N. 26 - Febbraio 2010
(LVII)
la storia dei Giochi Olimpici Invernali
Parte XVIII - nagano 1998
di Simone Valtieri
A 26
anni
di
distanza
da
Sapporo
’72,
le
Olimpiadi
tornano
nella
terra
del
sol
levante,
in
un
luogo
che
di
alpino
e
montanaro
ha
ben
poco.
Nagano,
sorta
in
una
vasta
zona
(il
suo
nome
significa
“campo
largo”,
Naga-no)
alla
confluenza
tra
la
via
del
sale
e
quella
dell’oro,
è la
città
deputata
ad
ospitare
la
XVIII
edizione
dei
giochi
della
neve.
La
scelta
avviene
il
15
giugno
1991
a
Tokyo,
in
una
sessione
del
Cio
avvelenata
da
polemiche
e
accuse
di
presunti
brogli,
sollevate
dalla
delegazione
a
sostegno
della
candidatura
di
Salt
Lake
City.
Dopo
aver
superato
la
concorrenza
interna
di
Morioka,
Yamagata
e
Asahikawa,
Nagano
dovette
infatti
vedersela
con
Aosta,
Jaca,
Oestersund
e,
per
ultima,
con
la
cittadina
dello
Utah,
che
batterà
per
46
voti
a
42.
A
far
pendere
l’ago
della
bilancia
dalla
parte
di
Nagano
il
voto
pesante
del
presidente
del
Cio
Juan
Antonio
Samaranch
e la
copertura
economica
garantita,
tra
gli
altri,
da
Yoshiyaki
Tsutsumi,
uno
degli
uomini
più
ricchi
del
mondo
che
sarà
coinvolto
in
futuro
(2005)
in
uno
scandalo
con
la
sua
Seibu,
azienda
leader
nel
settore
delle
costruzioni.
Ottenuta
l’organizzazione
dell’evento,
la
meticolosità
e
l’efficienza
del
popolo
nipponico
facevano
dormire
sonni
tranquilli,
mentre
l’unico
spauracchio
rimaneva
il
clima.
C’era
il
timore
che
potesse
verificarsi
quello
che
era
accaduto
nel
1993
a
Morioka,
quando
le
bizze
del
meteo
avevano
pesantemente
condizionato
i
campionati
mondiali
di
sci
alpino,
conditi
da
ripetuti
rinvii
ed
annullamenti
forzati.
Allo
scopo
vennero
persino
organizzati
riti
collettivi
davanti
al
tempio
di
Zenkoji,
importante
meta
di
pellegrinaggio
che
custodisce
una
preziosa
statua
di
Buddha,
la
prima
nella
storia
ad
arrivare
sul
suolo
giapponese.
Le
preghiere
vennero
in
parte
accolte
e,
nonostante
un
clima
capriccioso
ed
una
condizione
della
neve
precaria
soprattutto
nelle
gare
di
sci
alpino,
i
giochi
si
disputarono
senza
troppi
inconvenienti.
2.176
atleti;
1.389
uomini;
787
donne;
72
nazioni
in
gara,
tra
cui
per
la
prima
volta
Azerbaijan,
Kenya,
Macedonia,
Uruguay
e
Venezuela;
70
milioni
di
dollari
in
attivo
nonostante
la
svalutazione
dello
yen
avesse
pesantemente
influito
sui
515
milioni
investiti
dalle
televisioni
per
trasmettere
l’evento.
Numeri,
numeri
e
ancora
numeri.
Non
a
caso,
perché
Nagano
1998
rappresenta
una
svolta,
un
passaggio
epocale
dal
vecchio
al
nuovo,
dall’umano
al
tecnologico,
dal
dilettante
al
professionista,
dalla
televisione
ad
internet,
“…tanta
tecnologia
che
si
disperde,
confonde
e
non
memorizza,
un
po’
come
il
giapponese
che
va
in
vacanza,
filma
tutto
e
non
vede
nulla.
Poi
quando
torna
a
casa
e
riversa
in
cassetta
scopre
quello
che
ha
visto
con
il
suo
binocolo
telematico”
(F.e
L.
Masotto,
Giochi
con
i
fiocchi,
lo
sprint,
Genova,
2005).
Il
succo
di
Nagano
è
tutto
in
questa
frase:
numeri,
numeri
e
ancora
numeri
che
arrivano
in
tempo
reale
su
internet,
senza
sosta,
dai
campi
di
gara
e
dalle
72
prove
che
assegnano
l’oro.
Sono
tre
le
novità
nel
programma.
La
prima
è il
curling,
che
rientra
nelle
vesti
di
sport
ufficiale
dopo
un’assenza
di
64
anni
che
durava
da
Chamonix
1924
(era
stato
dimostrativo
a
Lake
Placid
’32,
Calgary
’88
ed
Albertville
’92).
Quindi
fanno
la
loro
prima
comparsa
l’hockey
su
ghiaccio
femminile
e lo
snowboard,
al
suo
debutto
assoluto
nella
kermesse
a
cinque
cerchi.
La
prima
medaglia
della
nuova
disciplina
rappresenta
anche
il
caso
dei
giochi.
I
protagonisti
sono
il
canadese
Ross
Rebagliati
e
l’altoatesino
Thomas
Prugger,
rispettivamente
primo
e
secondo
classificato
nello
snowboard
maschile.
Rebagliati,
di
nonno
savonese
e
chiare
origini
italiane,
viene
pescato
positivo
al
controllo
antidoping
al
termine
della
gara.
La
sostanza
in
questione
è la
marijuana.
Privato
dell’oro,
inizialmente
assegnato
a
Prugger,
si
giustificherà
dicendo
di
aver
soltanto
respirato
passivamente
la
sostanza.
Il
medico
della
delegazione
canadese
supporterà
la
sua
tesi
affermando
che
il
tipo
di
cannabis
in
questione
è
dodici
volte
più
potente
di
quella
europea
e
può
perciò
dare
positività
anche
se
solo
inspirata.
Il
Cio
restituirà
la
medaglia
a
Rebagliati
tre
giorni
dopo,
con
la
motivazione
ufficiale
che
la
“canna”
non
è
tra
le
sostanze
vietate
dalla
FIS
(Federazione
Internazionale
dello
Sci)
perché
non
si
assume
col
fine
di
doparsi.
Il
pastrocchio
si
conclude
due
mesi
dopo,
il
25
aprile,
quando
il
Cio
inserisce
la
marijuana
nella
lista
delle
sostanze
dopanti
con
decisione
non
retroattiva,
mandando
letteralmente
“in
fumo”
le
ultime
speranze
di
Prugger
di
riottenere
l’oro.
Una
beffa
doppia
per
il
povero
snowboarder
azzurro,
se
si
pensa
che
la
decisione
presa
potrebbe
in
qualche
modo
aver
vissuto
nell’eco
dalla
torbida
vicenda
del
laboratorio
antidoping
del
Coni
di
Ferrara,
esplosa
un
anno
prima
dopo
le
dichiarazione
del
dottor
Faraggiana
e
che
porterà
alla
luce
un
sistema
capillare
di
emotrasfusioni
illegali
e
dopaggio
degli
atleti
tramite
Epo,
avallato
e in
alcuni
casi
coperto
dal
Coni
stesso.
Una
bruttissima
faccenda
che
getterà
ombre
su
alcune
imprese
azzurre
dei
giochi
precedenti.
Oltre
al
discusso
Rebagliati,
i
campioni
olimpici
della
tavola
da
neve
sono
lo
svizzero
Gian
Simmen
e la
tedesca
Nicola
Thost
nell’acrobatica
disciplina
dell’Half
Pipe,
e la
francese
Karine
Ruby
nel
gigante
femminile,
una
vera
e
propria
leggenda
dello
snowboard,
capace
di
collezionare,
oltre
all’oro
olimpico
di
Nagano,
sei
titoli
mondiali,
diciannove
coppe
del
mondo,
di
specialità
e
assolute,
e
ben
67
gare
vinte
in
carriera.
Nel
curling
commuove
la
storia
di
Sandra
Schmirler,
anch’essa
una
leggenda
nella
sua
disciplina,
che
guida
il
Canada
alla
vittoria
nel
torneo
femminile
prima
di
perdere
la
vita,
pochi
mesi
più
tardi,
a
causa
di
un
male
incurabile
alla
giovane
età
di
36
anni.
“Schmirler
the
Curler”,
com’era
affettuosamente
chiamata
dai
suoi
tifosi,
resterà
per
sempre
nei
ricordi
non
soltanto
degli
appassionati
di
curling,
ma
anche
di
tutti
gli
sportivi
canadesi,
che
le
dedicheranno
ogni
trionfo
dai
giochi
olimpici
successivi.
Negli
altri
due
tornei
a
squadre
all’esordio
sono
le
potenze
nordamericane
a
dominare,
con
il
Canada
maschile
a
bissare
l’oro
delle
ragazze
nel
curling
e
con
gli
Stati
Uniti
a
superare
proprio
il
Canada
nell’hockey
femminile.
La
grande
novità
nei
tornei
a
squadre
arriva
però
dall’hockey
maschile,
dove
per
la
prima
volta
le
porte
sono
aperte
anche
ai
professionisti
della
NHL,
la
lega
americana
da
cui
provengono
tutti
i
più
forti
giocatori
del
mondo.
L’attesa
è
grande,
almeno
pari
a
quella
che
sarà
poi
la
delusione
dei
due
team
superfavoriti:
Canada
e
Stati
Uniti.
Il
denominatore
comune
alla
loro
figuraccia
olimpica
ha
lo
sguardo
ipnotico
di
Dominik
Hasek,
portiere
mancino
della
Repubblica
Ceca..
Hasek
si
rende
protagonista
di
38
incredibili
parate
su
39
tiri
nei
quarti
di
finale
contro
i
“pro”
degli
Stati
Uniti.
Gli
americani
riescono
a
passare
una
sola
volta
contro
le
quattro
con
cui
gli
attaccanti
cechi
si
fanno
beffa
della
loro
difesa.
Il
risultato
è la
fine
del
sogno
olimpico
e
alcune
camere
d’albergo
devastate
dai
viziati
giocatori
NHL.
In
semifinale
con
il
Canada
l’eroe
è
sempre
Hasek,
capace
di
parare
tutti
e
cinque
i
rigori
avversari,
così
come
anche
nella
finalissima
contro
la
Russia,
durante
la
quale
la
porta
che
difende
rimane
immacolata.
Finisce
così
che
sul
podio
olimpico
terminano
le
tre
squadre,
nell’ordine
Repubblica
Ceca,
Russia
e
Finlandia
(Canada
battuto
3-2
per
il
terzo
posto),
con
meno
giocatori
professionisti
in
campo.
Dalla
più
tradizionale
delle
discipline
nordiche,
lo
sci
di
fondo,
arriva
anche
la
regina
dei
giochi,
la
russa
Larissa
Lazutina,
che
sulle
sfaldate
nevi
di
Kamishiro
sale
sul
podio
in
tutte
le
gare,
riportando
tre
ori
(5
km,
10
km
ad
inseguimento
e
staffetta),
un
argento
(15
km)
ed
un
bronzo
(30
km).
Le
gare
che
non
riesce
a
vincere
sono
comunque
terreno
di
caccia
per
le
sue
compagne
di
squadra:
Olga
Danilova,
prima
nella
15
km a
passo
alternato,
e
Yuliya
Tchepalova,
oro
sotto
nella
30
km
sotto
una
fitta
pioggia
e di
una
manciata
di
secondi
davanti
a
Stefania
Belmondo,
che
nella
“maratonina”
si
riscatta
dopo
la
caduta
a
800
metri
dal
traguardo
della
“15”
che
l’aveva
estromessa
dal
podio.
L’oro
della
staffetta
4x5
km
stabilisce
tra
gli
altri
un
particolare
primato,
in
quanto
le
quattro
componenti
della
Russia
(Lazutina,
Danilova,
Nina
Gavriluk
ed
Elena
Vealbe)
sono
tutte
da
poco
diventate
mamma.
Dietro
di
loro
terminano
le
norvegesi
e le
italiane,
guidate
da
una
straripante
Belmondo
che
nell’ultima
frazione
riesce
a
recuperare
l’enormità
di
50
secondi
in
soli
5 km
alle
ultime
frazioniste
di
Svizzera,
Germania
e
Repubblica
Ceca,
regalando
l’oro
a se
ed
alle
proprie
compagne
(Karin
Moroder,
Gabriella
Paruzzi
e
Manuela
Di
Centa).
Se
la
Lazutina
è
regina,
il
sovrano
dei
giochi
scia
sulle
stesse
piste
e
risponde
al
nome
di
Bjørn
Daehlie.
Il
campione
norvegese,
alla
sua
terza
olimpiade,
conquista
quattro
medaglie
(tre
ori
nella
10
km,
50
km e
staffetta
e un
argento
nella
15
km
ad
inseguimento,
battuto
allo
sprint
dal
compagno
di
squadra
Alsgaard)
che
sommate
alle
altre
vinte
nelle
precedenti
edizioni
lo
portano
ad
un
totale
di
dodici.
La
tredicesima,
simbolica,
la
ottiene
come
numero
uno
della
sportività
quando,
al
termine
della
vittoriosa
10
km,
attende
sulla
linea
del
traguardo
per
oltre
mezzora
l’arrivo
del
novantaduesimo
e
ultimo
concorrente
in
gara,
il
keniano
Philip
Boit,
per
abbracciarlo
e
congratularsi
con
lui.
L’atleta
di
colore,
il
primo
africano
iscritto
a
una
gara
olimpica
di
fondo,
era
stato
letteralmente
catapultato
nel
circo
bianco
da
uno
noto
sponsor
in
cerca
di
pubblicità,
senza
aver
mai
visto
la
neve
in
vita
sua
né
calzato
sci
ai
piedi
fino
a
pochi
mesi
prima.
All’Italia
nella
staffetta
non
riesce
il
bis.
In
una
gara
che
sembrava
ricalcare
il
copione
di
quella
storica
di
Lillehammer,
cambia
soltantoo
un
fondamentale
elemento:
l’ultimo
frazionista
norvegese
è
Thomas
Alsgaard
e
allo
sprint,
diversamente
da
Daehlie
quattro
anni
prima,
non
si
fa
battere
da
Silvio
Fauner.
“Sissio”,
vince
l’argento
insieme
ai
compagni
Marco
Albarello,
Fulvio
Valbusa
e
Fabio
Maj,
la
sua
seconda
medaglia
dopo
il
bronzo
nella
30
km a
tecnica
libera,
unica
gara
al
maschile
in
cui
i
norvegesi
devono
accontentarsi
del
secondo
posto
dietro
al
finlandese
Mika
Myllylae
che
rifila
un
minuto
e
mezzo
ad
Erling
Jevne
e
più
di
due
a
Fauner.
La
50
km
conclusiva,
in
cui
Daehlie
ha
la
meglio
per
soli
otto
secondi
sullo
svedese
Niklas
Jonsson,
sarà
anche
l’ultima
gara
olimpica
disputata
dal
fuoriclasse
norvegese
il
quale,
stremato
dopo
aver
tagliato
il
traguardo,
impiegherà
svariati
minuti
per
riprendersi
dall’immane
sforzo.
Il
“Nannestad
express”,
come
veniva
chiamato
in
patria,
si
ritirerà
nel
2001
per
le
conseguenze
di
un
infortunio
occorsogli
mentre
si
allenava
sugli
skiroll.
Non
riuscirà
a
disputare
la
sua
quarta
olimpiade
ma
verrà
comunque
considerato
da
molti
come
il
miglior
fondista
della
storia.
Sulle
friabili
nevi
di
Hakuba
si
disputano
le
prove
di
sci
alpino.
Alberto
Tomba,
alla
quarta
olimpiade,
non
riesce
a
lasciare
il
segno.
Uscito
malconcio
da
una
caduta
nel
gigante,
è
diciassettesimo
nella
prima
manche
dello
slalom.
Salterà
la
seconda
manche
e
diserterà
la
conferenza
stampa,
lasciando
le
sue
dichiarazioni,
e di
conseguenza
il
suo
ultimo
atto
olimpico
da
atleta,
a
una
cassetta
audio
registrata.
Prende
il
suo
posto
come
protagonista
assoluto
dello
sci
alpino
Hermann
Maier,
detto
“Herminator”.
L’ex
muratore
austriaco
approda
tardi
allo
sci
ed è
un
colosso
dalla
potenza
e
robustezza
impressionante.
Durante
la
discesa
libera
vinta
dal
francese
Jean
Luc
Cretier,
è
protagonista
di
un’uscita
di
pista
tanto
spettacolare
quanto
drammatica:
Maier
plana
letteralmente
per
70
metri
atterrando
violentemente
sulla
spalla
sinistra
e
terminando
il
suo
volo
dopo
aver
sfondato
tre
file
di
barriere
protettive.
In
men
che
non
si
dica,
“Herminator”
è in
piedi
a
scrollarsi
di
dosso
la
neve
e a
pensare
al
superG
di
tre
giorni
dopo:
vincerà
a
mani
basse
davanti
ad
un
altro
orso
delle
nevi
come
lo
svizzero
Didier
Cuche,
così
come
farà
anche
nello
slalom
gigante,
lasciandosi
alle
spalle
il
connazionale
Stephan
Eberharter.
L’Austria,
sul
podio
in
tutte
le
gare
al
maschile,
vincerà
anche
la
combinata
con
Mario
Raiter,
mentre
a
vincere
lo
slalom
sarà
il
carneade
norvegee
Hans-Petter
Buraas.
Non
bastano
alla
tedesca
Katja
Seizinger
due
ori
(discesa
e
combinata)
e un
bronzo
(gigante)
per
essere
considerata
la
sciatrice
simbolo
dei
giochi.
La
prima
pagina
è
meritatamente
conquistata
da
Deborah
Compagnoni,
che
diventa
a
Nagano
la
prima
sciatrice
donna
a
vincere
tre
ori
in
tre
edizioni
consecutive
dei
giochi.
Debby
trionfa
nello
slalom
gigante,
dominando
in
entrambe
le
manche
e
lasciando
la
più
vicina
delle
avversarie,
l’austriaca
Alexandra
Meissnitzer,
a
oltre
un
secondo
e 80
centesimi:
il
distacco
più
grande
mai
registrato
da
Grenoble
1968,
in
pratica
da
un’altra
era
sciistica.
La
Compagnoni
otterrà
anche
uno
splendido
e
sfortunato
argento
nello
slalom
speciale,
finendo
per
soli
sei
centesimi
dietro
alla
tedesca
Hilde
Gerg,
mentre
non
è
iscritta
alla
gara
che
l’aveva
vista
esordire
con
l’oro
sei
anni
prima,
il
superG,
vinto
per
un
solo
centesimo
dall’americana
Picabo
Street
sull’austriaca
Michaela
Dorfmeister.
Nel
pattinaggio
su
ghiaccio
la
copertina
spetta
a
Tara
Lipinski,
americana
di
origine
polacca
che
conquista
l’oro
nell’artistico
all’età
di
15
anni
e
255
giorni,
battendo
il
record
della
divina
Sonja
Henie.
Un
infortunio
all’anca
la
costringerà,
dopo
molte
operazioni,
ad
un
prematuro
ritiro
che
lascerà
la
scena
a
colei
che
a
Nagano
le
arriva
alle
spalle:
la
sua
connazionale
Michelle
Kwan.
La
prova
femminile
è
l’unica
non
dominata
dai
russi,
che
piazzeranno
Ilya
Kulik
sul
gradino
più
alto
della
prova
maschile,
Oksana
Grishuk-Evgeny
Platov
su
quello
delle
coppie
e
Oksana
Kazakova-Arthur
Dmietriev
nella
danza,
fatto
insolito
tra
l’altro
per
una
coppia,
quest’ultima,
capace
di
vincere
anche
un
oro
europeo
e un
bronzo
mondiale,
ma
mai
un
titolo
nazionale.
Nello
stesso
impianto,
il
White
Ring,
dove
volteggiano
gli
atleti
dell’artistico,
gareggiano
anche
i
funamboli
dello
short
track,
disciplina
che
a
Nagano
vede
trionfare
tre
volte
i
coreani
(staffetta
e
1000
metri
femminile
con
protagonista
Chun
Lee-Kyung,
e
1000
metri
maschili
con
Kim
Dong-Sung)
due
i
canadesi
(staffetta
maschile
e
500
metri
femminili
con
Annie
Perreault)
e
una
i
padroni
di
casa
con
Takafumi
Nishitani
nei
500
metri
maschili.
Su
pista
lunga
emerge
il
nome
del
leone
Gianni
Romme,
olandese
dal
sapore
italiano,
chiamato
così
dal
padre
in
onore
del
calciatore
alessandrino
Gianni
Rivera,
suo
idolo
più
dei
vari
“Johan”
(Cruijff
o
Neskeens),
“Johnny”
(Rep)
o
“Ruud”
(Krol)
degli
“Arancioni”
del
calcio
totale.
Romme,
sospinto
nel
sol
levante
dalla
sua
banda
di
ottoni
della
Klentje
Pils,
domina
5.000
e
10.000
metri
con
tempi
sensibilmente
inferiori
al
record
del
mondo,
realizzati
anche
grazie
ai
nuovi
pattini
klap-skate
che
permettono
di
sollevare
il
tallone
e di
sprigionare
maggior
potenza
in
fase
di
spinta.
Gli
“orange”
ben
figurano
anche
nei
1.500,
con
due
piazzamenti
alle
spalle
del
norvegese
Adne
Søndral,
e
nei
1.000,
con
l’oro
di
Ids
Postma
davanti
al
compagno
Jan
Bos,
mentre
scompaiono
nei
500
metri,
gara
vinta
dal
nipponico
Hiroyasu
Shimizu
davanti
a
ben
quattro
canadesi.
E
canadese
è
Catriona
LeMay-Doan
che
consegue
nei
500
femminili
quello
che
i
suoi
connazionali
non
avevano
ottenuto,
ma
si
deve
accontentare
del
bronzo
sulla
doppia
distanza
dove
a
vincere
è
ancora
un’olandese,
la
Maria
Aaltje
Timmer,
per
tutti
Marianne.
La
Timmer
vince
anche,
con
il
record
del
mondo,
la
prova
dei
1.500
metri
battendo
la
tedesca
Gunda
Niemann,
titolata
pochi
giorni
prima
nei
3.000
ed
argento
per
soli
4
centesimi
nei
5.000
dietro
alla
connazionale
Claudia
Pechstein.
L’oro
che
emoziona
maggiormente
i
locali
è
però
quello
di
Kazuyoshi
Funaki,
predestinato
del
salto
da
quando
tre
anni
prima,
a
soli
19
anni,
aveva
debuttato
in
una
gara
di
coppa
per
sostituire
un
compagno
infortunato,
vincendo
al
primo
colpo
e
sbalordendo
il
mondo.
Dal
trampolino
di
Hakuba
il
giovane
ventiduenne
impressiona
per
la
sensazione
di
leggerezza
che
riesce
a
mantenere
dal
momento
dello
stacco
fino
alla
planata
conclusiva:
132,50
metri
accarezzando
l’aria,
un
volo,
il
suo
secondo
salto
nella
prova
del
K120,
che
gli
assegna
il
titolo
olimpico,
a
distanza
di
ventisei
anni
dall’ultimo
oro
vinto
da
un
connazionale
a
Sapporo
’72.
Il
titolo
a
squadre
era
già
andato
alla
formazione
nipponica
nella
prova
d’esordio,
mentre
nel
K90
Funaki
aveva
perso
l’occasione
di
fare
tripletta
per
un
solo
punto,
beffato
dal
finlandese
Jani
Soininen,
poi
terminato
nettamente
alle
sue
spalle
nel
K120.
Dallo
stesso
impianto
di
salto
è il
norvegese
Bjarte-Engen
Vik
che
si
rende
protagonista,
gettando
le
basi
per
le
vittorie
olimpiche
nelle
gare
individuali
e a
squadre
di
combinata
nordica
mentre
nel
“The
Spiral”
di
Asakawa
arriva
il
dominio
tedesco
nello
slittino
grazie
ai
fuoriclasse
Georg
Hackl
(davanti
all’italiano
Armin
Zoeggeler
di
mezzo
secondo),
Silke
Kraushaar
(prima
per
soli
4
milessimi
sulla
connazionale
Barbara
Niedernhuber)
ed
alla
coppia
Stefan
Krausse/Jan
Behrdent.
Medaglie
decisive
che
peseranno
sul
medagliere
tedesco,
il
migliore
di
questa
edizione
con
12
ori
totali
e 29
medaglie,
davanti
ai
10
ori
su
25
medaglie
dei
norvegesi,
ed
ai 9
su
18
dei
russi.
Sulla
pista
di
Asakawa
si
materializza
anche
il
secondo
e
ultimo
oro
italiano
di
Nagano
‘98,
quello
di
Gunther
Huber
e
Antonio
Tartaglia,
che
nel
bob
a
due
sfrecciano
durante
la
prima
delle
quattro
discese
in
programma,
salvo
vedersi
poi
recuperare
discesa
dopo
discesa
dai
rivali,
Pierre
Lueders-David
MacEachern,
nelle
altre
tre.
La
gara
si
concluderà
a
sorpresa
con
un
ex
aequo
al
primo
posto
tra
i
due
equipaggi
che
festeggeranno
insieme
l’alloro
olimpico.
Per
l’abruzzese
Tartaglia,
che
sotto
la
tuta
si
era
fatto
stampare
una
maglietta
con
la
scritta
profetica
“Eugenio
Monti”,
è la
prima
affermazione
in
carriera,
mentre
per
Huber
è la
seconda
medaglia
a
cinque
cerchi
dopo
il
bronzo
di
Lillehammer
in
compagnia
di
Stefano
Ticci,
la
quinta
di
famiglia
se
si
sommano
le
tre
conquistate
nello
slittino
dai
fratelli
Wilfried
e
Norbert
tra
il
1992
ed
il
1994.
Nel
bob
a
quattro
è
“Germania
II”
di
Christoph
Langen
a
conquistare
il
titolo,
mentre
alle
sue
spalle
si
registrano
il
ventunesimo
posto
della
Giamaica,
alla
quarta
partecipazione
ancora
guidata
da
Dudley
Stokes,
e
l’ultimo
posto
del
principe
Alberto
Grimaldi
di
Monaco,
anch’esso
al
quarto
gettone
olimpico
ma
con
risultati
tutt’altro
che
lusinghieri.
I
funamboli
del
freestyle,
in
scherno
alle
origini
della
loro
disciplina
ideata
negli
anni
‘60
dal
norvegese
Stein
Eriksen
che
aveva
messo
a
punto
l’hot
dog
style,
riuscendo
a
mescolare
le
sue
abilità
di
sciatore
e
ginnasta,
sono
tutti
extra-europei
e
rispondono
al
nome
di
Eric
Bergoust,
Jonny
Moseley,
Nikki
Stone
(statunitensi)
e
Tae
Satoya
(giapponesina
che
vince
l’oro
nella
specialità
gobbe).
Nel
biathlon
si
registra
la
prima
affermazione
olimpica
del
futuro
dominatore
della
specialità,
il
norvegese
Ole-Einar
Bjørndalen,
primo
nella
10
km e
secondo
in
staffetta
dietro
alla
Germania,
oltre
all’argento
dell’italiano
Pieralberto
Carrara
che
centra
la
prestazione
della
vita
al
tiro
ma è
di
poco
alle
spalle
del
norvegese
Halvard
Hanevold
nella
prova
sui
20
km.
Nelle
specialità
femminili
sono
la
russa
Galina
Koukleva,
la
bulgara
Ekaterina
Dafovska
e
ancora
la
Germania
a
vincere
le
medaglie
più
pregiate.
Curiosa
e
dai
contorni
fiabeschi
la
storia
che
si
cela
dietro
alla
scelta
del
sito
olimpico
per
le
prove
di
biathlon.
Nozawaonsen,
a
oltre
100
km
di
distanza
da
Nagano,
viene
preferito
all’originale
Kamishiro
perché
non
si
voleva
disturbare
un
falco
che
aveva
nidificato
all’interno
di
un
pino
al
poligono
di
tiro.
La
decisione
si
deve
alla
determinata
azione
degli
ecologisti
nipponici
che
sono
riusciti
ad
ottenere
lo
spostamento
delle
gare.
Costo
dell’operazione?
Una
quisquilia:
10
milioni
di
dollari.