N. 123 - Marzo 2018
(CLIV)
RICORDANDO GIORDANO BRUNO
IN MEMORIA DI UN FILOSOFO FINITO SUL ROGO
di Umberto Vitiello
Nel
1862,
un
anno
dopo
l’Unità
d’Italia,
venne
inaugurata
a
Nola,
nell’odierna
piazza
Giordano
Bruno,
una
statua
dello
scultore
Raffaele
De
Crescenzo
raffigurante
il
grande
filosofo
e
monaco
domenicano
nato
nella
cittadina
campana
tre
secoli
prima,
nel
gennaio
1548.
Ogni
anno,
in
occasione
delle
ricorrenza
della
morte
di
Giordano
Bruno
(arso
vivo
il
17
febbraio
1600
in
Campo
de’
Fiori,
a
Roma),
nonché
quando
si
tiene
a
Nola
un
convegno
dedicato
a
tale
personaggio,
organizzato
dal
comune,
dal
liceo
o
dal
circolo
che
porta
il
suo
nome,
davanti
alla
suddetta
statua
viene
deposta
una
corona
di
alloro.
Più
nota
e
con
una
storia
ben
più
complessa
e
travagliata
è
invece
la
statua
di
bronzo
dello
scultore
Ettore
Ferrari
in
Campo
de’
Fiori
a
Roma,
nel
luogo
dove
Giordano
Bruno
fu
arso
vivo
il
17
febbraio
del
1600,
inaugurata
il 9
giugno
1889,
vari
anni
dopo
la
breccia
di
Porta
Pia
e la
conquista
di
Roma,
avvenuta
il
20
settembre
del
1870.
La
statua
è
posta
su
di
un
basamento
di
granito
ricoperto
da
otto
medaglioni
di
bronzo
coi
ritratti
di
liberi
pensatori
e da
tre
riquadri
con
gli
episodi
più
significativi
della
vita
del
filosofo
di
Nola.
Giordano
Bruno
vi è
raffigurato
in
un
atteggiamento
di
profonda
riflessione,
le
mani
incrociate
su
un
libro
e lo
sguardo
fisso
davanti
a
sé.
Una
statua
era
già
stata
eretta
durante
la
Repubblica
Romana
del
1849,
ma
fu
fatta
distruggere
da
Pio
IX
subito
dopo
la
restaurazione
dello
Stato
Pontificio.
L’idea
di
realizzare
di
nuovo
una
statua
di
Giordano
Bruno
ed
erigerla
in
Campo
de’
Fiori
a
Roma,
piazza
famosa
per
le
esecuzioni
capitali
ordinate
dai
tribunali
della
Chiesa,
fu
inizialmente
di
studenti
universitari
romani,
ai
quali
presto
si
unirono
studenti
universitari
di
Napoli,
Pisa
e
altre
città
conquistati
dal
significato
di
libertà
e di
laicismo
che
Giordano
Bruno
aveva
assunto
durante
il
Risorgimento,
in
particolar
modo
a
partire
dalla
Repubblica
Romana
del
1849
e
rafforzatosi
con
la
diffusione
delle
idee
di
Mazzini.
I
gruppi
di
studenti
universitari
si
trasformarono
con
gli
anni
in
due
comitati
universitari
internazionali,
sorti
rispettivamente
nel
1876
e
nel
1884
che,
per
raccogliere
la
somma
necessaria
alla
realizzazione
del
monumento,
formarono
un
comitato
promotore,
al
quale
aderirono
illustri
politici
e
uomini
di
cultura
italiani
ed
europei,
tra
cui
Antonio
Labriola,
Francesco
De
Sanctis,
Giuseppe
Garibaldi,
Giovanni
Bovio,
il
russo
Michail
Bakunin,
il
norvegese
Henrik
Ibsen,
il
britannico
Herbert
Spencer,
i
francesi
Victor
Hugo
e
l’avvocato
e
giornalista
socialista
Armand
Lévy,
fuggito
da
Parigi
e
rifugiatosi
a
Roma
dopo
la
caduta
della
“Commune”
del
1871.
Il
comitato
promotore
fu
in
tal
modo
particolarmente
rinvigorito
e
ottenne
presto
maggiore
ascolto
e
attenzione
da
parte
delle
autorità
statali
insediatesi
a
Roma,
divenuta
la
nuova
e
definitiva
capitale
dell’Italia
unita.
E
con
le
proprie
pressioni
contribuì
a
far
dimettere
il
consiglio
comunale
romano
a
maggioranza
filoclericale,
sostituito
con
l’elezione
di
un
nuovo
consiglio
a
maggioranza
del
tutto
diversa.
Come
è
noto,
dopo
la
breccia
di
Porta
Pia
e la
conquista
di
Roma
del
20
settembre
1870
il
papa
Pio
IX
non
aveva
accettato
la
Legge
delle
Guarentigie
del
13
maggio
del
1871
con
cui
il
governo
italiano
gli
riconosceva
onori
sovrani,
la
facoltà
di
disporre
di
forze
armate,
l’extra-territorialità
dei
palazzi
del
Vaticano,
del
Laterano
e
del
Castel
Gandolfo,
una
dotazione
annua
di
tre
milioni
di
lire
e la
piena
autonomia
della
Chiesa,
nel
rispetto
della
sua
separazione
dallo
Stato.
Pio
IX
aveva
risposto
con
un
rifiuto
e
scomunicando
i
Savoia,
mentre
nel
1874
emanò
la
bolla
papale
“Non
expedit”
con
la
quale
invitava
i
cattolici
a
non
partecipare
alla
vita
politica
dello
Stato
Italiano.
Quattro
anni
dopo
Pio
IX
morì
e al
suo
posto
il
conclave
elesse
Leone
XIII,
ma
la
situazione
non
cambiò
affatto.
Con
la
rimozione
verso
la
fine
del
1887
da
parte
del
governo
Crispi
del
sindaco
di
Roma
Leopoldo
Torlonia,
rivelatosi
troppo
legato
alla
Chiesa,
e
dopo
varie
manifestazioni
studentesche
e
popolari
durante
le
quali
i
favorevoli
alla
statua
si
scontravano
con
coloro
che
erano
contrari,
manifestazioni
che
si
concludevano
quasi
sempre
con
arresti
e
feriti,
il 9
giugno
del
1889
fu
finalmente
inaugurato
il
Monumento
a
Giordano
Bruno
in
Campo
de’
Fiori
a
Roma.
Mentre
Leone
XIII,
contrario
alla
realizzazione
dell’opera,
rimase
per
tutto
il
giorno
in
ginocchio
a
pregare
davanti
alla
statua
di
San
Pietro,
chiedendo
la
sua
intercessione
con
Dio
per
sconfiggere
“la
lotta
ad
oltranza
contro
la
religione
cattolica”.
L’anno
dopo,
il
17
febbraio,
giorno
in
cui
nel
1600
Giordano
Bruno
fu
arso
vivo,
molti
si
radunarono
in
Campo
de’
Fiori
accanto
alla
sua
statua,
divenuta
simbolo
del
libero
pensiero
che,
come
libero
arbitro,
è il
concetto
filosofico
e
teologico
secondo
il
quale
ogni
persona
ha
il
potere
di
scegliere
da
sé
gli
scopi
del
proprio
pensare
ed
agire.
La
manifestazione
del
17
febbraio
si
ripeté
poi
ogni
anno,
fino
all’avvento
del
fascismo
e ai
Patti
Lateranensi
tra
il
Regno
d’Italia
e la
Santa
Sede,
firmati
l’11
febbraio
1929
da
Benito
Mussolini
e il
cardinale
Segretario
di
Stato
Pietro
Gasparri.
Dall’anno
dopo
Mussolini
vietò
questa
manifestazione
e
fece
istituire
un
mercato
rionale
a
Campo
de’
Fiori
con
bancarelle
che
nascondessero
almeno
in
parte
la
statua
del
filosofo
di
Nola.
Dopo
la
caduta
del
fascismo
e il
ritorno
dell’Italia
alla
democrazia,
mentre
il
mercato
rionale
nessuno
è
mai
riuscito
a
trasferirlo
altrove,
la
manifestazione
dei
liberi
pensatori
davanti
alla
statua
di
Giordano
Bruno
del
17
febbraio
è
stata
presto
ripristinata
dall’Associazione
Nazionale
del
Libero
Pensiero
“Giordano
Bruno”,
alla
quale
prendono
parte
anche
non
pochi
cattolici,
soprattutto
dopo
il
Concilio
Vaticano
II
del
1962–1965,
iniziato
con
un
discorso
di
Giovanni
XXIII,
il
papa
che
l’ha
voluto,
di
cui
sono
ben
significative
queste
parole:
«Oggi
la
sposa
di
Cristo
[la
chiesa]
preferisce
ricorrere
al
rimedio
della
misericordia
piuttosto
che
brandire
le
armi
della
severità»,
e
dopo
che
il
papa
polacco
Giovanni
Paolo
II,
che
da
giovane
cardinale
aveva
preso
parte
attiva
al
Concilio
Vaticano
II,
il
12
marzo
dell’anno
santo
2000,
prima
domenica
di
quaresima,
durante
una
solenne
celebrazione
eucaristica
in
San
Pietro
ha
chiesto
perdono
al
Signore
per
i
peccati
passati
e
presenti
commessi
dalla
Chiesa
Cattolica
facendo
ricorso
a
metodi
non
evangelici,
in
particolar
modo
nelle
crociate,
iniziate
nel
1096,
nella
crociata
indetta
dal
papa
Innocenzo
III contro i
pacifici
albigesi
in
Francia
nella
prima
metà
del
13°
secolo,
nelle
tante
Guerre
di
Religione
tra
cristiani
(l’ultima
delle
quali,
quella
tra
cattolici
e
protestanti
nel
Nord
Irlanda,
è
terminata
solo
alla
fine
degli
anni
novanta
del
XX
secolo)
e
nelle
sentenze
di
morte
della
Santa
Inquisizione.
Fondata
dalla
Santa
Sede
tra
la
fine
del
XII
e
gli
inizi
del
XIII
secolo
per
reprimere
le
eresie,
come
quella
dei
Catari
o
Albigesi
in
Francia,
la
Santa
Inquisizione
era
stata
trasformata
nel
1564
da
Paolo
III
e
chiamata
Sant’Ufficio,
ovvero
“Suprema
Congregazione
del
Sant’Ufficio”,
per
combattere
la
riforma
luterana
nata
nel
1517
e
diffusasi
in
pochi
anni
in
varie
regioni
europee.
La
Suprema
Congregazione
del
Sant’Ufficio
fu
poi
più
volte
rimodellata,
in
particolar
modo
dopo
il
Concilio
di
Trento
del
1545-1563,
e
infine
riformata
radicalmente
da
Pio
VI
cambiandone
la
denominazione
in
“Sacra
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede”
il 7
dicembre
1965,
il
giorno
prima
della
chiusura
del
Concilio
Vaticano
II.
L’occupazione
nazista
del
suo
Paese,
iniziata
nel
settembre
del
1939,
quando
aveva
compiuto
da
poco
19
anni,
e
l’arrivo
delle
armate
rosse
nel
novembre
dello
stesso
anno,
che
trasformarono
la
Polonia
in
uno
Stato
satellite
dell’Unione
Sovietica,
resero
Karol
Józef
Wojtyła,
il
futuro
papa
polacco
Giovanni
Paolo
II,
ben
consapevole
di
cosa
comporta
nella
realtà
di
un
regime
dittatoriale
di
destra
come
di
sinistra
il
divieto
del
libero
arbitrio
e
l’imposizione
del
pensiero
unico
con
la
condanna
al
confino,
al
campo
di
concentramento
o
alla
morte
di
chi
non
vi
si
attiene.
Per
cui
una
volta
divenuto
vicario
di
Cristo
non
poté
non
riflettere
sulla
storia
della
Chiesa
dei
secoli
bui
dell’Inquisizione
con
le
sue
tremende
sentenze,
che
spesso
comportavano
l’esecuzione
capitale
più
atroce
per
un
essere
umano:
la
condanna
ad
essere
arso
vivo.
Nel
nuovo
catechismo
della
Chiesa
Cattolica,
approvato
il
15
agosto
1997
dallo
stesso
papa
Giovanni
Paolo
II,
non
a
caso
all’articolo
3,
intitolato
“La
libertà
dell’uomo”,
viene
ribadito
che
Dio
ha
creato
l’uomo
ragionevole
conferendogli
la
dignità
di
una
persona
dotata
dell’iniziativa
e
della
padronanza
dei
suoi
atti.
«Dio
volle,
infatti,
lasciare
l’uomo
"in
balia
del
suo
proprio
volere"
(Sir 15,14)
perché
così
esso
cerchi
spontaneamente
il
suo
Creatore
e
giunga
liberamente,
con
l’adesione
a
lui,
alla
piena
e
beata
perfezione
». «
L’uomo
è
dotato
di
ragione,
e in
questo
è
simile
a
Dio,
creato
libero
nel
suo
arbitrio
e
potere
».
Da
cui
ne
deriva
la
libertà
di
religione
e il
rispetto
per
chiunque
pratichi
una
religione
diversa
da
quella
cattolica.
Conseguentemente
il
12
febbraio
2001
la
pena
di
morte
viene
abolita
nello
Stato
della
Città
del
Vaticano
con
la
revisione
della
“Legge
Fondamentale”,
l’equivalente
della
nostra
Costituzione,
firmata
anch’essa
dal
papa
polacco
Giovanni
Polo
II.
Oggi
dunque
Giordano
Bruno
non
sarebbe
potuto
essere
condannato
a
morte,
ma
neppure
essere
processato
dalla
Santa
Sede,
poiché
aveva
rinunciato
alla
vita
di
monaco
abbandonando
l’abito
domenicano,
e
ritornato
alla
vita
laicale
aveva
ripreso
il
suo
nome
di
battesimo.
Giordano
Bruno
nacque
a
Nola,
città
a
pochi
chilometri
da
Napoli,
nel
gennaio
del
1548
e il
suo
nome
era
Filippo,
ch’egli
cambiò
in
Bruno
una
volta
iniziata
la
propria
vita
monastica
nel
convento
napoletano
di
San
Domenico
Maggiore,
casa
madre
dei
domenicani
dell’intero
Vicereame
spagnolo
con
Napoli
capitale.
Il
15
giugno
1565
fu
nominato
novizio
e il
16
giugno
dell’anno
dopo,
a 18
anni,
divenne
professo
con
la
solenne
promessa
di obbedire
al
Maestro
Generale
secondo
la
Regola di San’Agostino
e le
Costituzioni
dell’Ordine.
Di
spirito
profondamente
perlustrativo
e
meditativo,
non
passarono
che
pochi
anni
quando
cominciò
ad
avere
alcune
perplessità
teologiche,
in
particolar
modo
sulla
dottrina
trinitaria
e su
quella
dell’incarnazione.
Confidandoli
ai
confratelli,
i
suoi
dubbi
vennero
presto
a
conoscenza
anche
dei
superiori
che,
rivelatisi
vani
i
loro
tentativi
di
fargli
accettare
senza
riserve
quelli
che
per
loro
erano
dogmi
indiscussi
della
fede,
cercarono
di
intimorirlo
informandolo
che
se
non
cambiava
atteggiamento
rimettendosi
ai
loro
consigli
avrebbero
dovuto
accusarlo
di
eresia
e
denunciarlo
alla
Santa
Inquisizione.
E
lui,
non
avendo
nessuna
intenzione
di
rinunciare
alla
libertà
di
pensiero
e di
ricerca
personale
della
verità,
decise
di
allontanarsi
dal
convento
e da
Napoli
e si
trasferì
a
Roma,
nel
convento
domenicano
di
Santa
Maria
sopra
Minerva.
Dove
un
giorno
apprese
che
a
Napoli
stavano
istruendo
contro
di
lui
un
processo
per
eresia.
Decise
allora
di
togliersi
l’abito
bianco
e il
mantello
nero,
abbandonò
la
vita
monastica
e
riprese
il
suo
nome
di
battesimo,
Filippo.
Era
il
1576,
aveva
28
anni
e
non
tardò
a
capire
che,
ritornato
alla
vita
laicale
senza
averne
ottenuta
l’autorizzazione,
a
Roma
era
più
in
pericolo
che
a
Napoli.
E
nel
mese
di
aprile
dello
stesso
1576
se
me
andò
a
Genova,
da
dove
si
trasferì
poco
dopo
a
Noli,
dove
per
alcuni
mesi
insegnò
grammatica
ai
bambini
e
cosmografia
agli
adulti.
L’anno
dopo
è a
Savona,
da
dove
si
spinge
fino
a
Torino
e a
Venezia.
Qui
nel
1578
gli
stampano
il
suo
primo
libro:
“De’
segni
de’
tempi”,
opera
di
cui
non
si è
finora
riusciti
a
ritrovarne
neppure
una
copia.
Per
la
peste
che
incombe
nella
città
lagunare
facendo
migliaia
di
morti,
se
ne
va a
Padova,
dove
consigliato
da
alcuni
domenicani
indossa
di
nuovo
l’abito
di
monaco
e si
trasferisce
nel
convento
domenicano
di
Brescia.
Da
qui,
nell’estate
dello
stesso
anno,
parte
per
andarsene
in
Francia,
dove
trascorre
pochi
mesi
nel
convento
domenicano
di
Chambéry
in
Savoia
e
verso
la
fine
dell’anno
si
trasferisce
a
Ginevra.
In
questa
città
svizzera
abbandona
di
nuovo
l’abito
domenicano
e
abbraccia
per
alcuni
mesi
la
fede
calvinista,
come
diversi
italiani
che
vi
si
erano
da
tempo
rifugiati.
Il
marchese
napoletano
Galeazzo
Caracciolo
ventisei
anni
prima
a
Ginevra
aveva
fondato
una
comunità
evangelica
italiana.
Se
ne
andò
poi
a
Tolosa
e da
Tolosa
si
trasferì
a
Parigi,
dove
godette
della
protezione
del
re
Enrico
III.
Nella
capitale
della
Francia
nel
1582
pubblicò
“De
umbris
idearum”
(Le
ombre
delle
idee),
un
libro
in
latino
che
conteneva
anche
“Ars
memoriae”
(L’arte
della
memoria)
,
un
trattato
di
mnemotecnica
dedicato
al
re
di
Francia
che
l’aveva
voluto
a
corte
come
membro
del
collegio
dei
lettori
reali
allo
scopo
di
avere
la
dimostrazione
delle
sue
capacità
mnemoniche.
Nello
stesso
anno
a
Parigi
pubblicò
anche
il
“Candelaio”,
una
commedia
di
cinque
atti
concepita
già
nel
1576,
l’anno
in
cui
Giordano
Bruno
abbandonò
per
la
prima
volta
la
vita
monastica.
Ambientata
a
Napoli
nei
pressi
di
San
Domenico
Maggiore,
la
chiesa
col
monastero
domenicano
dove
Giordano
Bruno
aveva
trascorso
più
di
dieci
anni,
è
una
satira
mordace
sulle
passioni
che
indeboliscono
e
talvolta
addirittura
sconvolgono
la
ragione
umana.
Nell’aprile
del
1583,
se
ne
andò
in
Inghilterra,
dove
rimase
fino
al
1585
e
dove
insegnò
per
alcuni
mesi
a
Oxford.
A
Londra
nel
1584
pubblicò
in
lingua
italiana
il
suo
primo
dialogo
filosofico:
la
“Cena
de
le
ceneri”,
dedicata
a
Michel
de
Casteinau,
l’ambasciatore
francese
che
l’ospitava.
La
cena
sembra
che
si
sia
svolta
realmente
la
sera
delle
Ceneri,
primo
giorno
di
quaresima
del
1584,
tenutasi
nell’abitazione
del
poeta,
drammaturgo
e
politico
inglese
Fulke
Greville.
Giordano
Bruno
vi
sarebbe
stato
invitato
per
esporvi
il
suo
pensiero
sull’eliocentrismo.
L’opera
collegandosi
alla
teoria
copernicana
descrive
un
universo infinito
nel
quale
il divino è
onnipresente
e
la materia eterna
è in
continua
trasformazione.
Nello
stesso
anno
1584
Giordano
Bruno
pubblicò
a
Londra
anche
“De
la
causa
principio
et
uno”,
opera
anch’essa
in
italiano
e
dedicata
all’ambasciatore
di
Francia,
in
cui
proseguendo
l’esposizione
iniziata
con
la
“Cena
de
le
ceneri”
spiega
la
sua
concezione
della
realtà.
Dio,
liberato
da
ogni
trascendenza,
vi
viene
presentato
come
la
stessa
natura,
una
potenzialità
infinita
e
una
infinita
attualità,
“vera
essenza
de
l’essere
tutto”.
Per
cui
una
è la
sostanza
che
genera
ogni
aspetto
della
realtà
e
uno
è lo
Spirito
artefice,
principio
di
ogni
cosa
e
infinita
forza
vitale.
L’Essere
non
è
soltanto
in
sé,
ma è
anche
in
quanto
conosciuto
e
moralmente
valutato
per
divenire
il
Vero
nella
conoscenza
e il
Bene
nella
valutazione
morale,
generando
nell’uomo
che
lo
contempla
"eccellenza
della
propria
umanitate".
L’opera
“De
l’infinito
universo
et
mundi”
con
le
due
precedenti
opere
forma
la
trilogia
dei
grandi
dialoghi
filosofici
in
lingua
italiana
pubblicati
a
Londra
nel
1784,
anche
se
sul
frontespizio
di
questa
è
scritto
Venezia.
Il
mondo
chiuso,
gerarchico
e
rassicurante
di
Aristotele
e
della
Bibbia,
capovolto
da
Copernico,
diventa
in
questo
saggio
di
Giordano
Bruno
uno
dei
tanti
infiniti
mondi.
Tutto
si
relativizza.
Ogni
cosa,
anche
la
più
piccola
e la
più
umile,
è al
centro
del
proprio
mondo,
ma
in
un
universo
senza
centro
e
senza
confini.
Una
convinzione
che
nasce
e si
sviluppa
non
solo
dalle
nuove
conoscenze
astronomiche,
ma
anche
e in
particolar
modo
da
argomentazioni
metafisiche:
la
realtà,
creatura
di
Dio,
è
infinita
perché
infinita
è la
sua
causa.
A
Londra
Giordano
Bruno
pubblicò
anche
“Spaccio
della
bestia
trionfante”
e
“Degli
eroici
furori”,
entrambi
in
lingua
italiana,
detti
“dialoghi
londinesi”
come
i
tre
saggi
precedenti.
“Spaccio
della
bestia
trionfante”,
stampato
nella
tipografia
di
John
Charlewood
nel
1584
anche
se
sul
frontespizio
è
detto
stampato
a
Parigi,
è un
saggio
di
tre
dialoghi
che
sollecita
una
riforma
morale
contro
chi
“spaccia”
simboli
e
culti
negativi
che
devastano
l’animo
umano,
riforma
innestata
in
una
storia
mitologica
in
cui
per
liberare
i
cieli
dallE
bestie
che
hanno
dato
nome
alle
costellazioni,
simboli
delle
false
virtù,
Giove
convoca
gli
dei
per
ricordargli
che
i
culti
sono
stati
da
loro
istituiti
per
far
vivere
gli
uomini
in
pace,
per
cui
non
esistono
religioni
vere
e
religioni
false,
ma
religioni
utili
e
religioni
dannose.
Le
religioni
vanno
dunque
giudicate
per
gli
effetti
che
producono
nella
società
degli
uomini.
E
tale
operazione
è
possibile
solo
se
il
culto
religioso
che
ha
per
scopo
la
pace
tra
gli
uomini
è al
servizio
dello
Stato.
Mentre
“Degli
eroici
furori”,
pubblicato
a
Londra
nel
1585
e
suddiviso
in
due
parti
di
cinque
dialoghi
ciascuno,
è un
saggio
filosofico
con
uso
di
emblemi
e
poesia,
in
cui
vengono
descritti
tre
“furori”:
1)
l’amore
per
la
vita
dedita
al
piacere,
2)
l’amore
per
la
vita
attiva,
3)
l’amore
per
la
vita
contemplativa.
I
primi
due
sarebbero
per
gli
uomini
“di
barbaro
ingegno”,
mentre
il
terzo
è un
“furore
eroico”,
avendo
come
scopo
finale
la
contemplazione
della
bellezza
divina
che
si
manifesta
in
un
universo
infinito,
animato
da
un
divino
onnipresente
irraggiungibile.
“Furore
eroico”
anche
perché
l’uomo,
che
ha
come
fine
più
alto
la
conoscenza
della
verità,
è
mosso
da
una
passione
impetuosa
che
lo
spinge
sempre
più
avanti.
Nel
mese
di
aprile
del
1588
Giordano
Bruno
si
trasferisce
a
Praga,
allora
città
sede
del
Sacro
Romano
Impero,
e vi
pubblica
in
un
unico
volume
“De
lulliano
specie
rum
scrutino“
e
“De
lampade
combinatoria
Raymundi
Lullii”.
Nel
mese
di
agosto
dello
stesso
anno
1588
se
ne
va
in
Germania
e a
Francoforte
sul
Meno
nel
1590
pubblica
i
poemi
latini
“De
minimo”
(formato
da
cinque
libri
in
cui
“minimo”
significa
essere
indivisibile
e
viene
distinto
in
tre
tipi:
il
minimo
fisico,
l’atomo,
che
è
alla
base
della
scienza
della
fisica,
il
minimo
geometrico,
il
punto,
che
è
alla
base
della
geometria,
e il
minimo
metafisico,
o
monade,
che
è
alla
base
della
metafisica),
“De
monade”
(un
richiamo
alle
tradizioni
pitagoriche
secondo
le
quali
ogni
movimento
trasforma
le
cose
per
la
presenza
di
principi
interni,
numerici
e
geometrici)
e
“De
immenso
et
innumerabilibus”
(
nei
cui
otto
libri
Giordano
Bruno
ripropone
la
propria
teoria
cosmologica
che
approva
la
teoria
copernicana
eliocentrica,
ma
rifiuta
l’esistenza
delle
sfere
cristalline
e
degli
epicicli
col
ribadire
la
concezione
dell’infinità
e
della
molteplicità
dei
mondi).
Nel
1591
Giordano
Bruno
pubblica
poi
“De
triplici
minimo
et
mensura”
(l’esposizione
della
sua
concezione
atomistica
della
realtà)
e
l’ultima
opera
la
cui
pubblicazione
fu
curata
da
lui:
il
“De
imaginum,
signorum
et
idearum
compositione”
(punto
d’arrivo
di
tutta
la
riflessione
mnemotecnica
di
Giordano
Bruno
con
uno
stupefacente
uso
delle
immagini,
che
ripropone
in
termini
nuovi
e
originali
il
problema
del
rapporto
fra
mente,
figura
e
parola).
Nel
1591
il
libraio
Giambattista
Ciotti
venuto
alla
fiera
del
libro,
che
allora
come
oggi
si
teneva
a
Francoforte,
consegna
a
Giordano
Bruno
una
lettera
del
nobile
e
uomo
politico
Giovanni
Francesco
Moncenigo
con
la
quale
lo
invita
a
soggiornare
a
Venezia
in
casa
sua
e
insegnargli
i
segreti
della
memoria
e
“li
altri
che
egli
professa”.
Giordano
Bruno
accetta
e si
reca
da
lui
a
Venezia
in
quello
stesso
anno
1591,
non
imprudentemente
–
come
dichiarano
alcuni
storici
– ma
forse
convinto
che
la
Santa
Inquisizione
in
quella
città
fosse
talmente
limitata
nei
propri
poteri
da
risultare
quasi
inesistente.
E
l’anno
dopo
deve
suo
malgrado
ricredersi.
Quando
decide
di
tornarsene
a
Francoforte
in
Germania
per
stampare
altri
suoi
scritti,
Mocenigo
cerca
di
convincerlo
di
non
allontanarsi
da
Venezia,
ma
non
riuscendovi
la
notte
del
22
maggio
1592
lo
fa
rinchiudere
dai
suoi
servi
in
un
solaio.
E il
giorno
dopo
lo
denuncia
come
eretico
al
tribunale
veneziano
della
Santa
Inquisizione,
che
lo
fa
immediatamente
arrestare
e,
dopo
averlo
processato,
il
27
febbraio
1593
lo
fa
trasferire
nelle
carceri
dell’Inquisizione
di
Roma.
E
qui
viene
sottoposto
a
nuovo
processo,
che
si
conclude
dopo
quasi
sette
anni
con
la
sua
condanna
ad
essere
arso
vivo,
condanna
che
viene
eseguita
il
17
febbraio
1600
in
Campo
de’
Fiori.
Il
silenzio
della
Chiesa
Cattolica
sul
caso
Giordano
Bruno
viene
rotto
solo
il
17
febbraio
2000,
a
400
anni
dalla
sua
morte,
con
la
lettera
firmata
dal
cardinale
Segretario
di
Stato
Angelo
Sodano
che
il
papa
polacco
Giovanni
Paolo
II
invia
al
summit
degli
storici
e
teologi
che
si
tiene
a
Napoli.
In
questa
lettera
viene
espresso
dispiacere
per
la
morte
brutale
sul
rogo,
definito: “un
triste
episodio
della
storia
cristiana
che
provoca
profondo
rammarico”.
Una
condanna
indubbia
della
pena
di
morte
inflittagli
e
non
affatto
una
riabilitazione
del
pensiero
di
Giordano
Bruno,
come
invece
era
avvenuto
per
Galileo
Galilei
con
il
riconoscimento
della
sua
“grandezza”
da
parte
del
papa
polacco
durante
la
sua
visita
a
Pisa
del
22
settembre
1989.