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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
la storia dei Giochi Olimpici Invernali
Parte XVII - Lillehammer 1994
di Simone Valtieri
Quelli
di
Lillehammer
1994
vengono
ricordati
in
maniera
quasi
del
tutto
univoca
come
i
più
bei
giochi
olimpici
invernali
della
storia.
Mai
in
una
sola
edizione
si
era
verificato
un
così
grande
numero
di
gare
tiratissime,
episodi
commoventi,
storie
e
racconti
esemplari,
rivalità
esasperate
o
amicizie
profonde,
sogni
che
diventano
realtà
e
altri
che
invece
restano
riposti
nel
proverbiale
cassetto.
Un’olimpiade
è
sempre
un
condensato
di
tutto
questo,
ma
Lillehammer
‘94
sembra
aver
destato
nel
cuore
di
molti
qualcosa
in
più.
Forse
perché
ci
si
trovava
nella
patria
dello
sci,
la
Norvegia,
da
dove
tutto
è
nato
e
dove
se
si
parla
di
sport
il
riferimento
alle
discipline
invernali
è
quanto
mai
ovvio;
forse
perché
si
viveva
un
clima
di
post
guerra
fredda,
in
cui
la
voglia
di
far
festa
era
più
evidente
ed i
popoli
di
tante
nuove
nazioni
erano
ansiosi
di
mettersi
alla
pari
con
il
mondo
e di
uscire
da
periodi
più
o
meno
bui,
da
guerre
ancora
in
corso
e da
difficoltà
economiche;
forse
perché
lo
spostamento,
per
l’unica
volta
nella
storia,
del
successivo
orizzonte
olimpico
a
soli
due
anni
rispetto
alla
passata
edizione
di
Albertville,
aveva
invogliato
molti
campioni
sulla
strada
del
ritiro
a
prolungare
per
un
po’
i
propri
sforzi;
forse
perché
altrettanti
campioni
sono
stati
sedotti
tanto
da
tornare
ad
allenarsi
visto
che,
in
fondo,
due
anni
sono
un
periodo
breve
e
l’emozione
olimpica
val
bene
questo
sacrificio;
infine,
forse
perché
l’apertura
totale
al
professionismo
aveva
fatto
sì
che
tutti,
ma
proprio
tutti
i
più
forti
fossero
presenti,
o
forse
è
stato
tutto
un
caso.
Un
caso
che,
fortunatamente,
si è
verificato.
Non
è
certamente
un
caso
lo
scenario
dei
giochi.
Alla
faccia
del
business
che
aveva
imposto
un’olimpiade
ogni
due
anni
per
lucrare
sui
diritti
televisivi
più
di
una
sola
volta
a
quadriennio,
gli
organizzatori
norvegesi
non
spendono
un
patrimonio
in
impianti.
Per
le
gare
all’aperto
poi,
lassù
nel
profondo
nord,
ci
ha
pensato
la
natura
a
fornire
il
tutto.
Tra
i
boschi,
le
montagne
e i
laghi
di
Hafjell,
Kvitfjell
e
Birkebeineren
si
sviluppano
i
percorsi
di
sci
alpino,
sci
nordico,
biathlon.
I
trampolini
di
Lysgårdsbakken
sembrano
mimetizzati
nella
montagna,
così
come
la
pista
da
bob
di
Hunderfossen.
Anche
gli
impianti
per
le
gare
al
coperto
sono
discreti
e
all’avanguardia,
basti
pensare
all’arena
dell’hockey
di
Gjøvik,
praticamente
costruita
in
una
caverna.
Il
passivo,
sui
due
miliardi
e
mezzo
di
corone
stanziati,
ammonta
a
qualche
centinaia
di
milioni,
coperti
con
apposita
legge
dal
parlamento.
Gli
sprechi
vengono
ridotti
al
minimo
e il
riciclo
è
diffuso
nel
senso
più
ampio
del
termine,
dalle
posate
e
dai
piatti
del
villaggio
olimpico
realizzati
in
materiale
biodegradabile
alle
pallottole
del
biathlon
recuperate
per
evitare
l’avvelenamento
dei
volatili.
Un’edizione
preparata
nei
minimi
dettagli
che
sorprende
e
commuove
il
mondo
grazie
alla
sua
semplicità,
ai
suoi
paesaggi
mozzafiato,
alle
storie
dei
suoi
mille
protagonisti
e ai
loro
sinceri
pensieri
che
volano,
dopo
ogni
vittoria,
fino
ai
Balcani,
dove
si
combatte
una
guerra
insensata
e
crudele,
proprio
laddove
si
erano
celebrate,
soltanto
dieci
anni
prima,
le
olimpiadi
di
Sarajevo.
Durante
la
cerimonia
di
apertura,
presieduta
dai
regnanti
scandinavi,
il
minuto
di
silenzio
dedicato
alla
popolazione
bosniaca
assediata
è
già
un
momento
di
altissima
commozione.
Due
giorni
prima
della
cerimonia
era
saltata
l’idea
di
una
spettacolare
accensione
del
tripode
con
tanto
di
saltatore
dal
trampolino
impegnato
ad
atterrare
con
la
fiaccola
a
pochi
metri
dall’ultimo
tedoforo.
L’infortunio
dello
stesso,
proprio
in
un
salto
di
preparazione,
aveva
fatto
ripiegare
gli
organizzatori
su
qualcosa
di
meno
spettacolare
ma
comunque
suggestivo,
grazie
anche
alla
clamorosa
nevicata
avvenuta
il
giorno
precedente
alla
cerimonia,
che
aveva
coperto
Lillehammer
di
132
centimetri
di
neve
(mai
precipitazione
era
stata
così
abbondante
dal
1890).
È il
principe
Haakon
accendere
il
tripode,
e
suo
padre,
re
Harald
V, a
inaugurare
i
giochi.
Le
nazioni
presenti
sono
67.
Debuttano
gli
stati
ex
sovietici
di
Armenia,
Bielorussia,
Georgia,
Kazakistan,
Kyrgizistan,
Moldavia,
Russia,
Ucraina
ed
Uzbekistan,
così
come
Repubblica
Ceca
e
Slovacchia,
ormai
non
più
unite,
e la
Bosnia
Erzegovina,
con
un
contingente
di
soli
10
atleti,
calorosamente
incitati
in
ogni
gara
dal
pubblico
norvegese,
come
se
fossero
di
casa.
Il
numero
di
partecipanti
cala
lievemente
rispetto
ad
Albertville
(1738)
ma
aumenta
la
presenza
femminile,
soprattutto
in
rapporto
agli
uomini,
visto
che
praticamente
un
atleta
su
tre
è
donna.
E se
quelli
norvegesi
sono
giochi
da
ricordare
per
tutti,
lo
sono
ancor
di
più
per
l’Italia,
che
torna
da
Lillehammer
con
20
medaglie
in
tasca,
un
bottino
mai
più
eguagliato:
quarta
potenza
invernale
al
mondo,
dietro
(e
di
poco)
a
Russia,
Norvegia
e
Germania
e
davanti
a
nazioni
blasonate
come
Stati
Uniti,
Canada,
Svizzera,
Austria,
Svezia
e
alla
deludente
Finlandia.
La
prima
storia
di
questi
giochi
inizia
qualche
anno
prima
di
Lillehammer.
È la
storia
di
due
atlete,
agli
antipodi
come
formazione
e
caratteristiche,
fisiche
e
tecniche,
che
si
contendono
il
ruolo
di
primadonna
del
pattinaggio
artistico
statunitense
e
mondiale.
Rispondono
ai
nomi
di
Nancy
Kerrigan
e
Tonya
Harding
e
già
ad
Albertville
’92
si
erano
piazzate
rispettivamente
al
terzo
e al
quarto
posto.
Nancy
è di
buona
famiglia,
bellissima,
leggiadra
sui
pattini
e
dal
carattere
solare,
Tonya
al
contrario
è
bruttina
e
dal
passato
turbolento,
ma
molto
potente
ed
abile
nei
salti.
A
poche
settimane
dall’inizio
dei
giochi,
al
termine
di
un
allenamento
a
Detroit,
Nancy
Kerrigan
è
vittima
di
un’aggressione
da
parte
di
un
nerboruto
omaccione
che
la
prende
a
bastonate
su
un
ginocchio
prima
di
fuggire.
In
pochi
giorni
il
cerchio
si
stringe
attorno
all’aggressore
e si
scopre
che
era
in
stretti
rapporti
col
marito
e
alcuni
amici
di
Tonya
Harding.
Vengono
tutti
arrestati
tranne
la
Harding
alla
quale
viene
concesso,
nel
dubbio,
di
partecipare
ai
giochi.
Il
vaso
di
Pandora
è
comunque
stato
scoperchiato
e a
pochi
giorni
dall’inizio
della
kermesse
di
Lillehammer
non
si
parla
d’altro.
La
vicenda
della
“buona”
Kerrigan
e
della
“cattiva”
Harding
aveva
fatto
ormai
il
giro
del
mondo.
Spunta
anche
un
video
hot
della
prima
notte
di
nozze
tra
Tonya
e
suo
marito
Jeff,
messo
in
giro
da
quest’ultimo
per
vendicarsi
della
compagna,
rea
di
averlo
abbandonato
nel
momento
in
cui
tutto
era
venuto
alla
luce.
Volente
o
nolente,
mai
il
pattinaggio
su
ghiaccio
era
stato
così
popolare.
Il
23
febbraio
1994
è il
giorno
del
programma
corto.
La
Harding
scende
in
pista
per
seconda,
subito
dopo
la
“vecchia”
fuoriclasse
tedesca
Katarina
Witt,
già
con
due
ori
olimpici
all’attivo
che
alla
soglia
dei
trent’anni
rientra
nella
famiglia
olimpica
per
riassaporare
sensazioni
perdute.
Dopo
30
secondi
Tonya,
irretita
dall’enorme
pressione
psicologica,
sbaglia
un
salto
facile,
cade
e
manda
tutto
in
fumo.
Verso
la
fine
tocca
a
Nancy
Kerrigan,
al
rientro
ufficiale
dopo
l’infortunio.
La
sua
danza
incanta
l’Olympic
Amphiteatre
di
Hamar
e la
sua
splendida
prestazione
la
porta
spedita
in
prima
posizione
dopo
il
programma
corto:
il
lieto
fine
che
tutti
si
augurano
si
sta
per
concretizzare.
A
mettere
i
bastoni
tra
le
ruote
alla
bella
americana
arriva
però
la
minuta
ucraina
Oksana
Baiul,
capace
di
emergere
da
un’infanzia
difficile
(orfana
dei
genitori)
e di
approfittare
di
alcuni
piccoli
errori
commessi
dalla
Kerrigan
durante
il
libero,
aggiudicandosi
a
sorpresa
la
medaglia
d’oro.
Il
risultato
verrà
criticato
dal
pubblico
ma
ben
deciso
dai
giudici,
viste
le
difficoltà
del
programma
della
Baiul,
talmente
ostico
da
concedere
anche
l’errore.
Nancy
sarà
seconda,
Tonya
sbaglierà
anche
durante
l’ultima
prova
e
finirà
lì
la
sua
carriera,
con
l’ottavo
posto
olimpico
e la
successiva
squalifica
a
vita,
dovuta
ai
risvolti
di
un
processo
che
la
dichiarerà
inevitabilmente
coinvolta
nell’aggressione
alla
Kerrigan.
Il
pattinaggio
artistico
a
Lillehammer
non
si
esaurisce
però
con
la
rivalità
Kerrigan-Harding.
L’apertura
al
professionismo
determina
che
tra
i
partecipanti
ci
siano
anche
titolati
atleti
dall’ormai
lontano
passato
dilettantistico,
come
la
coppia
russa
composta
da
Ekaterina
Gordeeva
e
Sergei
Grinkov,
che
a
sei
anni
di
distanza
riesce
a
bissare
l’oro
di
Calgary,
e
quella
britannica
che
aveva
incantato
il
mondo
ben
dieci
anni
prima
a
Sarajevo,
composta
da
Jayne
Torvill
e
Christopher
Dean.
I
due
“vecchietti”
d’oltremanica,
che
nel
palazzetto
bosniaco
avevano
dato
il
via
ad
una
nuova
era
nel
pattinaggio,
non
hanno
dimenticato
come
si
fa e
conquistano
un
insperato
bronzo
dietro
alle
due
più
giovani
coppie
russe
Grishuk-Platov
e
Usova-Zhulin.
Russo
è
anche
l’ultimo
oro
in
palio,
quello
dell’individuale
maschile
che
vede
il
successo
nitido
di
Alexej
Urmanov,
davanti
al
canadese
Elvis
Stojko
ed
al
francese
Philippe
Candeloro.
Nello
stesso
impianto
sono
di
scena
le
gare
dello
short
track,
giovane
disciplina
in
cui
gli
specialisti
coreani
dominano
con
ben
quattro
ori,
tre
individuali
ed
uno
di
staffetta.
Gli
unici
allori
non
asiatici
saranno
quello
dei
500
metri
femminili,
con
l’americana
Cathy
Turner
a
bissare
il
titolo
di
Albertville,
e
dell’inattesa
staffetta
italiana,
davanti
ad
americani
ed
australiani.
Di
quella
staffetta
facevano
parte,
oltre
a
Maurizio
Carnino
ed
Hugo
Hernoff,
anche
Mirko
Vuillermin,
argento
nei
500
individuali,
ed
Orazio
Fagone,
entrambi
coinvolti,
pochi
anni
più
tardi,
in
due
distinti
incidenti
motociclistici
che
troncheranno
le
carriere
di
entrambi.
Fagone,
dopo
la
riabilitazione,
riuscirà
però
ad
emergere
come
giocatore
di
“sledge
hockey”,
l’hockey
su
ghiaccio
su
slitta,
partecipando
dodici
anni
dopo
alle
paralimpiadi
di
Torino.
Dal
pattinaggio
su
pista
lunga
arrivano
altre
due
storie
significative.
Quella
che
più
interessa
il
pubblico
di
casa
riguarda
Johann-Olav
Koss,
il
pattinatore
di
ferro
che
due
anni
prima,
nonostante
una
brutta
infiammazione
al
pancreas,
era
riuscito
a
conquistare
due
medaglie.
Ad
Hamar,
nella
Vikingskipet
Arena,
Koss
arriva
al
culmine
della
forma
e si
rende
autore
di
prestazioni
incredibili.
Vince
l’oro
nei
1.500,
5.000
e
10.000
metri,
stabilendo
in
tutti
e
tre
i
casi
il
record
del
mondo.
Impressionante
quello
sulla
distanza
più
lunga,
nella
quale
infrange
il
suo
precedente
primato
di
ben
13
secondi,
lasciando
i
rivali
a
distanza
siderale.
Dopo
i
giochi
Koss,
che
aveva
devoluto
ai
bambini
bosniaci
l’intera
somma
dei
premi
vinti
a
Lillehammer,
diventerà
membro
del
Cio
prima,
ambasciatore
Unicef
poi
e
fonderà
quindi
un’associazione
non
governativa
a
scopo
benefico.
Nei
500
metri
arriva
l’oro
russo
di
Aleksandr
Golubev,
mentre
la
storia
più
bella
riguarda
i
1000
metri.
Il
protagonista
è
Dan
Jansen,
pattinatore
statunitense.
Nel
1984,
a
Sarajevo,
Dan
aveva
cominciato
la
rincorsa
all’alloro
olimpico,
giungendo
quarto.
Quattro
anni
più
tardi
a
Calgary
si
presenta
nelle
vesti
di
favorito
sulla
distanza
dei
500
metri.
Il
clima
che
c’è
intorno
a
lui,
però,
non
è
certo
dei
migliori.
Dan
aveva
lasciato
a
casa
sua
sorella
Jane,
gravemente
malata
di
una
leucemia
che
la
stava
pian
piano
consumando.
Alla
vigilia
dei
1.000
metri,
Dan
riceve
l’incitamento
telefonico
di
Jane,
il
cui
quadro
clinico
stava
precipitando.
Lui
scende
comunque
in
pista,
ma,
privo
della
dovuta
concentrazione,
sbaglia
e
cade.
La
notizia
della
morte
di
Jane
arriva
poche
ore
più
tardi.
Jansen
si
fa
forza,
provando
a
mantenere
la
promessa
fatta
alla
sorella
ma
nella
gara
dei
500
la
testa
è
altrove
e
un’altra
caduta
gli
pregiudica
il
risultato.
Passano
altri
quattro
anni
e ad
Albertville
il
copione
si
ripete.
È il
favorito
sui
500,
ma
uno
svarione
gli
fa
perdere
tempo
e
sogni
di
gloria:
sarà
quarto
a
soli
32
centesimi
di
secondi
dall’oro.
Dan
decide
di
provarci
un’ultima
volta
e
tiene
duro
altri
due
anni
fino
a
Lillehammer.
Nei
400
è
ancora
fuori
dal
podio
e
ancora
per
colpa
di
un
piccolissimo
errore
che
lo
fa
scivolare
all’ottavo
posto,
a
soli
35
centesimi
dalla
vetta.
Arrivano
i
1.000
metri.
Non
sono
la
sua
gara:
ad
Albertville
era
stato
addirittura
ventiseiesimo
e il
morale,
dopo
il
mancato
podio
nei
“suoi”
500,
è
sotto
le
scarpe.
Sono
la
moglie
Robin
e la
figlioletta,
chiamata
Jane
come
la
sorella,
a
ridargli
la
serenità.
Jansen
si
presenta
sulla
riga
di
partenza
dei
1.000
metri
senza
nulla
da
perdere
né
da
chiedere
ad
una
prova
che
raramente
l’aveva
visto
protagonista.
È la
sua
ultima
gara
olimpica
in
dieci
anni
di
carriera
e ci
sono
altri
sulla
carta
più
forti
di
lui,
ma
di
quella
carta
Dan
non
vuole
sentir
parlare.
Se i
pronostici
fossero
legge,
avrebbe
già
smesso
di
gareggiare
dopo
Albertville
con
tre
titoli
olimpici
in
tasca
e
nient’altro
da
dimostrare
ed è
per
questo
motivo
che
Dan
decide
di
riscrivere
la
storia.
Primo
nei
1.000
metri,
medaglia
d’oro
olimpica
e
record
del
mondo
abbassato
sotto
gli
occhi
di
12
mila
spettatori
deliranti
e
sotto
lo
sguardo
commosso
della
moglie.
Oggi
Daniel
Jansen
è
attivo
nel
volontariato
con
una
fondazione
a
suo
nome
impegnata
nella
lotta
alla
leucemia,
il
cui
motto,
significativo
più
di
mille
parole,
è:
“Give
is
gold”,
dare
è
oro.
Nelle
prove
femminili
di
pattinaggio
di
velocità,
il
ruolo
di
protagonista
se
lo
ritaglia
Bonnie
Blair,
che
riesce
in
quello
in
cui
Alberto
Tomba
aveva
fallito,
ossia
confermare
due
ori
olimpici
nelle
stesse
discipline
in
cui
aveva
vinto
ai
precedenti
giochi.
Lo
sciatore
italiano
non
ce
l’aveva
fatta
per
15
centesimi,
quelli
che
lo
separavano
dall’oro
dello
slalom
ad
Albertville
e
che
gli
negarono
la
doppietta
gigante-slalom
conseguita
quattro
anni
prima
a
Calgary,
mentre
la
Blair
ci
riuscirà
senza
problemi
nei
500
e
nei
1.000
metri,
confermando
quanto
già
fatto,
con
il
vantaggio
però
di
esserci
riuscita,
rispetto
a
Tomba,
a
distanza
di
soli
due
anni
da
Albertville.
La
Blair
sarà
quarta
a
tre
centesimi
dal
bronzo
nei
1.500
metri
vinti
dall’austriaca
Emese
Hunyady
(ungherese
di
nascita,
naturalizzata
per
matrimonio),
la
quale
sarà
a
sua
volta
argento
dietro
alla
russa
Svetlana
Bazhanova
nei
3.000.
L’ultima
gara
in
programma,
i
5.000
metri,
saranno
un
monologo
tedesco,
con
la
giovane
Claudia
Pechstein
al
primo
oro
olimpico
in
carriera,
di
un’inezia
davanti
alla
campionessa
in
carica
Gunda
Niemann,
nello
stesso
giorno
in
cui
una
bravissima
Elena
Belci,
quarta,
sfiora
quello
che
sarebbe
stato
un
risultato
storico,
il
primo
italiano
nel
pattinaggio
di
velocità.
L’ultima
impresa
sui
pattini
dei
giochi
di
Lillehammer
arriva
dalla
sorprendente
squadra
svedese
di
hockey
su
ghiaccio,
capace
di
sconfiggere
per
3-2,
dopo
tempi
supplementari
e
rigori,
il
favoritissimo
Canada.
Su
altri
pattini,
quelli
delle
slitte
da
discesa,
sono
gli
italiani
a
dettar
legge.
Solo
la
verde
anagrafe
di
Armin
Zoeggeler,
ancora
troppo
giovane
per
rivaleggiare
con
i
“mostri
sacri”
Georg
Hackl
(tedesco)
e
Markus
Prock
(austriaco),
nega
all’Italia
una
clamorosa
tripletta.
Nella
prova
del
singolo
i
due
fenomeni
saranno
separati
dopo
quattro
discese
da
appena
13
millesimi,
cioè
poco
più
di
un
centesimo
di
secondo
e
tanto
meno
di
un
battito
di
ciglia.
Zoeggeler
arriverà
alla
pur
brevissima
distanza
di
25
centesimi,
precedendo
Arnold
Huber,
quarto,
e
suo
fratello
Norbert
Huber,
sesto.
La
storica
famiglia
di
slittinisti
altoatesini
ci
metterà
poco
a
riscattarsi.
Nella
prova
di
doppio
infatti
Wilfried
Huber
sarà
oro,
in
coppia
con
Kurt
Brugger,
mentre
lo
stesso
Norbert,
finirà
alle
loro
spalle
guidato
dal
compagno
Hansjörg
Raffl,
con
cui
era
stato
bronzo
ad
Albertville.
Il
trionfo
italiano
è
completato
da
Gerda
Weissensteiner
che
stravince
la
prova
di
singolo
femminile
davanti
alla
tedesca
Susi
Erdmann
con
oltre
sette
decimi
di
vantaggio.
Dal
bob,
oltre
alle
prevedibili
affermazioni
svizzere
(Wader-Acklin
nel
“due”)
e
tedesche
(Harald
Czudaj
al
volante
nel
“quattro”),
e
oltre
anche
al
ritorno
sul
podio
dell’Italia,
che
ottiene
il
bronzo
grazie
a
Stefano
Ticci
e a
un
altro
fratello
Huber,
Günther,
arrivano
le
curiose
storie
di
due
equipaggi
quanto
mai
insoliti.
I
caraibici
della
Giamaica,
ormai
avvezzi
alle
temperature
glaciali
dal
debutto
avvenuto
sei
anni
prima
a
Calgary,
giungono
quattordicesimi
nel
bob
a 4,
stabilendo
la
miglior
prestazione
di
sempre
di
un
paese
privo
di
neve
ai
giochi
olimpici
invernali.
L’altra
storia,
in
pieno
spirito
olimpico,
è
quella
dell’equipaggio
di
Trinidad
&
Tobago.
Gregory
Sun
e
Curtis
Harry,
iniziati
al
bob
proprio
dal
giamaicano
Stokes,
di
cui
i
due
erano
compagni
di
college,
scoprono
all’aeroporto
di
Oslo
che
le
loro
valigie
sono
scomparse.
Arrivati
sprovvedutamente
in
jeans,
i
due
finiscono
facilmente
per
ammalarsi.
Nonostante
la
febbre
non
ancora
smaltita
nei
giorni
di
gara,
non
si
daranno
per
vinti
e
riusciranno
a
concludere
la
prova
al
37°
posto,
comunque
davanti
ad
altri
equipaggi
altrettanto
esotici:
Isole
Vergini-1,
Samoa
Americane,
Porto
Rico,
San
Marino
e
Isole
Vergini-2.
“L’importante
è
partecipare”,
diceva
De
Coubertin,
ma
se
sei
in
Norvegia
e
hai
un
paio
di
sci
stretti
ai
piedi,
il
motto
può
essere
tranquillamente
ribaltato
in
“l’imperativo
è
vincere”.
Davanti
ad
un
pubblico
mai
inferiore
alle
centocinquantamila
unità
inizia
quindi
la
festa
norvegese.
Ad
inaugurarla
è il
norvegese
Thomas
Alsgaard,
che
nella
30
km
inaugurale
precede
il
favorito
della
vigilia
Bjørn
Daehlie
e il
finlandese
Mika
Myllylä;
a
proseguirla
è lo
stesso
Daehlie
che
per
due
volte,
nella
10
km e
nella
15
ad
inseguimento,
viene
accompagnato
sul
podio
del
kazako
Smirnov
e da
un
italiano,
Marco
Albarello
nella
10
km e
Silvio
Fauner
nella
15
km.
Ad
interromperla
bruscamente
è
quello
che
avviene
il
22
febbraio
1994.
Nel
percorso
di
Birkbeineren
è di
scena
la
staffetta
4x10
km
del
fondo,
la
gara
più
sentita
dal
pubblico
locale.
Sono
circa
duecentomila
i
norvegesi
presenti
all’evento,
tutti
con
una
piccola
bandierina
in
mano
per
una
coreografia
da
brividi.
Alla
partenza
i
nordici
scattano
come
una
furia.
Sulla
loro
scia
si
porta
subito
il
nonno
del
gruppo,
l’italiano
Maurilio
De
Zolt,
detto
“Grillo”
per
la
sua
statura
minuta,
che
a 43
anni
e
senza
mai
perdere
un
metro
conclude
la
frazione
con
il
gruppo
dei
migliori.
Il
testimone
passa
a
Marco
Albarello
che
addirittura
sfida
la
potenza
norvegese
terminando
la
sua
frazione
al
primo
posto
davanti
a
Vegard
Ulvang.
In
terza
frazione
Giorgio
Vanzetta
marca
stretto
Thomas
Alsgaard
e
non
perde
neanche
un
centimetro.
Degli
avversari
resiste
solo
la
Finlandia.
L’ultimo
testimone
passa
a
Silvio
Fauner
che
deve
vedersela
con
il
“mostro”
Daehlie.
Manca
un
chilometro,
e
sono
mille
metri
da
leggenda:
Fauner
e
Daehlie,
con
Mika
Myllylä
ormai
staccato,
giocano
al
“surplace”.
Quando
parte
la
volata
l’italiano
diventa
imprendibile
per
Daehlie,
al
quale
seppur
per
pochissimo
non
riesce
la
zampata
finale.
L’urlo
dei
duecentomila
scandinavi
viene
strozzato
in
gola
da
quello
di
gioia
di
Silvio
Fauner
da
Sappada,
una
delusione
per
il
pubblico
pari
forse
solo
a
quella
sofferta
44
anni
prima
dai
brasiliani
presenti
al
Maracanà,
quando
l’uruguaiano
Ghiggia
li
privò
di
un
mondiale
di
calcio
già
vinto.
Addirittura
re
Harald
abbandona
sconsolato
lo
stadio
del
fondo,
senza
assistere
alla
premiazione.
I
quattro
moschettieri
azzurri
quel
giorno
l’hanno
combinata
proprio
grossa.
Nell’ultima
gara
in
programma,
la
“maratona
della
neve”
(50
km),
saranno
invece
il
kazako
Vladimir
Smirnov
ed
il
finlandese
Myllylä
a
privare
del
successo
i
norvegesi,
che
ancora
storditi
dal
colpo
infertogli
dagli
italiani,
giungono
terzi
con
Sture
Siversten,
quarti
con
Daehlie
e
quinti
con
Erling
Jevne.
Se
Daehlie
mantiene
comunque
lo
scettro
di
re
del
fondo
in
questi
giochi,
con
due
ori
e
due
argenti
in
bacheca,
la
regina
è da
scegliere
tra
Ljubov
Yegorova,
capace
di
vincere
due
ori
e un
argento
individuale
a
cui
va
aggiunto
il
trionfo
di
squadra
in
staffetta,
e
una
trentunenne
di
Paluzza,
in
provincia
di
Udine,
che
raggiunge
la
maturità
agonistica
proprio
in
occasione
dei
giochi
di
Lillehammer,
andando
a
medaglia
in
tutte
le
gare
in
programma.
Il
suo
nome
è
Manuela
Di
Centa
e il
suo
palmares
norvegese
è
invidiabile:
oro
al
debutto
nella
15
km a
tecnica
libera,
argento
nella
5 km
a
tecnica
classica
dietro
alla
Yegorova,
poi
mantenuto
nella
10
km
ad
inseguimento,
dove
a
conseguire
il
miglior
tempo
parziale
sarà
Stefania
Belmondo,
risalita
dal
tredicesimo
posto
fino
a
uno
strepitoso
podio,
bronzo
in
staffetta
dietro
a
Russia
e
Norvegia
in
compagnia
di
Bice
Vanzetta,
Gabriella
Paruzzi
e
della
Belmondo,
e
infine
splendido
oro
nella
30
km
conclusiva
a
tecnica
classica,
davanti
alla
norvegese
Wold
per
una
manciata
di
secondi.
Una
carriera
lunga
dieci
anni
coronata
a
fine
stagione
anche
dalla
vittoria
nella
Coppa
del
Mondo
assoluta.
Tra
i
funamboli
del
freestyle
arriva
l’oro
di
una
nazione
giovane,
l’Uzbekistan,
con
Lina
Cheryazova
che,
nella
moderna
disciplina
dell’Aerials
(in
pratica
i
salti
acrobatici)
ottiene
un
punteggio
di
poco
superiore
a
quello
della
svedese
Lindgren
e
della
norvegese
Lid,
tutte
racchiuse
in
appena
due
punti.
Il
suo
corrispettivo
maschile
sarà
lo
svizzero
Schönbächler,
mentre
nelle
già
sperimentate
“Gobbe”,
già
presenti
ad
Albertville,
in
campo
femminile
vincerà
la
norvegese
Hattestad,
mentre
in
quello
maschile
il
francese
Gospiron
non
riuscirà
a
bissare
il
trionfo
casalingo
di
due
anni
prima
e si
fermerà
al
terzo
posto
dietro
al
canadese
Jean
Luc
Bressard.
Nel
biathlon
si
registra
il
predominio
russo,
con
Chepikov
e
Tarasov
che
si
aggiudicano
le
gare
individuali,
mentre
alle
ragazze
vanno
quelle
a
squadre,
e
l’affermazione
nelle
due
prove
femminili
della
canadese
Myriam
Bedard.
La
staffetta
maschile
di
biathlon,
in
cui
l’Italia
era
fresca
campione
del
mondo,
è
appannaggio
della
fortissima
Germania,
mentre
gli
azzurri,
autori
di
una
prova
scadente
al
tiro,
concludono
al
sesto
posto.
Nella
combinata
nordica
sono
ancora
i
giapponesi
a
giocare
un
brutto
scherzo,
come
quattro
anni
prima,
ai
padroni
di
casa.
Con
una
vittoria
schiacciante
per
più
di
cinque
minuti
la
formazione
del
sol
levante
si
aggiudica
la
prova
a
squadre
sulla
Norvegia,
che
si
consola
comunque
con
l’alloro
individuale
di
Fred
Børre
Lundberg.
Sulle
piste
di
Hafjell
e
Kvitfjell
si
svolgono
le
gare
di
sci
alpino.
Le
prove
maschili
sono
tutte
tiratissime
e
giocate
sul
filo
dei
centesimi,
ad
esclusione
della
combinata,
dove
in
un
podio
tutto
norvegese
Lasse
Kjus
rifila
poco
più
di
un
secondo
al
compagno
di
squadra
Kjetil-André
Aamodt
e
quasi
due
a
Christian
Strand-Nielsen.
La
discesa
libera
inaugurale
vede
l’affermazione
a
sorpresa
dello
statunitense
Tommy
Moe,
sceso
con
il
pettorale
numero
8,
subito
dopo
Aamodt.
Il
distacco
tra
i
due
al
termine
della
prova
sarà
di
soli
4
centesimi.
Nel
superG
Le
cose
sembrano
ripetersi
con
Moe
autore
di
un
ottimo
tempo,
ma
dopo
di
lui
scende
il
tedesco
Markus
Wasmaier,
che
lo
supera
di
appena
8
centesimi.
Terzo,
ancora
una
volta
dietro
Moe,
ancora
Aamodt.
Nel
gigante,
dove
Tomba
stecca
clamorosamente,
è a
sorpresa
ancora
Wasmaier
e
vincere,
stavolta
per
appena
2
centesimi
di
secondo
sullo
svizzero
Urs
Kaelin,
entrambi
non
pronosticati
alla
vigilia.
La
riscossa
di
Albertone,
sciatore
dal
talento
incredibile,
arriva
nello
slalom.
Dopo
una
prima
manche
inguardabile
terminata
al
dodicesimo
posto
nella
seconda
discesa,
disturbata
dal
vento,
Tomba
scende
come
una
furia.
È
suo
il
miglior
tempo
di
manche
e
dopo
di
lui,
uno
dopo
l’altro,
escono
o si
piazzano
alle
sue
spalle
tutti
i
suoi
avversari.
Resta
solo
Thomas
Stangassinger,
primo
dopo
la
prima
manche
con
l’abissale
vantaggio
di
un
secondo
e 84
centesimi,
tra
lui
e
l’incredibile
oro.
L’austriaco
scende
con
il
freno
a
mano
tirato,
per
paura
di
cadere,
e
sul
traguardo
termina
primo,
per
soli
15
centesimi.
Per
quanto
riguarda
Tomba,
il
rimpianto
per
una
prima
manche
deludente
è
tanto,
ma
l’ennesima
dimostrazione
del
suo
incredibile
talento
ripaga
il
pubblico.
Le
gare
femminili
si
aprono
con
la
vittoria
della
statunitense
Diann
Roffe
nel
SuperG,
dove
in
terza
posizione
si
piazza,
a
solo
un
centesimo
dall’argento
della
russa
Gladisheva,
la
bolzanina
Isolde
Kostner,
nuovo
talento
della
velocità
italiana.
Nella
discesa
libera
la
tedesca
Katja
Seizinger
vince
il
suo
primo
oro
olimpico
davanti
all’americana
Picabo
Street
e,
ancora
una
volta,
alla
Kostner,
al
secondo
bronzo
in
quattro
giorni.
Ventiquattr’ore
dopo,
nella
combinata,
è il
turno
della
Svezia,
con
Pernilla
Wyberg
ancora
oro,
davanti
alla
rientrante
Vreni
Schneider,
bicampionessa
a
Calgary
e
assente
per
infortunio
ad
Albertville.
Quarta
a
sette
centesimi
dal
podio
l’azzurra
Morena
Gallizio.
Il
24
febbraio
è il
giorno
dello
slalom
gigante
e
Deborah
Compagnoni
cancella
i
fantasmi
di
Albertville
concedendosi
due
manche
perfette.
La
vittoria
è
sua
con
un
distacco
di
oltre
un
secondo
e
due
decimi
inflitto
alla
sua
rivale
storica,
la
tedesca
Martina
Ertl,
e di
due
secondi
esatti
alla
svizzera
Schneider.
È
lei
la
più
forte
gigantista
in
circolazione.
L’ultima
prova
in
programma,
lo
slalom
speciale,
vede
tornare
sul
gradino
più
alto
del
podio
la
Schneider,
che
a
sei
anni
dalle
olimpiadi
canadesi,
torna
a
primeggiare
nella
sua
disciplina
preferita.
Per
concludere
il
racconto
delle
intensissime
olimpiadi
norvegesi
è
giusto
parlare
di
salto
con
gli
sci,
una
specialità
nata
e
diffusa
soprattutto
nei
paesi
nordici.
Ha
del
prodigioso
quello
che
realizza
Jens
Weissflog,
oro
olimpico
nel
1984
a
Sarajevo,
prima
della
rivoluzione
avvenuta
con
il
B-Style,
il
tipo
di
salto
più
evoluto
cui
il
tedesco
fa
fatica
ad
abituarsi.
A
Lillehammer
Jens
ha
ormai
imparato
la
nuova
tecnica
ma
ha
contro
il
norvegese
Espen
Bredesen
ed i
120
mila
dello
stadio
del
salto,
che
da
42
anni
attendono
un
successo
nella
disciplina.
Al
primo
tentativo
Weissflog
sfodera
un
salto
da
129
metri
che
gli
vale
134,1
punti
e il
primo
posto
provvisorio.
Bredesen
fa
meglio
con
135
metri
e
144,4
punti.
Dieci
punti
di
vantaggio
prima
dell’ultimo
tentativo.
Parte
prima
Weissflog
che
con
un
salto
di
135
metri
mette
pressione
a
Bredesen.
Il
padrone
di
casa
con
120
mila
spettatori
silenti
aspetterà
invano
il
vento
giusto
per
saltare
fino
alla
soglia
dei
15
secondi
di
attesa
concessi
dal
regolamento,
scaduti
i
quali
è
costretto
a
lanciarsi
comunque:
11
metri
meno
del
tedesco
e
oro
sfumato.
Jens
Weissflog,
dieci
anni
dopo
il
suo
primo
titolo,
è di
nuovo
campione
olimpico.
La
gara
a
squadre
vede
il
Giappone
saldamente
in
testa
fino
all’ultimo
salto,
quello
di
Masahiko
Harada,
con
cui
Weissflog
si
complimenta
prima
ancora
della
performance
decisiva.
Un
gesto
considerato
scorretto
da
alcuni
(tra
cui
Bredesen),
ingenuo
da
altri,
tant’è
che
Harada,
cui
bastava
un
“saltino”
da
105
metri
per
mettersi
al
collo
l’oro,
fa
harakiri
sbagliando
clamorosamente
e
saltando
8
metri
meno
del
necessario.
Per
la
Germania
è
medaglia
d’oro,
il
secondo
personale
di
Jens.
Alla
storica
tripletta
manca
solo
la
gara
dal
trampolino
K90,
ma
Weissflog
vi
arriva
scarico
e
forse
demotivato
dalle
accuse
di
scorrettezza
piovutegli
addosso
nei
giorni
precedenti.
Ne
approfitta
Bredesen
che
stavolta,
forse
galvanizzato
dalla
notizia
della
tripletta
norvegese
nella
combinata
di
sci
alpino,
da
poco
trasmessa
sui
maxischermi,
trova
il
vento
giusto
anche
nel
secondo
salto
consegnando
al
suo
paese
una
medaglia
storica
attesa
per
42
anni.
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