[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

198 / GIUGNO 2024 (CCXXIX)


filosofia & religione

A PROPOSITO DI GIORGO AGAMBEN
il valore della testimonianza
di
Gaetano Cellura
 

Cosa sia la contemplazione l’ha capito ad Ajanta guardando il volto di Buddha. Un istante eterno che rende inoperosa la mente e, con la mente, il corpo. Non riesci più a distinguere tra l’una e l’altro in quell’istante – “e questo è la beatitudine”. è solo una delle perle di pensiero che Giorgio Agamben ci regala nel suo Quel che ho visto, udito, appreso: pensieri brevi e velocemente vergati, come appunti. Il filosofo nato a Roma nel 1942 ha visto che non c’è città del mondo dove gli uomini non si calunniano e accusano a vicenda, “senza requie né pietà”.

A Parigi ha visto che “un fazzoletto intorno alla testa di una ragazza può scandalizzare più del poliziotto che la uccide”. E a Le Thor, guardando il cielo stellato, ha promesso a quel cielo di restargli sempre fedele. Nel piccolo comune francese, dove Heidegger tiene dei seminari ristretti dal 1966 al 1968, Agamben afferra in tempo “l’ultimo lembo della giacchetta della filosofia occidentale”.

 

A Scicli, in Sicilia, le pietre gli sono parse “più tenere della carne e la paglia più luminosa del sole”. Nei colori ha visto la felicità; e nei quadri di Bonnard l’intelligenza, che “può dar forma – alla tela come alla vita”.

 

A Ponza il filosofo ha ascoltato la Bibbia cantilenata da donne che l’hanno appresa senza saper leggere, solo per tradizione orale; a Roma ha sentito qualcuno dire che la terra è l’inferno dove finiscono i dannati di un altro pianeta; e a San Giacomo da l’Orio, udendo “la squilla impetuosa” delle campane, ha capito che si può dire qualcosa senza bisogno di parlare e che dei due modi che la chiesa ha di chiamare il proprio popolo – l’altro è la voce – il suono delle campane è il più tenero e familiare.

 

E con le cose viste e udite ci sono le tante cose apprese. Dalla vita, dai filosofi e dai poeti più cari. E le considerazioni che ne trae, come lampi. Dallo stile di Platone ha appreso l’importanza del mito, indifferente al vero e al falso, per il discorso filosofico. Da Spinoza i due modi di considerare le cose: eterne in Dio, limitate e finite nello spazio e nel tempo. Per dedurne che “amare veramente qualcuno significa vederlo simultaneamente in Dio e nel tempo”.

 

Dallo scrivere Agamben ha imparato cos’è la felicità: non poetare, ma essere poetati da chi non conosciamo. Come ci dice Anna Maria Ortese, scrivere è uscire dalla vita adulta per tornare bambini. Da Epicuro e da Fallot quel che conta del piacere: “la sua misura minima, la semplice, giornaliera sensazione di esistere”.

 

Dagli italiani suoi contemporanei ha preso la distrazione. Perché attenzione non ne ha trovata. E dal XXI secolo, dalla sua irrespirabile aria, ci dice di essere tornato subito indietro. Ma non nel XX cui il nostro filosofo appartiene e da cui era uscito per respirare, “piuttosto in un tempo dentro il tempo”. Privo di cronologia. L’unico per il quale ora prova interesse. Come la colomba, che uscita dall’arca per vedere ciò che è sopravvissuto al diluvio, pur non trovando nulla di vivo, neppure “un ramoscello di ulivo da prendere nel becco”, nell’arca non è voluta tornare.

 

Istante (di beatitudine o meno), scarto, varco, non detto (o taciuto) – parole che incontriamo spesso in Agamben. Lo scarto è rappresentato dal “fugace intermezzo” che impieghiamo a riconoscere noi stessi nello specchio, il nostro dileguante io, “ombra sempre in congedo e in annuncio”. Che ora viene e ora va, come l’acqua che torna a lambire La fondamenta delle Zattere. E dallo specchio, proviene, dacché non siamo angeli, la psicologia – e con la psicologia le nostre ansie e nevrosi.

 

Il varco (o soglia) è lo spazio dove dadaisti e surrealisti collocano l’artista, la “labile soglia” che separa e nello stesso tempo unisce “l’arte e la vita, la coscienza e l’incoscienza”. E il non detto?

 

Il non detto (o taciuto) è quel che rimane, inespresso, nel centro segreto del pensiero di un autore-testimone. Che se non vuol decadere da questo suo rango a quello di “autore-proprietario” deve saper stabilire una relazione etica con il non detto della sua testimonianza, cogliere l’incerto limite tra ciò che è riuscito a scrivere e ciò che poteva soltanto tacere.

 

In un altro libretto di pensieri ardui, Quando la casa brucia, Agamben ci parla di cosa intende per testimonianza e del rapporto tra il Regno (la teologia del governo cioè) e la parola che lo annuncia: la parola del profeta. Figura scomoda, a sua volta, il profeta. Perché il suo annuncio, se è oscuro, può generare il malinteso.

 

Un malinteso che può ritorcersi contro di lui e soprattutto contro il Regno, separandolo “dal suo popolo e dalla sua stessa vita”. Quanto alla testimonianza, essa è sempre vera (ovviamente non si parla della testimonianza giuridica); e la verità che contiene non è mai prima, ma ultima o penultima: per questo, come dice Celan, Nessuno/testimonia per il testimone.

 

Perché egli si pone “alla fine dei tempi, apostrofa un mondo che sta per finire”, senza dunque generazioni future che possono confermare o smentire la sua verità: il tempo di cui il testimone parla è il passato che si porta dentro; e si rivolge non ai suoi contemporanei ma ai morti, che non possono testimoniare né essere ingannati.

 

Testimone per eccellenza è il poeta che non sfugge all’incontro solitario e silenzioso con la lingua, una lingua apparentemente senza più discorso, connessione logica, senza più mondo: ne fa esperienza e per questo, come Hölderlin, viene accusato di follia. La testimonianza ha due facce: quella del testimone e quella del soggetto della conoscenza. Comincia quando il soggetto della conoscenza ammutolisce. E la sua verità dipende non da quello che il testimone dice, ma da ciò che tace.

In un libro del 1998, Quel che resta di Auschwitz, Agamben approfondisce questo suo pensiero: attraverso la figura del “musulmano” di cui non solo Primo Levi ma tutti i testimoni hanno riconosciuto la centralità. Dice che sullo sterminio degli ebrei – conosciute le circostanze storiche, giuridiche, tecniche – resta una lacuna: l’impossibilità di chiarirne l’aspetto etico e politico.

 

Ma chi era il cosiddetto “musulmano” di Auschwitz? Era l’internato ridotto a un tale stato di apatia, di assenza di coscienza d’aver cessato di vivere prima di morire. Questo internato resta ai margini d’ogni scena disumana. E fuori dai libri di storia. Dopo la liberazione vengono mostrati i cadaveri, l’umano infinitamente distrutto nei lager nazisti, ma di fronte a questa figura-simbolo anche la cinepresa fugge. Uno sguardo appena per tornare subito sui cadaveri. Perché?

 

Non è facile rispondere. Agamben prova a farlo. Forse perché – una delle risposte – l’immagine del musulmano (o la sua descrizione) è la più disumana. Oppure perché – altra risposta – è lui il vero testimone. Un testimone che, larva a cui è ridotto, può solo ammutolire. Non può dare testimonianza né delegare qualcun altro a darla al posto suo. Sulla rimozione di questa figura, per Agamben, si misura il fallimento dell’etica del Novecento.

 

Tradotto in tutto il mondo, Giorgio Agamben è uno dei filosofi contemporanei più significativi. Notevole il suo progetto dell’Homo sacer, che comprende nove volumi. I suoi studi spaziano dall’estetica alla politica, dalla metafisica al linguaggio, dalla poesia alla religione, da Benjamin a Foucault, da Paolo di Tarso a Carl Schmitt.

 

Per quasi un anno ha “vissuto” in totale isolamento con il poeta romantico Hölderlin, scrivendo della sua follia, della sua vita “abituale e abitante”, e commentandone i testi difficili. Erano i mesi del lockdown: “Congedandomi ora da lui, – scrisse Agamben – la sua follia mi sembra del tutto innocente rispetto a quella in cui un’intera società è precipitata senza accorgersene”.

Ha insegnato presso le università di Macerata, Verona e Venezia e anche in diverse università europee. Per questo filosofo che non si è arreso alla globalizzazione e allo strapotere della tecnica, in cerca della città perfetta e della lingua che non ha mai regnato, la casa che brucia è il mondo. Dunque anche l’Europa. Dunque anche il paese in cui viviamo.

 

Brucia da oltre un secolo in realtà: dal fatidico 1914 per la storia del mondo, dal ritorno della guerra nella vecchia Europa. E ora la sua fiamma si è fatta digitale. La casa brucia da oltre un secolo, ma fingiamo di non vederne il rogo continuando a fare, fra le rovine, le cose che abbiamo sempre fatto.

 

Resta nella casa che brucia la lingua, la parola della poesia, della filosofia, ultima testimonianza “rimasta di quando non sapevamo ancora parlare”. La più giusta e vera perché non ha nessuna possibilità di essere ascoltata.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]