogica ed educativa.


I modelli capitalistici nord-americani, basati sul consumismo, su uno sviluppo senza limiti e senza freni e su alti salari per chi si trova nei segmenti privilegiati della società, sono presi a modello da gran parte di giovani e meno giovani italiani, ma non i risvolti competitivi, concorrenziali e prepotentemente individualistici.

 

Naturalmente, a scanso di equivoci, qui no si vuol celebrare l’apoteosi del capitalismo, ma semplicemente e conseguentemente, evidenziarne le sue logiche interne. Una volta accettata e introiettata la su strutturazione specifica e storicamente determinata, se ne devono cogliere, digerire e metabolizzare tutti i suoi aspetti, le sue incoerenze e incongruenze altrettanto strutturali e soprattutto le sue conseguenze economiche e sociali.


Ma il nostro attardato e rachitico capitalismo nazionale produce, ovviamente, sue proprie specifiche, straordinarie e autodistruttive ideologie, pur rimanendo, malgrado ciò, nell’alveo del capitalismo mondiale. Si è fatto credere ad adolescenti e giovani che un progresso illimitato del capitalismo avrebbe consentito a tutti, senza processi competitivi e senza rotture traumatiche sia collettive che individuali, di inserirsi a pieno titolo e senza eccessivi sforzi ai vertici della gerarchia sociale. Una ideologia questa che sta dando tutti i suoi frutti più amari a intere generazioni avvelenate e drogate da mitologie e simbologie del facile, rapido e soprattutto felice riposizionamento verticale all’interno di una società capitalistica pacificata, accogliente e globalizzata.


Chi scrive ha potuto constatare tutti gli effetti più perversi di tale dilagante e straripante ideologia. Qualche anno fa, in qualità di docente, più volte mi sono sentito richiamare all’ordine da presidi che, timorosi delle pressioni sociali e soprattutto genitoriali, mi imponevano di non raccomandare agli adolescenti di prepararsi ad affrontare le spigolosità, le asprezze e le durezze della vita, tenendo conto solo delle loro capacità e delle loro forze, tenendo sempre pronte le loro valige per spiccare il volo alla prima occasione. Questo tipo di raccomandazioni e di lezioni non erano gradite ai loro genitori che avrebbero preferito fosse demandato ad essi tale genere di educazione.


Tale edulcorazione ideologica della realtà e dell’educazione italiana mi è divenuta sempre più chiara e lampante attraverso le mie numerose esperienze all’estero.
Qualche anno fa fui involontario testimone e protagonista di un episodio altamente significativo e formativo che, a distanza di anni, mi ha lasciato un segno indelebile.


Mi trovavo a Malta da solo e fui avvicinato da una persona che poi si rivelò essere il cognato del primo ministro maltese. Colpito dalla mia agilità comunicativa e dalle mie capacità di socializzazione rapida ed efficace, in una parola sola, dalla mia assenza di barriere, mi informò molto accuratamente sulla situazione politica maltese.


Ma non fu la sua descrizione della situazione maltese che mi colpì, bensì alcuni accenni a suo figlio. Malgrado suo figlio fosse a Londra per studiare e non lo avesse visto da numerosissimi anni, non solo per lui ciò non costituiva un problema, ma ci teneva anche ad evidenziare e a magnificare la bontà di tale scelta di vita e di studio. Confesso che allora fui scosso da un brivido di dubbio: sarei stato capace di fare altrettanto e i miei genitori avrebbero acconsentito con altrettanta apparente disinvoltura a che spiccassi, indisturbato, il volo per Londra, dato il contesto di riferimento protezionistico e assistenzialistico prevalente nel Bel Paese?


Qualche tempo dopo anch’io ho spiccato il volo, ma allora fui tormentato da un dilemma atroce che non credevo di poter risolvere e superare dato il contesto pedagogico ed formativo in cui vivevo ed agivo.


Un altro episodio emblematico e non dimenticabile mi capitò a New York.
Rimasi sbalordito, anzi traumatizzato quando dovetti assistere alla scena dell’allontanamento da casa di alcuni giovani tra i 16 e i 18 anni d’età. I loro genitori, senza alcun problema e alcun senso di colpa, li invitavano ad andarsene il più rapidamente possibile da casa perché era proprio il caso che si dessero da fare al più presto per trovare una loro autonoma e autosufficiente collocazione.


Quei ragazzi li ho visti letteralmente disperati, eppure al tempo stesso estremamente maturi e consapevoli e tali da accettare con dignità e serietà un destino loro assegnato da una comunità educante che non tollerava e non tollera deroghe ai principi di autonomia e autosufficienza dei giovani americani.

 

 

 

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