A
PROPOSITO DI GIORGO AGAMBEN
il valore della testimonianza
di
Gaetano Cellura
Cosa sia la contemplazione l’ha
capito ad Ajanta guardando il volto
di Buddha. Un istante eterno che
rende inoperosa la mente e, con la
mente, il corpo. Non riesci più a
distinguere tra l’una e l’altro in
quell’istante – “e questo è la
beatitudine”.
è
solo una delle perle di pensiero che
Giorgio Agamben ci regala nel suo
Quel che ho visto, udito, appreso:
pensieri brevi e velocemente
vergati, come appunti. Il
filosofo nato a Roma nel 1942 ha
visto che non c’è città del mondo
dove gli uomini non si calunniano e
accusano a vicenda, “senza requie né
pietà”.
A Parigi ha visto che “un fazzoletto
intorno alla testa di una ragazza
può scandalizzare più del poliziotto
che la uccide”. E a Le Thor,
guardando il cielo stellato, ha
promesso a quel cielo di restargli
sempre fedele. Nel piccolo comune
francese, dove Heidegger tiene dei
seminari ristretti dal 1966 al 1968,
Agamben afferra in tempo “l’ultimo
lembo della giacchetta della
filosofia occidentale”.
A Scicli, in Sicilia, le pietre gli
sono parse “più tenere della carne e
la paglia più luminosa del sole”.
Nei colori ha visto la felicità; e
nei quadri di Bonnard
l’intelligenza, che “può dar forma –
alla tela come alla vita”.
A Ponza il filosofo ha ascoltato la
Bibbia cantilenata da donne che
l’hanno appresa senza saper leggere,
solo per tradizione orale; a Roma ha
sentito qualcuno dire che la terra è
l’inferno dove finiscono i dannati
di un altro pianeta; e a San Giacomo
da l’Orio, udendo “la squilla
impetuosa” delle campane, ha capito
che si può dire qualcosa senza
bisogno di parlare e che dei due
modi che la chiesa ha di chiamare il
proprio popolo – l’altro è la voce –
il suono delle campane è il più
tenero e familiare.
E con le cose viste e udite ci sono
le tante cose apprese. Dalla vita,
dai filosofi e dai poeti più cari. E
le considerazioni che ne trae, come
lampi. Dallo stile di Platone ha
appreso l’importanza del mito,
indifferente al vero e al falso, per
il discorso filosofico. Da Spinoza i
due modi di considerare le cose:
eterne in Dio, limitate e finite
nello spazio e nel tempo. Per
dedurne che “amare veramente
qualcuno significa vederlo
simultaneamente in Dio e nel tempo”.
Dallo scrivere Agamben ha imparato
cos’è la felicità: non poetare, ma
essere poetati da chi non
conosciamo. Come ci dice Anna Maria
Ortese, scrivere è uscire dalla vita
adulta per tornare bambini. Da
Epicuro e da Fallot quel che conta
del piacere: “la sua misura minima,
la semplice, giornaliera sensazione
di esistere”.
Dagli italiani suoi contemporanei ha
preso la distrazione. Perché
attenzione non ne ha trovata. E dal
XXI secolo, dalla sua irrespirabile
aria, ci dice di essere tornato
subito indietro. Ma non nel XX cui
il nostro filosofo appartiene e da
cui era uscito per respirare,
“piuttosto in un tempo dentro il
tempo”. Privo di cronologia. L’unico
per il quale ora prova interesse.
Come la colomba, che uscita
dall’arca per vedere ciò che è
sopravvissuto al diluvio, pur non
trovando nulla di vivo, neppure “un
ramoscello di ulivo da prendere nel
becco”, nell’arca non è voluta
tornare.
Istante (di beatitudine o meno),
scarto, varco, non detto (o taciuto)
– parole che incontriamo spesso in
Agamben. Lo scarto è rappresentato
dal “fugace intermezzo” che
impieghiamo a riconoscere noi stessi
nello specchio, il nostro dileguante
io, “ombra sempre in congedo e in
annuncio”. Che ora viene e ora va,
come l’acqua che torna a lambire La
fondamenta delle Zattere. E dallo
specchio, proviene, dacché non siamo
angeli, la psicologia – e con la
psicologia le nostre ansie e
nevrosi.
Il varco (o soglia) è lo spazio dove
dadaisti e surrealisti collocano
l’artista, la “labile soglia” che
separa e nello stesso tempo unisce
“l’arte e la vita, la coscienza e
l’incoscienza”. E il non detto?
Il non detto (o taciuto) è quel che
rimane, inespresso, nel centro
segreto del pensiero di un
autore-testimone. Che se non vuol
decadere da questo suo rango a
quello di “autore-proprietario” deve
saper stabilire una relazione etica
con il non detto della sua
testimonianza, cogliere l’incerto
limite tra ciò che è riuscito a
scrivere e ciò che poteva soltanto
tacere.
In un altro libretto di pensieri
ardui, Quando la casa brucia,
Agamben ci parla di cosa intende per
testimonianza e del rapporto tra il
Regno (la teologia del governo cioè)
e la parola che lo annuncia: la
parola del profeta. Figura scomoda,
a sua volta, il profeta. Perché il
suo annuncio, se è oscuro, può
generare il malinteso.
Un malinteso che può ritorcersi
contro di lui e soprattutto contro
il Regno, separandolo “dal suo
popolo e dalla sua stessa vita”.
Quanto alla testimonianza, essa è
sempre vera (ovviamente non si parla
della testimonianza giuridica); e la
verità che contiene non è mai prima,
ma ultima o penultima: per questo,
come dice Celan,
Nessuno/testimonia per il testimone.
Perché egli si pone “alla fine dei
tempi, apostrofa un mondo che sta
per finire”, senza dunque
generazioni future che possono
confermare o smentire la sua verità:
il tempo di cui il testimone parla è
il passato che si porta dentro; e si
rivolge non ai suoi contemporanei ma
ai morti, che non possono
testimoniare né essere ingannati.
Testimone per eccellenza è il poeta
che non sfugge all’incontro
solitario e silenzioso con la
lingua, una lingua apparentemente
senza più discorso, connessione
logica, senza più mondo: ne fa
esperienza e per questo, come
Hölderlin, viene accusato di follia.
La testimonianza ha due facce:
quella del testimone e quella del
soggetto della conoscenza. Comincia
quando il soggetto della conoscenza
ammutolisce. E la sua verità dipende
non da quello che il testimone dice,
ma da ciò che tace.
In un libro del 1998, Quel che
resta di Auschwitz, Agamben
approfondisce questo suo pensiero:
attraverso la figura del “musulmano”
di cui non solo Primo Levi ma tutti
i testimoni hanno riconosciuto la
centralità. Dice che sullo sterminio
degli ebrei – conosciute le
circostanze storiche, giuridiche,
tecniche – resta una lacuna:
l’impossibilità di chiarirne
l’aspetto etico e politico.
Ma chi era il cosiddetto “musulmano”
di Auschwitz? Era l’internato
ridotto a un tale stato di apatia,
di assenza di coscienza d’aver
cessato di vivere prima di morire.
Questo internato resta ai margini
d’ogni scena disumana. E fuori dai
libri di storia. Dopo la liberazione
vengono mostrati i cadaveri, l’umano
infinitamente distrutto nei lager
nazisti, ma di fronte a questa
figura-simbolo anche la cinepresa
fugge. Uno sguardo appena per
tornare subito sui cadaveri. Perché?
Non è facile rispondere. Agamben
prova a farlo. Forse perché – una
delle risposte – l’immagine del
musulmano (o la sua descrizione) è
la più disumana. Oppure perché –
altra risposta – è lui il vero
testimone. Un testimone che, larva a
cui è ridotto, può solo ammutolire.
Non può dare testimonianza né
delegare qualcun altro a darla al
posto suo. Sulla rimozione di questa
figura, per Agamben, si misura il
fallimento dell’etica del Novecento.
Tradotto in tutto il mondo, Giorgio
Agamben è uno dei filosofi
contemporanei più significativi.
Notevole il suo progetto dell’Homo
sacer, che comprende nove
volumi. I suoi studi spaziano
dall’estetica alla politica, dalla
metafisica al linguaggio, dalla
poesia alla religione, da Benjamin a
Foucault, da Paolo di Tarso a Carl
Schmitt.
Per quasi un anno
ha
“vissuto” in totale isolamento con
il poeta romantico Hölderlin,
scrivendo della sua follia, della
sua vita “abituale e abitante”, e
commentandone i testi difficili.
Erano i mesi del lockdown:
“Congedandomi ora da lui, – scrisse
Agamben – la sua follia mi sembra
del tutto innocente rispetto a
quella in cui un’intera società è
precipitata senza accorgersene”.
Ha insegnato presso le università di
Macerata, Verona e Venezia e anche
in diverse università europee. Per
questo filosofo che non si è arreso
alla globalizzazione e allo
strapotere della tecnica, in cerca
della città perfetta e della lingua
che non ha mai regnato, la casa che
brucia è il mondo. Dunque anche
l’Europa. Dunque anche il paese in
cui viviamo.
Brucia da oltre un secolo in realtà:
dal fatidico 1914 per la storia del
mondo, dal ritorno della guerra
nella vecchia Europa. E ora la sua
fiamma si è fatta digitale. La casa
brucia da oltre un secolo, ma
fingiamo di non vederne il rogo
continuando a fare, fra le rovine,
le cose che abbiamo sempre fatto.
Resta nella casa che brucia la
lingua, la parola della poesia,
della filosofia, ultima
testimonianza “rimasta di quando non
sapevamo ancora parlare”. La più
giusta e vera perché non ha nessuna
possibilità di essere ascoltata.