N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
la
storia
dei
Giochi
Olimpici
Invernali
Parte
XVI
-
Albertville
1992
di
Simone
Valtieri
È un
mondo
in
piena
trasformazione
quello
che
si
affaccia
alle
olimpiadi
invernali
di
Albertville
1992.
I
giochi
francesi,
i
terzi
nella
storia
dopo
Chamonix
‘24
e
Grenoble
‘68,
rappresentano
una
sorta
di
spartiacque,
una
tappa
intermedia
tra
il
prima,
gli
anni
della
guerra
fredda
e
del
dominio
sportivo
di
Urss
e
Ddr,
ed
il
dopo,
che
si
definirà
con
precisione
da
Lillehammer
1994
in
poi.
Albertville,
cittadina
di
ventimila
abitanti
fondata
nel
1835
per
volere
del
re
Carlo
Alberto
di
Savoia,
accoglie
il
mondo
l’8
febbraio
1992
con
una
maestosa
cerimonia
d’apertura
al
“Teatro
delle
Cerimonie”,
uno
stadio
temporaneo
da
35
mila
posti
incorniciato
dalle
Alpi.
Il
campione
di
sci
alpino
Jean
Claude
Killy,
a
capo
del
comitato
promotore,
guida
la
cittadina
francese
alla
vittoria
su
ben
sei
agguerrite
rivali
(Berchtesgaden,
Anchorage,
Cortina,
Lillehammer,
Falun
e
Sofia)
avvenuta
per
maggioranza
assoluta
al
quinto
turno
di
votazioni.
Ad
accendere
il
braciere
un
bambino
insieme
a un
“intruso”
delle
discipline
invernali,
il
calciatore
Michel
Platini.
Nella
Val
d’Isère
si
presentano
1801
atleti,
di
cui
poco
più
di
un
quarto,
per
l’esattezza
488,
sono
donne.
Il
numero
delle
nazioni
iscritte
sale
a
64:
l’Unione
Sovietica
non
c’è
più,
al
suo
posto
partecipa
la
“Comunità
di
Stati
Indipendenti”,
una
rappresentativa
provvisoria
che
sarà
presente
anche
ai
giochi
estivi
di
Barcellona
e
per
la
quale
gareggiano
atleti
provenienti
da
cinque
nuovi
stati
(Russia,
Ucraina,
Bielorussia,
Kazakistan
e
Uzbekistan)
sorti
sulle
ceneri
sovietiche.
Della
C.S.I.
non
fanno
parte
le
tre
repubbliche
baltiche
di
Estonia,
Lettonia
e
Lituania,
le
prime
a
staccarsi
da
Mosca
e
che
avevano
fatto
in
tempo
a
costituire
un
proprio
comitato
olimpico,
ricevendo
così
il
via
libera
da
parte
del
Cio
per
partecipare
con
i
propri
colori.
Anche
la
Repubblica
Socialista
Federale
di
Jugoslavia,
falcidiata
da
drammatiche
guerre
civili,
partecipa
divisa
ai
giochi,
con
il
debutto
delle
due
nazioni
indipendenti
di
Slovenia
e
Croazia,
mentre
corrono
unite
la
Germania,
per
la
prima
volta
dal
1964
ma
stavolta
in
rappresentanza
di
un’unica
nazione,
e la
Cecoslovacchia,
per
l’ultima
volta
prima
della
separazione
in
Repubblica
Ceca
e
Slovacchia
che
avverrà
il
1°
gennaio
dell’anno
seguente.
Di
tutti
questi
cambiamenti
sembra
approfittarne
l’Italia,
che
prima
dei
giochi
di
Albertville
vantava
un
massimo
di
cinque
medaglie
vinte
in
una
sola
edizione
(Sapporo
’72
e
Calgary
’88).
Saranno
ben
quattordici
i
podi
azzurri
in
terra
francese,
sesta
potenza
mondiale
degli
sport
invernali
(quinta
per
numero
di
medaglie)
dietro
a
Germania,
Csi,
Norvegia,
Austria
e
Stati
Uniti.
Gran
parte
del
bottino
italiano
arriverà
per
merito
dei
fondisti,
capaci
di
vincere
otto
medaglie.
Il
nome
nuovo,
destinato
a
brillare
per
oltre
un
decennio,
è
quello
di
Stefania
Belmondo,
uno
scricciolo
biondo
che
sprigiona
potenza
da
tutti
i
pori
e
che
conquista
la
prima,
storica
medaglia
italiana
nello
sci
nordico
femminile.
Dopo
un
quinto
posto
nella
15
km
inaugurale
a
tecnica
classica,
andata
alla
signora
dei
giochi,
la
russa
Ljubov
Yegorova,
Stefania
sfiora
il
podio
nella
5
km,
quarta
dietro
alla
finlandese
Marjut
Lukkarinen
ed
alla
straordinaria
coppia
ex
sovietica
composta
dalla
Yegorova
e
dalla
fuoriclasse
Elena
Vaelbe.
Quel
quarto
posto
sarà
il
trampolino
di
lancio
verso
la
prima
medaglia,
un
argento
ottenuto
nell’inseguimento
a
tecnica
libera,
superando
di
gran
carriera
Vaelbe
e
Lukkarinen,
dietro
solamente
alla
Yegorova.
Due
giorni
dopo,
nella
staffetta,
arriverà
un
bronzo
insieme
alle
compagne
Bice
Vanzetta,
Manuela
Di
Centa
e
Gabriella
Paruzzi
e
dietro
alle
imbattibili
dell’ex
Urss,
tra
cui
una
certa
Raissa
Smetanina,
alla
quinta
partecipazione
olimpica,
e
alle
norvegesi.
Non
finisce
qui:
l’ingresso
nella
storia
avviene
il
21
febbraio
con
lo
splendido
oro
nella
30
km a
tecnica
classica,
dove
la
Belmondo
dimostra
di
avere,
alla
tenera
età
di
23
anni,
doti
di
resistenza
non
comuni,
e al
termine
della
quale
sarà
portata
in
trionfo
dalle
due
rivali
russe,
finite
al
secondo
(Yegorova)
e
terzo
posto
(Vaelbe).
Se
tre
medaglie
arrivano
dalle
donne,
o
meglio
“dalla”
donna
dello
sci
di
fondo
italiano,
ben
cinque
le
collezionano
gli
uomini,
che
devono
però
accontentarsi
di
fare
da
comprimari
ai
campioni
norvegesi.
L’alter
ego
maschile
della
Yegorova
porta
il
nome
di
Bjørn
Daehlie,
fuoriclasse
assoluto
dotato
di
un
talento
non
comune
e di
una
soglia
del
dolore
altissima.
La
sua
resistenza
e la
sua
voglia
di
combattere,
condite
con
smorfie
mai
celate
durante
lo
sforzo,
lo
porteranno
a
conquistare
in
Francia
le
prime
quattro
medaglie
olimpiche
(3
ori
ed
un
argento)
sul
record
di
dodici
che
totalizzerà
a
fine
carriera.
Daehlie
vincerà
la
maratona
dei
ghiacci
davanti
ai
due
italiani,
Maurilio
De
Zolt
e
Giorgio
Vanzetta,
la
15
km
ad
inseguimento
(rimontando
con
una
frazione
incredibile
dal
quarto
posto),
la
10
km e
la
staffetta
4x10
km.
Sarà
secondo
solo
nella
30
km a
tecnica
classica
dietro
ad
un
altro
fuoriclasse,
il
compagno
di
squadra
Vegard
Ulvang,
che
in
preparazione
dei
giochi
aveva
deciso
di
temprarsi
ripercorrendo
le
gesta
del
connazionale
Fridtjof
Nansen,
capace
di
attraversare
100
anni
prima
sulle
racchette
da
neve
tutta
la
Groenlandia,
per
un
totale
di
550
km
percorsi.
Gli
azzurri,
oltre
alla
doppietta
sul
podio
della
50
km,
saranno
protagonisti
in
ogni
gara,
conquistando
un
prestigiosissimo
argento
in
staffetta
dietro
alla
Norvegia,
e
altre
due
medaglie
individuali
con
Marco
Albarello
secondo
nella
10
km e
Giorgio
Vanzetta
terzo
nella
15
km.
Le
altre
affermazioni
italiane
di
rilievo
arrivano
quasi
tutte
dal
più
tradizionale
sci
alpino:
“Un
sorriso
e un
urlo
-
scrive
Elio
Trifari,
prestigiosa
firma
della
Gazzetta
dello
Sport
-
guadagneranno
amplissima
eco
in
Italia”.
Appartengono
entrambi
a
Deborah
Compagnoni,
giovane
sciatrice
azzurra,
capace
di
vincere
l’oro
nel
SuperG
distaccando
di
oltre
un
secondo
l’idolo
di
casa,
Carole
Merle,
e
dando
quasi
due
secondi
alla
fortissima
tedesca
Katja
Seizinger.
Il
sorriso,
neanche
a
dirlo,
arriva
al
termine
della
suddetta
gara,
che
la
proietta
tra
le
grandissime
del
circo
bianco;
l’urlo,
invece,
durante
la
prima
manche
del
gigante
del
giorno
dopo,
quando
cedono
di
schianto
i
legamenti
del
suo
ginocchio
sinistro.
Da
quel
giorno
Deborah
imparerà
a
convivere
con
gli
infortuni,
tanti
e
importanti
nel
corso
della
sua
carriera,
i
quali
non
impediranno
però
alla
sua
classe
cristallina
di
emergere,
soprattutto
nelle
grandi
occasioni,
e di
farla
diventare
la
più
grande
sciatrice
italiana
di
tutti
i
tempi.
Quel
gigante
lo
vincerà
Pernilla
Wyberg,
campionessa
svedese
e
specialista
tra
le
porte
strette.
Lo
speciale
sarà
appannaggio
della
sorprendente
canadese
Kerrin
Lee-Gartner,
mentre
l’oro
nello
slalom
finirà
al
collo
di
Petra
Kronberger,
la
polivalente
austriaca
che
grazie
alla
vittoria
nella
combinata
sarà
anche
l’unica
atleta
a
tornare
da
Albertville
con
due
titoli.
Ed è
proprio
dalla
combinata
che
arriva
una
delle
più
grandi
sorprese
dei
giochi,
firmata
da
due
ragazzi
italiani,
l’altoatesino
Josef
Polig
ed
il
valdostano
Gianfranco
Martin.
Contro
ogni
pronostico,
superano
i
favoriti
e si
issano
sui
due
gradini
più
alti
del
podio,
approfittando
anche
dell’uscita,
a
poche
porte
dall’arrivo,
dell’austriaco
Hubert
Stolz
che
già
pregustava
l’alloro.
L’Austria
manca
così
la
seconda
medaglia
maschile
dopo
quella
conquistata
il
primo
giorno
di
gare
da
Patrick
Ortlieb
nella
discesa
libera,
mentre
l’Italia
guadagna
a
sorpresa
il
ruolo
di
protagonista
in
una
disciplina
mai
prodiga
di
soddisfazioni
per
gli
azzurri.
Fucina
invece
di
successi
italiani
è,
da
sempre,
lo
slalom
gigante.
Se
poi
si
ha
al
cancelletto
di
partenza
un
atleta
come
Alberto
Tomba
il
successo
è
praticamente
scontato.
L’Albertone
nazionale
vince
lo
slalom
gigante
mettendosi
dietro
due
campionissimi
come
Marc
Girardelli
e
Kjetil
André
Aamodt,
diventando
il
primo
gigantista
a
confermare
il
titolo
olimpico,
ma
non
riuscirà
nell’impresa
di
bissare
la
doppietta
di
Calgary
a
causa
di
una
prima
manche
troppo
cauta
nello
slalom,
dove,
nonostante
una
furiosa
rimonta
nella
seconda,
deve
accontentarsi
della
piazza
d’onore,
leggermente
alle
spalle
del
norvegese
Finn
Christian
Jagge.
Norvegese
anche
l’ultimo
oro
in
rassegna,
nel
SuperG
maschile,
grazie
ad
Aamodt,
al
primo
dei
suoi
quattro
allori
olimpici
in
carriera.
Dal
pattinaggio
di
velocità
arriva
la
bella
storia
di
Johann-Olav
Koss,
vichingo
di
Drammen,
città
a
pochi
chilometri
da
Oslo.
Durante
la
cerimonia
d’apertura
dei
giochi,
Koss
era
ricoverato
in
ospedale
per
un’infiammazione
al
pancreas.
Per
lui
sembra
impossibile
persino
partecipare
alle
gare,
ma
riesce
a
strabiliare
il
mondo:
quattro
giorni
dopo
è
settimo
nella
gara
d’assaggio,
quella
dei
5.000
metri
vinta
dal
compagno
di
squadra
Geir
Karlstad.
Passano
altri
tre
giorni
e
Johann-Olav
fa
suo,
per
soli
cinque
centesimi,
l’oro
dei
1.500,
sbalordendo
l’intero
pubblico.
Vincerà
anche
l’argento
sui
10.000
alle
spalle
dell’olandese
Bart
Veldkamp,
gettando
le
basi
per
quello
che
costruirà
due
anni
più
tardi,
nelle
olimpiadi
di
casa
a
Lillehammer.
Le
gare
veloci
dei
500
e
1.000
metri
sono
tutte
di
marca
germanica,
con
Uwe-Jens
Mey
ed
Olaf
Zinke
che
portano
due
ori
in
cascina
alla
loro
rinata
nazione,
entrambi
di
misura
strettissima,
rispettivamente
per
quattro
e
per
un
centesimo,
sui
velocissimi
pattinatori
orientali.
Meglio
fanno
le
loro
connazionali
che
con
due
doppiette
ed
una
tripletta
tra
1.500,
3.000
e
5.000,
monopolizzano
l’anello
di
velocità.
L’atleta
simbolo
è
Gunda
Niemann,
argento
alle
spalle
della
connazionale
Jacqueline
Börner
nella
più
breve
delle
tre
distanze
e
doppio
oro
nelle
altre
due.
Solo
due
bronzi
per
le
atlete
tedesche
invece
nelle
gare
sprint,
entrambi
vinte
dall’americana
Bonnie
Blair
davanti
alla
cinese
Ye
Qiaobo.
Nel
palazzo
del
ghiaccio
di
Méribel
e
nella
“Halle
Olympique”
di
Albertville
sono
i
pattinatori
ex-sovietici
ad
affermarsi.
La
squadra
di
hockey
della
Csi
vince
per
3-1
la
finale
sul
Canada,
confermando
il
titolo
di
quattro
anni
prima,
mentre
nell’artistico
Viktor
Petrenko
è il
nuovo
campione
olimpico
nell’individuale
maschile,
Mishkutenok-Dmitriev
primeggiano
tra
le
coppie
e
Klimova-Ponomarenko
nella
danza.
L’unica
eccezione
è
rappresentata
dall’americana
di
origine
asiatica
Kristi
Yamaguchi
che
incanta
alla
sua
ultima
olimpiade
vincendo
l’oro
con
la
quasi
unanimità
di
giudizio
(16
giudici
su
18)
davanti
alla
giapponese
Midori
Ito
e
alle
due
giovani
leve
del
pattinaggio
a
stelle
e
strisce
che
tanto
faranno
parlare
di
loro
pochi
mesi
dopo:
Nancy
Kerrigan
e
Tonya
Harding.
Quinta
nella
stessa
gara
arriva
la
francese
Surya
Bonaly,
prima
atleta
di
colore
a
pronunciare
il
giuramento
olimpico
degli
atleti
durante
la
cerimonia
di
apertura.
Nello
stesso
impianto
teatro
delle
imprese
dei
pattinatori
dell’artistico,
debutta
una
nuova
disciplina,
dimostrativa
a
Calgary
1988
e
promossa
a
tutti
gli
effetti
ad
Albertville:
lo
short
track.
Il
pattinaggio
su
pista
corta,
che
si
sviluppa
vorticosamente
lungo
un
anello
di
soli
111
metri,
vede
nell’edizione
inaugurale
il
predominio
degli
atleti
coreani,
con
Ki-Hoon
Kim
oro
sia
nell’individuale
che
nella
staffetta,
e
delle
nordamericane,
grazie
ai
successi
dell’americana
Cathy
Turner,
tornata
alle
gare
dopo
quattro
anni
di
inattività
passati
a
far
musica,
e
della
staffetta
canadese.
Altre
novità
importanti
nel
programma
olimpico
sono
quelle
del
freestyle,
lo
sci
acrobatico,
che
assegna
medaglie
solamente
con
la
specialità
“gobbe”,
e
del
biathlon
femminile.
Tra
i
funamboli
degli
sci
i
primi
ad
iscrivere
il
loro
nome
nell’albo
d’oro
olimpico
sono
la
statunitense
Donna
Weinbrecht
ed
il
francese
Edgar
Grospiron,
che
confessa
candidamente
la
sua
dieta
alla
stampa
francese:
“Una
settimana
vino
rosso,
un’altra
vino
bianco”.
Le
biathlete
che
centrano
invece
il
primo
oro
olimpico
sono
la
russa,
Anfissa
Restzova,
la
tedesca,
Antje
Misersky,
e le
componenti
della
staffetta
transalpina.
Cambiano
i
nomi
delle
nazioni
ma
non
la
scuola
nel
biathlon
maschile,
perciò
gli
atleti
della
Germania
unificata
e
dell’ex
Urss
continuano
a
dettar
legge.
Il
bielorusso
Yevgeny
Redkin
si
aggiudica
la
20
km
per
soli
6
secondi,
e
grazie
a
zero
errori
al
tiro,
prevalendo
sul
tedesco
Mark
Kirchner,
al
quale
manca
solo
la
precisione
(commette
tre
errori)
per
centrare
una
storica
tripletta
dopo
l’oro
nella
gara
sprint
e
nella
staffetta.
Nelle
tradizionali
discipline
nordiche
le
sorprese
arrivano
da
Francia
e
Giappone.
Nella
combinata
si
assiste
alla
stupefacente
doppietta
tricolore
grazie
a
Fabrice
Guy
e
Sylvain
Guillaume,
mentre
nella
gara
a
squadre
sono
gli
atleti
dagli
occhi
a
mandorla,
guidati
dal
forte
Kenji
Ogiwara,
ad
avere
la
meglio
su
norvegesi
ed
austriaci.
Grandi
sorprese
anche
nel
salto,
dove
spunta
il
nome
di
un
ragazzino
finlandese,
Toni
Nieminen,
a
rovinare
i
sogni
di
gloria
del
Wünderteam
austriaco
alla
vigilia
accreditato
dei
migliori
saltatori.
Mentre
nella
prova
dal
trampolino
piccolo
Ernst
Vettori
e
Martin
Höllwarth
riescono
a
tenere
dietro
il
giovane
prodigio,
nulla
possono
in
quella
dal
“large
hill”,
da
dove
vedono
il
giovane
finnico
letteralmente
spiccare
il
volo
con
un
balzo
di
123
metri:
a 16
anni
e
259
giorni
Nieminen
è il
più
giovane
medagliato
della
storia,
e,
due
giorni
dopo,
diventa
il
più
giovane
campione
olimpico
di
sempre
in
una
disciplina
invernale.
A
casa
tornerà
con
due
ori
al
collo,
grazie
anche
all’affermazione
di
misura
sempre
sull’Austria
(644,4
punti
contro
642,9)
nella
gara
a
squadre,
e
verrà
scortato
dalla
polizia
per
proteggersi
dall’entusiasmo
che
aveva
generato
nel
suo
popolo.
Parlano
tedesco,
come
da
tradizione,
le
piste
di
bob
e
slittino.
Gli
svizzeri
Gustav
Weder
e
Donat
Acklin
sono
i
padroni
del
bob
a
due
davanti
a
Germania-1
e
Germania-2,
mentre
il
podio
del
bob
a
quattro
vede
l’affermazione,
per
soli
due
centesimi
di
secondo,
dell’equipaggio
austriaco
guidato
da
Ingo
Appelt,
a
scapito
del
bob
pilotato
da
Wolfgang
Hoppe,
già
quattro
volte
medagliato
a
cinque
cerchi
con
i
bolidi
azzurri
dell’ex
Ddr.
Austria
davanti
anche
nello
slittino
femminile
con
le
due
sorelle
Doris
e
Angelika
Neuner
a
spartirsi
i
primi
posti
del
podio.
Tedeschi
sulla
cresta
della
pista
sia
nel
singolo,
con
il
fuoriclasse
Georg
Hackl,
che
nel
doppio,
grazie
alla
coppia
composta
da
Stefan
Krausse
e
Jan
Behrendt.
Ottimi
i
riscontri
degli
italiani
con
due
quarti
posti
nei
due
singoli
(Norbert
Huber
e
Gerda
Weissensteiner)
ed
il
bronzo,
proprio
nel
doppio,
della
coppia
altoatesina
Hansjörg
Raffl-Norbert
Huber.
Per
i
colori
italiani
è
solo
un
assaggio
di
quello
che
accadrà
due
anni
più
tardi.