SUGLI EROI DELLA
RESISTENZA
GIORGIO LABÒ E L’ESPERIENZA GAPPISTA
di Andrea Fatticcioni
La scomparsa della “generazione
lunga dell’antifascismo”, come l’ha
definita Claudio Pavone, riafferma
la necessità di studi sulla
Resistenza che ricostruiscano con
precisione i contributi dei singoli.
Nelle analisi “dal basso”, si limita
il rischio di interpretazioni
viziate da considerazioni
ideologiche concentrandosi piuttosto
sulle ragioni dei soggetti studiati.
Gli avvenimenti del biennio
1943-1945 sono una frattura nella
memoria del paese e solo dagli anni
Novanta del Novecento, con la
cosiddetta “stagione degli armadi”,
si è reso disponibile un complesso
di fonti coeve adeguato alla
formazione di un campo
storiografico, che ha ormai
raggiunto piena maturità.
Oggi, la distanza temporale dagli
eventi favorisce la messa in
discussione dell’antifascismo come
valore fondante dell’identità
nazionale. Èsempre importante quindi
raccontare la Resistenza anche a un
pubblico di non specialisti, poiché
una conoscenza diffusa della
dimensione fattuale è necessaria per
evitare che pericolosi revisionismi
prendano piede.
In questo articolo si intende
trattare il contributo di Giorgio
Labò, giovane studente di
architettura genovese, ai Gruppi di
Azione Patriottica (GAP) di Roma. Il
comune di Genova gli ha dedicato una
piazza e, proprio nel centro
storico, il bel palazzo Grimaldi
(1322) ospita una fondazione
culturale dedicata a lui e a suo
padre. Tuttavia, su scala nazionale
non è molto noto e spesso non viene
menzionato tra i membri del GAP
“Pisacane”.
I GAP erano piccoli nuclei di
partigiani urbani formati
nell’ottobre del 1943 dal Partito
Comunista e dal Partito d’Azione.
Presenti nelle maggiori città
italiane, erano incaricati di
sabotaggi e azioni armate, volte a
delegittimare l’ordine pacificato
imposto dalle autorità nazifasciste.
I GAP “centrali” della capitale
erano composti da due reti: una
diretta da Carlo Salinari, distinta
nei due GAP “Antonio Gramsci”
e“Carlo Pisacane”, guidati
rispettivamente da Mario Fiorentini
e Rosario Bentivegna; l’altra
diretta da Franco Calamandrei e
composta dai GAP “Sozzi” e “Giuseppe
Garibaldi”. A capo delle reti fu
posto Antonello Trombadori, il quale
faceva riferimento a sua volta a
Giorgio Amendola. Dall’11 settembre
1943, Roma è “territorio in stato di
guerra e quindi soggetto alle leggi
militari germaniche”. In città
vengono collocate numerose unità in
attesa di essere impiegate sul
fronte meridionale, che rendono
particolarmente ostico il contesto
in cui, in ottobre, nascono i GAP.
Nato a Modena il 29 maggio 1919,
Giorgio Labò vive a Genova fin dalla
primissima infanzia. Il padre Mario
è un importante architetto, membro
del MIAR e consigliere comunale
socialista nel 1920. La madre,
Enrica Morpurgo, un’intellettuale
ebrea nata nella Trieste
austroungarica, autrice con il
marito di importanti traduzioni di
testi sull’architettura. I
pochissimi estratti del diario di
Giorgio, tra cui la Pagina di diario
per Antonio Sant’Elia, mostrano
l’elevatissimo profilo culturale del
ragazzo, cresciuto in una casa
frequentata da personalità come
Attilio Podestà e Lucio Fontana.
Terminato il liceo classico, nel
1938 si iscrive a ingegneria, per
spostarsi l’anno successivo al
Politecnico di Milano alla Facoltà
di Architettura. Ventenne, frequenta
gli ambienti artistici e letterari,
entrando nel gruppo Corrente. Scrive
d’architettura per Il Secolo XIX e
Il Resto del Carlino e collabora con
Eugenio Treccani. Deve interrompere
gli studi allo scoppio della Seconda
guerra mondiale, per arruolarsi nel
Genio Artificieri dove diventa
sergente e acquisisce esperienza con
gli esplosivi. Il 10 settembre 1940
scrive sul suo diario: «Ho
passato una giornata tremenda. Al
pomeriggio stravolto per l’uccisione
di un topo».
L’8 settembre 1943 si trova a Rieti
presso la trentaseiesima compagnia
Minatori, lasciata senza ordini come
moltissimi reparti dell’esercito
italiano. Vicino alla brigata
autonoma D’Ercole-Stalin, opera
nella zona di Poggio Mirteto,
Montopoli, Passo Corese, con compiti
disabotaggio lungo la linea
ferroviaria. Le fonti discordano sui
molti aspetti, ma sembra che abbia
partecipato alla distruzione di un
treno e di un ponte ferroviario alla
stazione di Poggio Mirteto. Il padre
ricorda però, come si trovasse poco
a suo agio nella zona e che il suo
frequente andirivieni tra le
campagne limitrofe e il borgo
provocasse la diffidenza dei suoi
compagni.
È interessante che Labò, spostandosi
a Roma, contribuisca alla peculiare
composizione “intellettuale” dei GAP
romani, diversa da quella “operaia”
di centri industriali come Torino e
Milano. Sono gappisti romani, ad
esempio, il fisico Giulio Cortini,
il matematico Mario Fiorentini, la
studentessa di lettere Maria Teresa
Regard.
Lamberto (questo il suo nome di
battaglia), pur riconoscendosi
pienamente come intellettuale, prova
disagio verso chi resta chiuso nel
suo mondo di “sogni, di sofismi, di
illusioni”. È consapevole della
difficoltà della scelta
resistenziale ma ne avverte la
necessità morale: «si è avvertito
che l’impegno morale della propria
dignità umana da salvare anche a
costo della vita soccorre la
mancanza di una naturale
disposizione fisica [...] Soltanto
la perdita di quella dignità
potrebbe pesare sulla vita: tanto se
impersonata dalla perdita della
libertà che dal rifiuto della
propria responsabilità».
Diceva: «Molti dei nostri amici
tendono al compromesso e lasciano
inalterata, per un pregiudizio di
superficiale onestà filosofica, per
un vano rispetto delle tradizioni
cosiddette o dei sacri schemi,
quella zona della loro mente in cui
hanno sempre coltivato come
abitudine fondamentale della loro
vita l’amore per l’arte o per la
filosofia o per altro. Ma essi non
sanno che noi non difenderemo
sinceramente e davvero un valore
della nostra posizione
d’intellettuali altrimenti che
scontando l’esperienza viva del
popolo nelle sue lotte e nelle sue
sconfitte per la rivoluzione, anche
a costo di uno sforzo di volontà
stridente e difficile [...]».
Labò era un intellettuale che venuto
a contatto con le idee progressive
del marxismo si era posto
chiaramente e senza equivoci il
problema del partito. E lo voleva
risolvere. E lo ha risolto, senza
inutili e retorici schemi,
nell’azione.
A novembre incontra a Roma Antonello
Trombadori. La sua esperienza con
gli esplosivi lo rende adatto ad
affiancare il giovane partigiano
Gianfranco Mattei nella produzione e
conservazione di ordigni, nella
piccola “Santabarbara” al secondo
piano del 23A di via Giulia.
Gianfranco (fratello di Teresa
Mattei) è un brillante chimico di
ventisei anni. Cresciuto negli
ideali di Giustizia e Libertà, era
iscritto dal 1942 al Partito
Comunista, l’unico secondo lui
capace di opporre resistenza al
regime.
Grazie a Labò e Mattei la capacità
offensiva del nucleo aumenta
esponenzialmente, fatto evidente
nell’attentato al Tribunale Militare
tedesco all’hotel Flora, in cui gli
occupanti subiscono un numero
imprecisato di perdite. Le
competenze di Mattei erano
fondamentali nell’ideazione di
ordigni con materiali di risulta,
Labò invece: «Lavorava attorno ai
suoi tubi di ghisa, alle sue
cassette di ferro, alacremente, con
le sue mani tozze. Poi aiutava a
trasportare gli ordigni fabbricati,
fino a destinazione. Quante volte
qualcuno lo avrà incontrato per una
via di Roma, senza sospettare che
sotto il suo cappotto a campana egli
celasse uno spezzone di dinamite
[...]».
Per mesi vivono dividendo le loro
giornate cercando al mattino gli
obiettivi da colpire, costruendo
bombe nell’ombra della piccola
officina nel pomeriggio,
partecipando spesso alle azioni vere
e proprie. Tra dicembre e gennaio
gli attacchi a mezzo esplosivo si
moltiplicano (28 dicembre, 24
gennaio, 30 gennaio) e la
repressione si intensifica: dopo
l’attentato al Tribunale, il
coprifuoco era stato imposto alle
17.00. Due giorni dopo un reparto di
SS e la bandaKoch, violando le norme
di diritto internazionale, irrompono
nel Collegio Russicum, in quello
Orientale e nel Collegio Lombardo,
arrestando undici persone. Tra il 27
e il 28 dicembre, il generale
Stahel, ritenuto inadatto ad
affrontare il problema del
partigianato, viene sostituito al
comando della città dal generale
Mältzer. Il 22 gennaio gli alleati
sbarcano ad Anzio e i tedeschi
dichiarano l’intera provincia di
Roma “zona di operazioni”.
Malgrado la situazione, Labò non
smetterà mai di pensare alla sua
passione; manterrà contatti con
personalità del calibro di Renato
Guttuso e Giulio Carlo Argan, senza
mai però informarli della sua
attività: «Ci troviamo a Ponte Sisto
[...] osserva i pilastri jonici,
disegnati come sulla tavola di rame
di una tavola scolastica [...] è un
osservatore sottile. Con Giorgio il
discorso cadeva quasi sempre
sull’architettura [...]. Si sarebbe
detto che passasse le sue giornate
in biblioteca, invece faceva le
bombe per i GAP. Quando gli fu
commissionato un articolo sui
rapporti tra comunismo e
architettura, Calamandrei ne ricorda
la gioia, mista all’amarezza per
lalontananza da un ritorno alla
normalità: c’era in lui, insomma,
l’ansia abbastanza consapevole di
riprendere il suo terreno, di
sciogliersi dall’avventura, e
l’impossibilità di sganciarsi
praticamente, e il vano sforzo di
farsi una ragione diquesta
condizione che gli si era
inavvertitamente imposta».
Ricostruire le circostanze del suo
arresto non è semplice. Secondo il
padre, un delatore di nome Giovanni
Amidei riferisce dell’attività di
due compagni di Giorgio. Potrebbero
essere GuidoRattoppatore e Umberto
Scattolini: i due membri del GAP
Pisacane vengono arrestatimentre si
stavano recando all’albergo Aquila
d’oro per un’azione antitedesca il28
gennaio 1944 e sono torturati nel
famigerato carcere di via Tasso, che
pochi giorni dopo ospiterà Labò e
Mattei. L’indicazione
dell’appartamento in via Giulia
potrebbe provenire da uno dei due,
anche perché l’unica altra gappista
arrestata a fine gennaio è Maria
Teresa Regard. È ragionevole
supporre che siano questi i due
compagni a cui si riferisce il padre
di Giorgio; inoltre, almeno
Rattoppatore sapeva sicuramente
della “Santabarbara”
L’ingresso della Gestapo, nel
pomeriggio del primo febbraio,
sorprende Labò e Mattei
nell’appartamento. Vengono arrestati
e torturati. Mattei, nella notte tra
il sei e il sette febbraio, si
impicca in cella con la cintura dei
pantaloni. Labò resiste oltre un
mese alla tortura, secondo il padre:
«Le mani strette dietro la
schiena; una sull'altra; deve
giacere bocconi per evitare che il
peso del suo corpo ricada in modo
insopportabile sulle mani tumefatte
e gonfie per il nodo strettissimo
della corda. Le mani sono diventate
livide ed enormi per il gonfiore; il
difetto di circolazione ha provocato
anche sul suo volto gonfiori e rose
di sangue. Attorno ai polsi un solco
putrido […] infezione, cancrena».
Il 7 marzo, detta una lettera al
cappellano: «Labò Giorgio di
Mario - nato a Modena il 29 maggio
1919 – studente in architettura.
Andare dal Prof. Argan, Via Giacinto
Carini 66 - Monteverde, filobus 129–
pregarlo di informare la famiglia
che lui è passato con la massima
serenità».
Quello stesso giorno, è trascinato a
braccia a Forte Bravetta dove viene
fucilato, all’età di ventiquattro
anni.
Riferimenti bibliografici:
AA. VV., Un sabotatore: Giorgio
Labò, Gangemi Editore, Roma
2015.
D. Borioli, R. Botta, Sulla
moralità nella Resistenza.
Conversazione con Claudio Pavone,
in Quaderno di Storia Contemporanea,
n. 10, 1991.
E. Colotti, Amministrazione
tedesca dell’Italia occupata 1943-45,
pubblicato nella collana storica
dell’Istituto per la storia del
movimento di liberazione, Lerici,
Milano 1963.
S. Peli, Storie di Gap.
Terrorismo urbano e Resistenza,
Einaudi, Torino 2014.