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N. 139 - Luglio 2019 (CLXX)

La Giordania nel contesto mediorientale

I RISCHI DELL'accordo del secolo

di Gian Marco Boellisi

 

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Medio Oriente si è rivelato essere una zona di grandissimo interesse strategico ed economico per le diverse potenze egemoni presenti sul globo. A causa di ciò quest’area è stata soggetta quasi ininterrottamente a continui mutamenti, più o meno radicali, per servire gli interessi di questo o di quello schieramento.

 

La Guerra Fredda è stata la massima espressione di questo meccanismo perverso, il quale ha portato in certi casi a vere e proprie guerre di procura tra le due superpotenze dell’epoca (l’esempio da manuale è l’invasione sovietica dell’Afghanistan).

 

Tenendo da parte i casi in cui un conflitto è scoppiato apertamente, sono innumerevoli i casi in cui sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica hanno deliberatamente manipolato regimi e popoli interi come se stessero disponendo i pezzi su una scacchiera.

 

Finita la Guerra Fredda, il novero dei giocatori ha perso un protagonista importante ma il gioco non è cambiato per nulla. Infatti, nonostante il succedersi delle amministrazioni americane e delle loro diverse linee di pensiero, l’agenda mediorientale è rimasta pressocché immutata da trent’anni a questa parte nella direzione di un costante impegno delle risorse americane in quest’area del globo.

 

L’attuale presidente statunitense, Donald Trump, non è stato da meno. A partire dalla sua controversa decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme fino alle sempre più concrete minacce al governo di Teheran, The Donald si è voluto imporre come protagonista in un contesto geopolitico di cui probabilmente non comprende ancora a pieno la complessità.

 

A seguito infatti del periodo delle Primavere Arabe, lo scenario è diventato estremamente più dinamico e imprevedibile, tanto che una pianificazione politica a lungo termine risulta oggi più difficile che mai. In virtù di questa considerazione gli Stati Uniti stanno cercando con tutte le loro forze di riprendere il controllo della situazione, senza però avere risultati tangibili da 10 anni a questa parte.

 

Al centro di questo immenso ginepraio vi è la Giordania, piccola monarchia confinante con Israele celebre per la straordinaria bellezza di Petra, l’antica capitale dei Nabatei scolpita nella roccia. Nonostante le notizie provenienti da questa terra passino spesso in secondo piano, negli ultimi mesi sono in atto delle dinamiche che val la pena osservare.

 

Lo scorso 2 maggio infatti sono stati sostituiti senza alcuna spiegazione il capo dei servizi segreti statali Adnan Jundi, il consigliere della casa reale Faisal Jibril Al-Shoubaki e svariati altri membri di spicco vicini alla monarchia. Non vi è stata alcuna dichiarazione ufficiale né da parte del governo né da parte della casa reale, tuttavia cercare di seguire le briciole non costa nulla.

 

Da circa un anno e mezzo l’intera Giordania è scossa da importanti proteste di piazza che hanno coinvolto una buona percentuale della popolazione. Le manifestazioni hanno avuto origine a seguito di una tassa imposta dal governo nel 2018 sui redditi dei cittadini giordani, colpendo per lo più la classe media. La nuova tassazione è infatti solo l’ultima di una serie di misure volte da un lato a aumentare la pressione fiscale e dall’altro a ridurre i servizi di cui i cittadini usufruiscono da decenni.

 

Ci si potrebbe chiedere qualora il paese sia entrato in una recessione nell’ultimo periodo o se l’instabilità regionale ha influenzato gli introiti delle casse dello stato. Ma vi è molto di più rispetto a quanto appare alla semplice vista.

 

Questa nuova politica del governo giordano è dovuta infatti all’interruzione delle donazioni e dei fondi provenienti dall’estero, che per decenni e decenni hanno letteralmente drogato l’economia reale giordana, permettendo di mantenere bassa la tassazione e alta la qualità dei servizi statali. La provenienza di questi fondi ha svariate origini, ma può essere ricondotta prevalentemente agli Stati Uniti e ad alcuni Stati nel Golfo Persico.

 

Queste nazioni nel corso degli anni hanno voluto premiare la monarchia di Amman per il suo ruolo di mediatore all’interno dei conflitti regionali e per la sua politica di sostanziale neutralità nei confronti del potente vicino israeliano. Una causa quindi che ha portato alla diminuzione di questi introiti è stata sicuramente il sempre più ridotto ruolo di paciere da parte della Giordania nel contesto mediorientale. Tuttavia non è tutto.

 

Le casse giordane sono entrate in deficit non solo per la mancanza di liquidità estera, ma anche per il non indifferente problema delle decine di migliaia di profughi siriani che ormai risiedono permanentemente in Giordania da svariati anni e dalla quasi totale chiusura delle rotte commerciali passanti per l’Iraq e la Siria, i quali erano fino a due decenni fa alcuni tra i partner più rilevanti per la monarchia di Amman.

 

Quindi la nascita delle proteste di piazza va vista unendo tutti questi fattori, portando alla luce così un contesto di tensione sociale non indifferente che è rimasto sopito in Giordania fino a scoppiare solamente l’anno scorso.

 

La monarchia, non sapendo come affrontare di petto la situazione, ha addossato subito le colpe all’attuale governo, scegliendo la via più semplice, ma anche quella più inconcludente. Ciò a testimonianza di quanto persino re Abd Allah II non si aspettasse una situazione del genere.

 

Tra le varie cause elencate, quello dei fondi esteri si può riallacciare al nostro discorso iniziale, ovvero alle politiche statunitensi in Medio Oriente, perché è proprio qui che si nasconde la vera radice del problema. Nonostante siano solamente voci di corridoio, si ritiene che la Giordania rientri nel cosiddetto “Accordo del Secolo” proposto da Donald Trump congiuntamente a Israele per porre fine alla questione israelo-palestinese.

 

Da quel che sappiamo questa soluzione cancella definitivamente la soluzione a due stati, buttando nell’immondizia 30 anni di diplomazia e sforzi internazionali sulla questione. Viene quindi prevista la creazione di un’entità pseudo statale palestinese, la quale comprende una percentuale infima dei territori attualmente appartenenti ai palestinesi, permettendo a Israele di annettere la restante parte dei territori. Infine verrebbe stabilito che Gaza diventi una zona franca, una specie di terra di nessuno, sotto la tutela dell’Egitto di Al-Sisi.

 

La Palestina in questa maniera ne uscirebbe senza esercito e soprattutto quasi senza confini, la cui tutela sarebbe affidata proprio alla Giordania. Questa, oltre a garantire la sicurezza di queste pseudo enclavi palestinesi all’interno del territorio israeliano, si dovrebbe accollare la cittadinanza di tutti i profughi palestinesi che si verrebbero inevitabilmente a creare se questo quadro diventasse realtà. Non sono necessari commenti o osservazioni sullo scenario da incubo che vorrebbe mettere in atto l’attuale inquilino della Casa Bianca.

 

La Giordania risulta essere quindi al centro dei piani dell’asse Washington-Tel Aviv. Tuttavia la monarchia di Amman non è pronta né tantomeno ha la volontà di fornire la propria cittadinanza a un numero tanto grande di persone che non solo porterebbe a problemi economici, ma anche a disordini e proteste di notevole entità.

 

Basti pensare che la soluzione a due stati è stato il cardine della politica regionale di Amman negli ultimi 30 anni. Quindi re Abd Allah II non solo si vedrebbe privato dei propri interessi nella regione ma non verrebbe neanche interpellato in merito alla questione da chi invece sta ridisegnando le cartine del Medio Oriente.

 

A dire il vero tanta proattività da parte della Giordania per una soluzione pacifica non è per puro amore per il prossimo. La casa reale infatti ha sempre saputo che la propria sopravvivenza al potere è stata garantita negli anni dal fragilissimo equilibrio della regione, quindi ha sempre avuto tutto l’interesse a cercare di migliorarlo se non addirittura a pacificare definitivamente il conflitto israelo-palestinese.

 

La Giordania si ritrova quindi con le spalle al muro poiché i principali finanziatori delle sue casse statali sono gli stessi che stanno progettando la distribuzione della popolazione palestinese all’interno dei confini giordani. Ciò per ovvie ragioni risulta un problema di natura vitale non solo per la famiglia reale, ma per la popolazione giordana tutta. Infatti non vi è alcun modo in cui il piccolo stato mediorientale possa far pressione su Washington per impedire l’attuarsi dell’accordo.

 

Ed è proprio in questo contesto che rientra la rimozione dei funzionari statali avvenuta il 2 maggio scorso. Infatti è molto probabile che queste persone fossero degli esponenti della corrente interna al governo giordano che non vuole mediare con gli Stati Uniti e che non vuole accettare alcun tipo di compromesso, motivo per il quale sarebbero stati rimossi. Ciò testimonierebbe in maniera abbastanza lampante quanto la monarchia stia considerando di cambiare opinione in merito all’Accordo del Secolo di Trump.

 

La prospettiva di non avere più le sovvenzioni statunitensi sta spaventando così tanto Amman che è pronta a far tutto pur di riattivare il flusso di denaro. Ora come 3.000 anni fa, pecunia non olet, mai.

 

Tutte queste ovviamente sono solo supposizioni e congetture, tuttavia fa riflettere quanto questo episodio sia vicino in linea temporale all’annuncio ufficiale da parte del governo americano sulle sue vere intenzioni riguardanti l’accordo. Qualora quanto descritto sia un segnale da parte della casa reale di Giordania per Washington lo scopriremo solo nei mesi successivi.

 

In conclusione, la Giordania ora si trova a un bivio nodale della sua storia recente, dovendo decidere tra il mantenere attivo l’enorme flusso di denaro che ha inondato il paese negli ultimi decenni accettando però così delle condizioni diplomatiche senza precedenti, oppure tenere il punto fermo sulla propria politica estera degli ultimi 30 anni perdendo però così la maggior fonte di stabilità economica e sociale che abbia mai avuto.

 

Vi sono aspetti positivi e negativi per entrambe le soluzioni, le quali plasmeranno il futuro del piccolo stato in maniera permanente. Tuttavia la famiglia reale, prima di prendere qualsiasi decisione in chiave auto conservativa, dovrebbe ricordare l’intento primario dei suoi passati sforzi diplomatici nella regione, ovvero quello di ottenere una pace duratura e stabile tra israeliani e palestinesi senza creare scontento nell’immediato o a lungo termine per nessuna delle due parti così da evitare il riaccendersi del conflitto.

 

Se ciò verrà ricordato, forse la Giordania potrà uscirne con un poco di integrità intatta.



 

 

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