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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

la storia dei Giochi Olimpici Invernali
Parte XVII - Lillehammer 1994

di Simone Valtieri

 

Quelli di Lillehammer 1994 vengono ricordati in maniera quasi del tutto univoca come i più bei giochi olimpici invernali della storia. Mai in una sola edizione si era verificato un così grande numero di gare tiratissime, episodi commoventi, storie e racconti esemplari, rivalità esasperate o amicizie profonde, sogni che diventano realtà e altri che invece restano riposti nel proverbiale cassetto. Un’olimpiade è sempre un condensato di tutto questo, ma Lillehammer ‘94 sembra aver destato nel cuore di molti qualcosa in più. Forse perché ci si trovava nella patria dello sci, la Norvegia, da dove tutto è nato e dove se si parla di sport il riferimento alle discipline invernali è quanto mai ovvio; forse perché si viveva un clima di post guerra fredda, in cui la voglia di far festa era più evidente ed i popoli di tante nuove nazioni erano ansiosi di mettersi alla pari con il mondo e di uscire da periodi più o meno bui, da guerre ancora in corso e da difficoltà economiche; forse perché lo spostamento, per l’unica volta nella storia, del successivo orizzonte olimpico a soli due anni rispetto alla passata edizione di Albertville, aveva invogliato molti campioni sulla strada del ritiro a prolungare per un po’ i propri sforzi; forse perché altrettanti campioni sono stati sedotti tanto da tornare ad allenarsi visto che, in fondo, due anni sono un periodo breve e l’emozione olimpica val bene questo sacrificio; infine, forse perché l’apertura totale al professionismo aveva fatto sì che tutti, ma proprio tutti i più forti fossero presenti, o forse è stato tutto un caso. Un caso che, fortunatamente, si è verificato.

Non è certamente un caso lo scenario dei giochi. Alla faccia del business che aveva imposto un’olimpiade ogni due anni per lucrare sui diritti televisivi più di una sola volta a quadriennio, gli organizzatori norvegesi non spendono un patrimonio in impianti. Per le gare all’aperto poi, lassù nel profondo nord, ci ha pensato la natura a fornire il tutto. Tra i boschi, le montagne e i laghi di Hafjell, Kvitfjell e Birkebeineren si sviluppano i percorsi di sci alpino, sci nordico, biathlon. I trampolini di Lysgårdsbakken sembrano mimetizzati nella montagna, così come la pista da bob di Hunderfossen. Anche gli impianti per le gare al coperto sono discreti e all’avanguardia, basti pensare all’arena dell’hockey di Gjøvik, praticamente costruita in una caverna. Il passivo, sui due miliardi e mezzo di corone stanziati, ammonta a qualche centinaia di milioni, coperti con apposita legge dal parlamento. Gli sprechi vengono ridotti al minimo e il riciclo è diffuso nel senso più ampio del termine, dalle posate e dai piatti del villaggio olimpico realizzati in materiale biodegradabile alle pallottole del biathlon recuperate per evitare l’avvelenamento dei volatili. Un’edizione preparata nei minimi dettagli che sorprende e commuove il mondo grazie alla sua semplicità, ai suoi paesaggi mozzafiato, alle storie dei suoi mille protagonisti e ai loro sinceri pensieri che volano, dopo ogni vittoria, fino ai Balcani, dove si combatte una guerra insensata e crudele, proprio laddove si erano celebrate, soltanto dieci anni prima, le olimpiadi di Sarajevo. Durante la cerimonia di apertura, presieduta dai regnanti scandinavi, il minuto di silenzio dedicato alla popolazione bosniaca assediata è già un momento di altissima commozione.

Due giorni prima della cerimonia era saltata l’idea di una spettacolare accensione del tripode con tanto di saltatore dal trampolino impegnato ad atterrare con la fiaccola a pochi metri dall’ultimo tedoforo. L’infortunio dello stesso, proprio in un salto di preparazione, aveva fatto ripiegare gli organizzatori su qualcosa di meno spettacolare ma comunque suggestivo, grazie anche alla clamorosa nevicata avvenuta il giorno precedente alla cerimonia, che aveva coperto Lillehammer di 132 centimetri di neve (mai precipitazione era stata così abbondante dal 1890). È il principe Haakon accendere il tripode, e suo padre, re Harald V, a inaugurare i giochi. Le nazioni presenti sono 67. Debuttano gli stati ex sovietici di Armenia, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kyrgizistan, Moldavia, Russia, Ucraina ed Uzbekistan, così come Repubblica Ceca e Slovacchia, ormai non più unite, e la Bosnia Erzegovina, con un contingente di soli 10 atleti, calorosamente incitati in ogni gara dal pubblico norvegese, come se fossero di casa. Il numero di partecipanti cala lievemente rispetto ad Albertville (1738) ma aumenta la presenza femminile, soprattutto in rapporto agli uomini, visto che praticamente un atleta su tre è donna. E se quelli norvegesi sono giochi da ricordare per tutti, lo sono ancor di più per l’Italia, che torna da Lillehammer con 20 medaglie in tasca, un bottino mai più eguagliato: quarta potenza invernale al mondo, dietro (e di poco) a Russia, Norvegia e Germania e davanti a nazioni blasonate come Stati Uniti, Canada, Svizzera, Austria, Svezia e alla deludente Finlandia.

La prima storia di questi giochi inizia qualche anno prima di Lillehammer. È la storia di due atlete, agli antipodi come formazione e caratteristiche, fisiche e tecniche, che si contendono il ruolo di primadonna del pattinaggio artistico statunitense e mondiale. Rispondono ai nomi di Nancy Kerrigan e Tonya Harding e già ad Albertville ’92 si erano piazzate rispettivamente al terzo e al quarto posto. Nancy è di buona famiglia, bellissima, leggiadra sui pattini e dal carattere solare, Tonya al contrario è bruttina e dal passato turbolento, ma molto potente ed abile nei salti. A poche settimane dall’inizio dei giochi, al termine di un allenamento a Detroit, Nancy Kerrigan è vittima di un’aggressione da parte di un nerboruto omaccione che la prende a bastonate su un ginocchio prima di fuggire. In pochi giorni il cerchio si stringe attorno all’aggressore e si scopre che era in stretti rapporti col marito e alcuni amici di Tonya Harding. Vengono tutti arrestati tranne la Harding alla quale viene concesso, nel dubbio, di partecipare ai giochi. Il vaso di Pandora è comunque stato scoperchiato e a pochi giorni dall’inizio della kermesse di Lillehammer non si parla d’altro. La vicenda della “buona” Kerrigan e della “cattiva” Harding aveva fatto ormai il giro del mondo. Spunta anche un video hot della prima notte di nozze tra Tonya e suo marito Jeff, messo in giro da quest’ultimo per vendicarsi della compagna, rea di averlo abbandonato nel momento in cui tutto era venuto alla luce. Volente o nolente, mai il pattinaggio su ghiaccio era stato così popolare.

Il 23 febbraio 1994 è il giorno del programma corto. La Harding scende in pista per seconda, subito dopo la “vecchia” fuoriclasse tedesca Katarina Witt, già con due ori olimpici all’attivo che alla soglia dei trent’anni rientra nella famiglia olimpica per riassaporare sensazioni perdute. Dopo 30 secondi Tonya, irretita dall’enorme pressione psicologica, sbaglia un salto facile, cade e manda tutto in fumo. Verso la fine tocca a Nancy Kerrigan, al rientro ufficiale dopo l’infortunio. La sua danza incanta l’Olympic Amphiteatre di Hamar e la sua splendida prestazione la porta spedita in prima posizione dopo il programma corto: il lieto fine che tutti si augurano si sta per concretizzare. A mettere i bastoni tra le ruote alla bella americana arriva però la minuta ucraina Oksana Baiul, capace di emergere da un’infanzia difficile (orfana dei genitori) e di approfittare di alcuni piccoli errori commessi dalla Kerrigan durante il libero, aggiudicandosi a sorpresa la medaglia d’oro. Il risultato verrà criticato dal pubblico ma ben deciso dai giudici, viste le difficoltà del programma della Baiul, talmente ostico da concedere anche l’errore. Nancy sarà seconda, Tonya sbaglierà anche durante l’ultima prova e finirà lì la sua carriera, con l’ottavo posto olimpico e la successiva squalifica a vita, dovuta ai risvolti di un processo che la dichiarerà inevitabilmente coinvolta nell’aggressione alla Kerrigan.

Il pattinaggio artistico a Lillehammer non si esaurisce però con la rivalità Kerrigan-Harding. L’apertura al professionismo determina che tra i partecipanti ci siano anche titolati atleti dall’ormai lontano passato dilettantistico, come la coppia russa composta da Ekaterina Gordeeva e Sergei Grinkov, che a sei anni di distanza riesce a bissare l’oro di Calgary, e quella britannica che aveva incantato il mondo ben dieci anni prima a Sarajevo, composta da Jayne Torvill e Christopher Dean. I due “vecchietti” d’oltremanica, che nel palazzetto bosniaco avevano dato il via ad una nuova era nel pattinaggio, non hanno dimenticato come si fa e conquistano un insperato bronzo dietro alle due più giovani coppie russe Grishuk-Platov e Usova-Zhulin. Russo è anche l’ultimo oro in palio, quello dell’individuale maschile che vede il successo nitido di Alexej Urmanov, davanti al canadese Elvis Stojko ed al francese Philippe Candeloro.

Nello stesso impianto sono di scena le gare dello short track, giovane disciplina in cui gli specialisti coreani dominano con ben quattro ori, tre individuali ed uno di staffetta. Gli unici allori non asiatici saranno quello dei 500 metri femminili, con l’americana Cathy Turner a bissare il titolo di Albertville, e dell’inattesa staffetta italiana, davanti ad americani ed australiani. Di quella staffetta facevano parte, oltre a Maurizio Carnino ed Hugo Hernoff, anche Mirko Vuillermin, argento nei 500 individuali, ed Orazio Fagone, entrambi coinvolti, pochi anni più tardi, in due distinti incidenti motociclistici che troncheranno le carriere di entrambi. Fagone, dopo la riabilitazione, riuscirà però ad emergere come giocatore di “sledge hockey”, l’hockey su ghiaccio su slitta, partecipando dodici anni dopo alle paralimpiadi di Torino.

Dal pattinaggio su pista lunga arrivano altre due storie significative. Quella che più interessa il pubblico di casa riguarda Johann-Olav Koss, il pattinatore di ferro che due anni prima, nonostante una brutta infiammazione al pancreas, era riuscito a conquistare due medaglie. Ad Hamar, nella Vikingskipet Arena, Koss arriva al culmine della forma e si rende autore di prestazioni incredibili. Vince l’oro nei 1.500, 5.000 e 10.000 metri, stabilendo in tutti e tre i casi il record del mondo. Impressionante quello sulla distanza più lunga, nella quale infrange il suo precedente primato di ben 13 secondi, lasciando i rivali a distanza siderale. Dopo i giochi Koss, che aveva devoluto ai bambini bosniaci l’intera somma dei premi vinti a Lillehammer, diventerà membro del Cio prima, ambasciatore Unicef poi e fonderà quindi un’associazione non governativa a scopo benefico. Nei 500 metri arriva l’oro russo di Aleksandr Golubev, mentre la storia più bella riguarda i 1000 metri.

Il protagonista è Dan Jansen, pattinatore statunitense. Nel 1984, a Sarajevo, Dan aveva cominciato la rincorsa all’alloro olimpico, giungendo quarto. Quattro anni più tardi a Calgary si presenta nelle vesti di favorito sulla distanza dei 500 metri. Il clima che c’è intorno a lui, però, non è certo dei migliori. Dan aveva lasciato a casa sua sorella Jane, gravemente malata di una leucemia che la stava pian piano consumando. Alla vigilia dei 1.000 metri, Dan riceve l’incitamento telefonico di Jane, il cui quadro clinico stava precipitando. Lui scende comunque in pista, ma, privo della dovuta concentrazione, sbaglia e cade. La notizia della morte di Jane arriva poche ore più tardi. Jansen si fa forza, provando a mantenere la promessa fatta alla sorella ma nella gara dei 500 la testa è altrove e un’altra caduta gli pregiudica il risultato. Passano altri quattro anni e ad Albertville il copione si ripete. È il favorito sui 500, ma uno svarione gli fa perdere tempo e sogni di gloria: sarà quarto a soli 32 centesimi di secondi dall’oro. Dan decide di provarci un’ultima volta e tiene duro altri due anni fino a Lillehammer. Nei 400 è ancora fuori dal podio e ancora per colpa di un piccolissimo errore che lo fa scivolare all’ottavo posto, a soli 35 centesimi dalla vetta.

Arrivano i 1.000 metri. Non sono la sua gara: ad Albertville era stato addirittura ventiseiesimo e il morale, dopo il mancato podio nei “suoi” 500, è sotto le scarpe. Sono la moglie Robin e la figlioletta, chiamata Jane come la sorella, a ridargli la serenità. Jansen si presenta sulla riga di partenza dei 1.000 metri senza nulla da perdere né da chiedere ad una prova che raramente l’aveva visto protagonista. È la sua ultima gara olimpica in dieci anni di carriera e ci sono altri sulla carta più forti di lui, ma di quella carta Dan non vuole sentir parlare. Se i pronostici fossero legge, avrebbe già smesso di gareggiare dopo Albertville con tre titoli olimpici in tasca e nient’altro da dimostrare ed è per questo motivo che Dan decide di riscrivere la storia. Primo nei 1.000 metri, medaglia d’oro olimpica e record del mondo abbassato sotto gli occhi di 12 mila spettatori deliranti e sotto lo sguardo commosso della moglie. Oggi Daniel Jansen è attivo nel volontariato con una fondazione a suo nome impegnata nella lotta alla leucemia, il cui motto, significativo più di mille parole, è: “Give is gold”, dare è oro.

Nelle prove femminili di pattinaggio di velocità, il ruolo di protagonista se lo ritaglia Bonnie Blair, che riesce in quello in cui Alberto Tomba aveva fallito, ossia confermare due ori olimpici nelle stesse discipline in cui aveva vinto ai precedenti giochi. Lo sciatore italiano non ce l’aveva fatta per 15 centesimi, quelli che lo separavano dall’oro dello slalom ad Albertville e che gli negarono la doppietta gigante-slalom conseguita quattro anni prima a Calgary, mentre la Blair ci riuscirà senza problemi nei 500 e nei 1.000 metri, confermando quanto già fatto, con il vantaggio però di esserci riuscita, rispetto a Tomba, a distanza di soli due anni da Albertville. La Blair sarà quarta a tre centesimi dal bronzo nei 1.500 metri vinti dall’austriaca Emese Hunyady (ungherese di nascita, naturalizzata per matrimonio), la quale sarà a sua volta argento dietro alla russa Svetlana Bazhanova nei 3.000. L’ultima gara in programma, i 5.000 metri, saranno un monologo tedesco, con la giovane Claudia Pechstein al primo oro olimpico in carriera, di un’inezia davanti alla campionessa in carica Gunda Niemann, nello stesso giorno in cui una bravissima Elena Belci, quarta, sfiora quello che sarebbe stato un risultato storico, il primo italiano nel pattinaggio di velocità.

L’ultima impresa sui pattini dei giochi di Lillehammer arriva dalla sorprendente squadra svedese di hockey su ghiaccio, capace di sconfiggere per 3-2, dopo tempi supplementari e rigori, il favoritissimo Canada. Su altri pattini, quelli delle slitte da discesa, sono gli italiani a dettar legge. Solo la verde anagrafe di Armin Zoeggeler, ancora troppo giovane per rivaleggiare con i “mostri sacri” Georg Hackl (tedesco) e Markus Prock (austriaco), nega all’Italia una clamorosa tripletta. Nella prova del singolo i due fenomeni saranno separati dopo quattro discese da appena 13 millesimi, cioè poco più di un centesimo di secondo e tanto meno di un battito di ciglia. Zoeggeler arriverà alla pur brevissima distanza di 25 centesimi, precedendo Arnold Huber, quarto, e suo fratello Norbert Huber, sesto. La storica famiglia di slittinisti altoatesini ci metterà poco a riscattarsi. Nella prova di doppio infatti Wilfried Huber sarà oro, in coppia con Kurt Brugger, mentre lo stesso Norbert, finirà alle loro spalle guidato dal compagno Hansjörg Raffl, con cui era stato bronzo ad Albertville. Il trionfo italiano è completato da Gerda Weissensteiner che stravince la prova di singolo femminile davanti alla tedesca Susi Erdmann con oltre sette decimi di vantaggio.

Dal bob, oltre alle prevedibili affermazioni svizzere (Wader-Acklin nel “due”) e tedesche (Harald Czudaj al volante nel “quattro”), e oltre anche al ritorno sul podio dell’Italia, che ottiene il bronzo grazie a Stefano Ticci e a un altro fratello Huber, Günther, arrivano le curiose storie di due equipaggi quanto mai insoliti. I caraibici della Giamaica, ormai avvezzi alle temperature glaciali dal debutto avvenuto sei anni prima a Calgary, giungono quattordicesimi nel bob a 4, stabilendo la miglior prestazione di sempre di un paese privo di neve ai giochi olimpici invernali. L’altra storia, in pieno spirito olimpico, è quella dell’equipaggio di Trinidad & Tobago. Gregory Sun e Curtis Harry, iniziati al bob proprio dal giamaicano Stokes, di cui i due erano compagni di college, scoprono all’aeroporto di Oslo che le loro valigie sono scomparse. Arrivati sprovvedutamente in jeans, i due finiscono facilmente per ammalarsi. Nonostante la febbre non ancora smaltita nei giorni di gara, non si daranno per vinti e riusciranno a concludere la prova al 37° posto, comunque davanti ad altri equipaggi altrettanto esotici: Isole Vergini-1, Samoa Americane, Porto Rico, San Marino e Isole Vergini-2.

“L’importante è partecipare”, diceva De Coubertin, ma se sei in Norvegia e hai un paio di sci stretti ai piedi, il motto può essere tranquillamente ribaltato in “l’imperativo è vincere”. Davanti ad un pubblico mai inferiore alle centocinquantamila unità inizia quindi la festa norvegese. Ad inaugurarla è il norvegese Thomas Alsgaard, che nella 30 km inaugurale precede il favorito della vigilia Bjørn Daehlie e il finlandese Mika Myllylä; a proseguirla è lo stesso Daehlie che per due volte, nella 10 km e nella 15 ad inseguimento, viene accompagnato sul podio del kazako Smirnov e da un italiano, Marco Albarello nella 10 km e Silvio Fauner nella 15 km. Ad interromperla bruscamente è quello che avviene il 22 febbraio 1994. Nel percorso di Birkbeineren è di scena la staffetta 4x10 km del fondo, la gara più sentita dal pubblico locale.

Sono circa duecentomila i norvegesi presenti all’evento, tutti con una piccola bandierina in mano per una coreografia da brividi. Alla partenza i nordici scattano come una furia. Sulla loro scia si porta subito il nonno del gruppo, l’italiano Maurilio De Zolt, detto “Grillo” per la sua statura minuta, che a 43 anni e senza mai perdere un metro conclude la frazione con il gruppo dei migliori. Il testimone passa a Marco Albarello che addirittura sfida la potenza norvegese terminando la sua frazione al primo posto davanti a Vegard Ulvang. In terza frazione Giorgio Vanzetta marca stretto Thomas Alsgaard e non perde neanche un centimetro. Degli avversari resiste solo la Finlandia. L’ultimo testimone passa a Silvio Fauner che deve vedersela con il “mostro” Daehlie. Manca un chilometro, e sono mille metri da leggenda: Fauner e Daehlie, con Mika Myllylä ormai staccato, giocano al “surplace”. Quando parte la volata l’italiano diventa imprendibile per Daehlie, al quale seppur per pochissimo non riesce la zampata finale. L’urlo dei duecentomila scandinavi viene strozzato in gola da quello di gioia di Silvio Fauner da Sappada, una delusione per il pubblico pari forse solo a quella sofferta 44 anni prima dai brasiliani presenti al Maracanà, quando l’uruguaiano Ghiggia li privò di un mondiale di calcio già vinto. Addirittura re Harald abbandona sconsolato lo stadio del fondo, senza assistere alla premiazione. I quattro moschettieri azzurri quel giorno l’hanno combinata proprio grossa. Nell’ultima gara in programma, la “maratona della neve” (50 km), saranno invece il kazako Vladimir Smirnov ed il finlandese Myllylä a privare del successo i norvegesi, che ancora storditi dal colpo infertogli dagli italiani, giungono terzi con Sture Siversten, quarti con Daehlie e quinti con Erling Jevne.

Se Daehlie mantiene comunque lo scettro di re del fondo in questi giochi, con due ori e due argenti in bacheca, la regina è da scegliere tra Ljubov Yegorova, capace di vincere due ori e un argento individuale a cui va aggiunto il trionfo di squadra in staffetta, e una trentunenne di Paluzza, in provincia di Udine, che raggiunge la maturità agonistica proprio in occasione dei giochi di Lillehammer, andando a medaglia in tutte le gare in programma. Il suo nome è Manuela Di Centa e il suo palmares norvegese è invidiabile: oro al debutto nella 15 km a tecnica libera, argento nella 5 km a tecnica classica dietro alla Yegorova, poi mantenuto nella 10 km ad inseguimento, dove a conseguire il miglior tempo parziale sarà Stefania Belmondo, risalita dal tredicesimo posto fino a uno strepitoso podio, bronzo in staffetta dietro a Russia e Norvegia in compagnia di Bice Vanzetta, Gabriella Paruzzi e della Belmondo, e infine splendido oro nella 30 km conclusiva a tecnica classica, davanti alla norvegese Wold per una manciata di secondi. Una carriera lunga dieci anni coronata a fine stagione anche dalla vittoria nella Coppa del Mondo assoluta.

Tra i funamboli del freestyle arriva l’oro di una nazione giovane, l’Uzbekistan, con Lina Cheryazova che, nella moderna disciplina dell’Aerials (in pratica i salti acrobatici) ottiene un punteggio di poco superiore a quello della svedese Lindgren e della norvegese Lid, tutte racchiuse in appena due punti. Il suo corrispettivo maschile sarà lo svizzero Schönbächler, mentre nelle già sperimentate “Gobbe”, già presenti ad Albertville, in campo femminile vincerà la norvegese Hattestad, mentre in quello maschile il francese Gospiron non riuscirà a bissare il trionfo casalingo di due anni prima e si fermerà al terzo posto dietro al canadese Jean Luc Bressard. Nel biathlon si registra il predominio russo, con Chepikov e Tarasov che si aggiudicano le gare individuali, mentre alle ragazze vanno quelle a squadre, e l’affermazione nelle due prove femminili della canadese Myriam Bedard. La staffetta maschile di biathlon, in cui l’Italia era fresca campione del mondo, è appannaggio della fortissima Germania, mentre gli azzurri, autori di una prova scadente al tiro, concludono al sesto posto. Nella combinata nordica sono ancora i giapponesi a giocare un brutto scherzo, come quattro anni prima, ai padroni di casa. Con una vittoria schiacciante per più di cinque minuti la formazione del sol levante si aggiudica la prova a squadre sulla Norvegia, che si consola comunque con l’alloro individuale di Fred Børre Lundberg.

Sulle piste di Hafjell e Kvitfjell si svolgono le gare di sci alpino. Le prove maschili sono tutte tiratissime e giocate sul filo dei centesimi, ad esclusione della combinata, dove in un podio tutto norvegese Lasse Kjus rifila poco più di un secondo al compagno di squadra Kjetil-André Aamodt e quasi due a Christian Strand-Nielsen. La discesa libera inaugurale vede l’affermazione a sorpresa dello statunitense Tommy Moe, sceso con il pettorale numero 8, subito dopo Aamodt. Il distacco tra i due al termine della prova sarà di soli 4 centesimi. Nel superG Le cose sembrano ripetersi con Moe autore di un ottimo tempo, ma dopo di lui scende il tedesco Markus Wasmaier, che lo supera di appena 8 centesimi. Terzo, ancora una volta dietro Moe, ancora Aamodt. Nel gigante, dove Tomba stecca clamorosamente, è a sorpresa ancora Wasmaier e vincere, stavolta per appena 2 centesimi di secondo sullo svizzero Urs Kaelin, entrambi non pronosticati alla vigilia. La riscossa di Albertone, sciatore dal talento incredibile, arriva nello slalom. Dopo una prima manche inguardabile terminata al dodicesimo posto nella seconda discesa, disturbata dal vento, Tomba scende come una furia. È suo il miglior tempo di manche e dopo di lui, uno dopo l’altro, escono o si piazzano alle sue spalle tutti i suoi avversari. Resta solo Thomas Stangassinger, primo dopo la prima manche con l’abissale vantaggio di un secondo e 84 centesimi, tra lui e l’incredibile oro. L’austriaco scende con il freno a mano tirato, per paura di cadere, e sul traguardo termina primo, per soli 15 centesimi. Per quanto riguarda Tomba, il rimpianto per una prima manche deludente è tanto, ma l’ennesima dimostrazione del suo incredibile talento ripaga il pubblico.

Le gare femminili si aprono con la vittoria della statunitense Diann Roffe nel SuperG, dove in terza posizione si piazza, a solo un centesimo dall’argento della russa Gladisheva, la bolzanina Isolde Kostner, nuovo talento della velocità italiana. Nella discesa libera la tedesca Katja Seizinger vince il suo primo oro olimpico davanti all’americana Picabo Street e, ancora una volta, alla Kostner, al secondo bronzo in quattro giorni. Ventiquattr’ore dopo, nella combinata, è il turno della Svezia, con Pernilla Wyberg ancora oro, davanti alla rientrante Vreni Schneider, bicampionessa a Calgary e assente per infortunio ad Albertville. Quarta a sette centesimi dal podio l’azzurra Morena Gallizio. Il 24 febbraio è il giorno dello slalom gigante e Deborah Compagnoni cancella i fantasmi di Albertville concedendosi due manche perfette. La vittoria è sua con un distacco di oltre un secondo e due decimi inflitto alla sua rivale storica, la tedesca Martina Ertl, e di due secondi esatti alla svizzera Schneider. È lei la più forte gigantista in circolazione. L’ultima prova in programma, lo slalom speciale, vede tornare sul gradino più alto del podio la Schneider, che a sei anni dalle olimpiadi canadesi, torna a primeggiare nella sua disciplina preferita.

Per concludere il racconto delle intensissime olimpiadi norvegesi è giusto parlare di salto con gli sci, una specialità nata e diffusa soprattutto nei paesi nordici. Ha del prodigioso quello che realizza Jens Weissflog, oro olimpico nel 1984 a Sarajevo, prima della rivoluzione avvenuta con il B-Style, il tipo di salto più evoluto cui il tedesco fa fatica ad abituarsi. A Lillehammer Jens ha ormai imparato la nuova tecnica ma ha contro il norvegese Espen Bredesen ed i 120 mila dello stadio del salto, che da 42 anni attendono un successo nella disciplina. Al primo tentativo Weissflog sfodera un salto da 129 metri che gli vale 134,1 punti e il primo posto provvisorio. Bredesen fa meglio con 135 metri e 144,4 punti. Dieci punti di vantaggio prima dell’ultimo tentativo. Parte prima Weissflog che con un salto di 135 metri mette pressione a Bredesen. Il padrone di casa con 120 mila spettatori silenti aspetterà invano il vento giusto per saltare fino alla soglia dei 15 secondi di attesa concessi dal regolamento, scaduti i quali è costretto a lanciarsi comunque: 11 metri meno del tedesco e oro sfumato. Jens Weissflog, dieci anni dopo il suo primo titolo, è di nuovo campione olimpico.

La gara a squadre vede il Giappone saldamente in testa fino all’ultimo salto, quello di Masahiko Harada, con cui Weissflog si complimenta prima ancora della performance decisiva. Un gesto considerato scorretto da alcuni (tra cui Bredesen), ingenuo da altri, tant’è che Harada, cui bastava un “saltino” da 105 metri per mettersi al collo l’oro, fa harakiri sbagliando clamorosamente e saltando 8 metri meno del necessario. Per la Germania è medaglia d’oro, il secondo personale di Jens. Alla storica tripletta manca solo la gara dal trampolino K90, ma Weissflog vi arriva scarico e forse demotivato dalle accuse di scorrettezza piovutegli addosso nei giorni precedenti. Ne approfitta Bredesen che stavolta, forse galvanizzato dalla notizia della tripletta norvegese nella combinata di sci alpino, da poco trasmessa sui maxischermi, trova il vento giusto anche nel secondo salto consegnando al suo paese una medaglia storica attesa per 42 anni.


 

 

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