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storia & sport


N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

la storia dei Giochi Olimpici Invernali
Parte XVIII - nagano 1998

di Simone Valtieri

 

A 26 anni di distanza da Sapporo ’72, le Olimpiadi tornano nella terra del sol levante, in un luogo che di alpino e montanaro ha ben poco. Nagano, sorta in una vasta zona (il suo nome significa “campo largo”, Naga-no) alla confluenza tra la via del sale e quella dell’oro, è la città deputata ad ospitare la XVIII edizione dei giochi della neve. La scelta avviene il 15 giugno 1991 a Tokyo, in una sessione del Cio avvelenata da polemiche e accuse di presunti brogli, sollevate dalla delegazione a sostegno della candidatura di Salt Lake City.

 

Dopo aver superato la concorrenza interna di Morioka, Yamagata e Asahikawa, Nagano dovette infatti vedersela con Aosta, Jaca, Oestersund e, per ultima, con la cittadina dello Utah, che batterà per 46 voti a 42. A far pendere l’ago della bilancia dalla parte di Nagano il voto pesante del presidente del Cio Juan Antonio Samaranch e la copertura economica garantita, tra gli altri, da Yoshiyaki Tsutsumi, uno degli uomini più ricchi del mondo che sarà coinvolto in futuro (2005) in uno scandalo con la sua Seibu, azienda leader nel settore delle costruzioni.

 

Ottenuta l’organizzazione dell’evento, la meticolosità e l’efficienza del popolo nipponico facevano dormire sonni tranquilli, mentre l’unico spauracchio rimaneva il clima. C’era il timore che potesse verificarsi quello che era accaduto nel 1993 a Morioka, quando le bizze del meteo avevano pesantemente condizionato i campionati mondiali di sci alpino, conditi da ripetuti rinvii ed annullamenti forzati. Allo scopo vennero persino organizzati riti collettivi davanti al tempio di Zenkoji, importante meta di pellegrinaggio che custodisce una preziosa statua di Buddha, la prima nella storia ad arrivare sul suolo giapponese. Le preghiere vennero in parte accolte e, nonostante un clima capriccioso ed una condizione della neve precaria soprattutto nelle gare di sci alpino, i giochi si disputarono senza troppi inconvenienti.

 

2.176 atleti; 1.389 uomini; 787 donne; 72 nazioni in gara, tra cui per la prima volta Azerbaijan, Kenya, Macedonia, Uruguay e Venezuela; 70 milioni di dollari in attivo nonostante la svalutazione dello yen avesse pesantemente influito sui 515 milioni investiti dalle televisioni per trasmettere l’evento. Numeri, numeri e ancora numeri. Non a caso, perché Nagano 1998 rappresenta una svolta, un passaggio epocale dal vecchio al nuovo, dall’umano al tecnologico, dal dilettante al professionista, dalla televisione ad internet, “…tanta tecnologia che si disperde, confonde e non memorizza, un po’ come il giapponese che va in vacanza, filma tutto e non vede nulla. Poi quando torna a casa e riversa in cassetta scopre quello che ha visto con il suo binocolo telematico” (F.e L. Masotto, Giochi con i fiocchi, lo sprint, Genova, 2005). Il succo di Nagano è tutto in questa frase: numeri, numeri e ancora numeri che arrivano in tempo reale su internet, senza sosta, dai campi di gara e dalle 72 prove che assegnano l’oro. Sono tre le novità nel programma. La prima è il curling, che rientra nelle vesti di sport ufficiale dopo un’assenza di 64 anni che durava da Chamonix 1924 (era stato dimostrativo a Lake Placid ’32, Calgary ’88 ed Albertville ’92). Quindi fanno la loro prima comparsa l’hockey su ghiaccio femminile e lo snowboard, al suo debutto assoluto nella kermesse a cinque cerchi.

 

La prima medaglia della nuova disciplina rappresenta anche il caso dei giochi. I protagonisti sono il canadese Ross Rebagliati e l’altoatesino Thomas Prugger, rispettivamente primo e secondo classificato nello snowboard maschile. Rebagliati, di nonno savonese e chiare origini italiane, viene pescato positivo al controllo antidoping al termine della gara. La sostanza in questione è la marijuana. Privato dell’oro, inizialmente assegnato a Prugger, si giustificherà dicendo di aver soltanto respirato passivamente la sostanza. Il medico della delegazione canadese supporterà la sua tesi affermando che il tipo di cannabis in questione è dodici volte più potente di quella europea e può perciò dare positività anche se solo inspirata. Il Cio restituirà la medaglia a Rebagliati tre giorni dopo, con la motivazione ufficiale che la “canna” non è tra le sostanze vietate dalla FIS (Federazione Internazionale dello Sci) perché non si assume col fine di doparsi. Il pastrocchio si conclude due mesi dopo, il 25 aprile, quando il Cio inserisce la marijuana nella lista delle sostanze dopanti con decisione non retroattiva, mandando letteralmente “in fumo” le ultime speranze di Prugger di riottenere l’oro. Una beffa doppia per il povero snowboarder azzurro, se si pensa che la decisione presa potrebbe in qualche modo aver vissuto nell’eco dalla torbida vicenda del laboratorio antidoping del Coni di Ferrara, esplosa un anno prima dopo le dichiarazione del dottor Faraggiana e che porterà alla luce un sistema capillare di emotrasfusioni illegali e dopaggio degli atleti tramite Epo, avallato e in alcuni casi coperto dal Coni stesso. Una bruttissima faccenda che getterà ombre su alcune imprese azzurre dei giochi precedenti.

 

Oltre al discusso Rebagliati, i campioni olimpici della tavola da neve sono lo svizzero Gian Simmen e la tedesca Nicola Thost nell’acrobatica disciplina dell’Half Pipe, e la francese Karine Ruby nel gigante femminile, una vera e propria leggenda dello snowboard, capace di collezionare, oltre all’oro olimpico di Nagano, sei titoli mondiali, diciannove coppe del mondo, di specialità e assolute, e ben 67 gare vinte in carriera. Nel curling commuove la storia di Sandra Schmirler, anch’essa una leggenda nella sua disciplina, che guida il Canada alla vittoria nel torneo femminile prima di perdere la vita, pochi mesi più tardi, a causa di un male incurabile alla giovane età di 36 anni. “Schmirler the Curler”, com’era affettuosamente chiamata dai suoi tifosi, resterà per sempre nei ricordi non soltanto degli appassionati di curling, ma anche di tutti gli sportivi canadesi, che le dedicheranno ogni trionfo dai giochi olimpici successivi. Negli altri due tornei a squadre all’esordio sono le potenze nordamericane a dominare, con il Canada maschile a bissare l’oro delle ragazze nel curling e con gli Stati Uniti a superare proprio il Canada nell’hockey femminile.

 

La grande novità nei tornei a squadre arriva però dall’hockey maschile, dove per la prima volta le porte sono aperte anche ai professionisti della NHL, la lega americana da cui provengono tutti i più forti giocatori del mondo. L’attesa è grande, almeno pari a quella che sarà poi la delusione dei due team superfavoriti: Canada e Stati Uniti. Il denominatore comune alla loro figuraccia olimpica ha lo sguardo ipnotico di Dominik Hasek, portiere mancino della Repubblica Ceca.. Hasek si rende protagonista di 38 incredibili parate su 39 tiri nei quarti di finale contro i “pro” degli Stati Uniti. Gli americani riescono a passare una sola volta contro le quattro con cui gli attaccanti cechi si fanno beffa della loro difesa. Il risultato è la fine del sogno olimpico e alcune camere d’albergo devastate dai viziati giocatori NHL. In semifinale con il Canada l’eroe è sempre Hasek, capace di parare tutti e cinque i rigori avversari, così come anche nella finalissima contro la Russia, durante la quale la porta che difende rimane immacolata. Finisce così che sul podio olimpico terminano le tre squadre, nell’ordine Repubblica Ceca, Russia e Finlandia (Canada battuto 3-2 per il terzo posto), con meno giocatori professionisti in campo.

 

Dalla più tradizionale delle discipline nordiche, lo sci di fondo, arriva anche la regina dei giochi, la russa Larissa Lazutina, che sulle sfaldate nevi di Kamishiro sale sul podio in tutte le gare, riportando tre ori (5 km, 10 km ad inseguimento e staffetta), un argento (15 km) ed un bronzo (30 km). Le gare che non riesce a vincere sono comunque terreno di caccia per le sue compagne di squadra: Olga Danilova, prima nella 15 km a passo alternato, e Yuliya Tchepalova, oro sotto nella 30 km sotto una fitta pioggia e di una manciata di secondi davanti a Stefania Belmondo, che nella “maratonina” si riscatta dopo la caduta a 800 metri dal traguardo della “15” che l’aveva estromessa dal podio. L’oro della staffetta 4x5 km stabilisce tra gli altri un particolare primato, in quanto le quattro componenti della Russia (Lazutina, Danilova, Nina Gavriluk ed Elena Vealbe) sono tutte da poco diventate mamma. Dietro di loro terminano le norvegesi e le italiane, guidate da una straripante Belmondo che nell’ultima frazione riesce a recuperare l’enormità di 50 secondi in soli 5 km alle ultime frazioniste di Svizzera, Germania e Repubblica Ceca, regalando l’oro a se ed alle proprie compagne (Karin Moroder, Gabriella Paruzzi e Manuela Di Centa).

 

Se la Lazutina è regina, il sovrano dei giochi scia sulle stesse piste e risponde al nome di Bjørn Daehlie. Il campione norvegese, alla sua terza olimpiade, conquista quattro medaglie (tre ori nella 10 km, 50 km e staffetta e un argento nella 15 km ad inseguimento, battuto allo sprint dal compagno di squadra Alsgaard) che sommate alle altre vinte nelle precedenti edizioni lo portano ad un totale di dodici. La tredicesima, simbolica, la ottiene come numero uno della sportività quando, al termine della vittoriosa 10 km, attende sulla linea del traguardo per oltre mezzora l’arrivo del novantaduesimo e ultimo concorrente in gara, il keniano Philip Boit, per abbracciarlo e congratularsi con lui. L’atleta di colore, il primo africano iscritto a una gara olimpica di fondo, era stato letteralmente catapultato nel circo bianco da uno noto sponsor in cerca di pubblicità, senza aver mai visto la neve in vita sua né calzato sci ai piedi fino a pochi mesi prima. All’Italia nella staffetta non riesce il bis. In una gara che sembrava ricalcare il copione di quella storica di Lillehammer, cambia soltantoo un fondamentale elemento: l’ultimo frazionista norvegese è Thomas Alsgaard e allo sprint, diversamente da Daehlie quattro anni prima, non si fa battere da Silvio Fauner. “Sissio”, vince l’argento insieme ai compagni Marco Albarello, Fulvio Valbusa e Fabio Maj, la sua seconda medaglia dopo il bronzo nella 30 km a tecnica libera, unica gara al maschile in cui i norvegesi devono accontentarsi del secondo posto dietro al finlandese Mika Myllylae che rifila un minuto e mezzo ad Erling Jevne e più di due a Fauner. La 50 km conclusiva, in cui Daehlie ha la meglio per soli otto secondi sullo svedese Niklas Jonsson, sarà anche l’ultima gara olimpica disputata dal fuoriclasse norvegese il quale, stremato dopo aver tagliato il traguardo, impiegherà svariati minuti per riprendersi dall’immane sforzo. Il “Nannestad express”, come veniva chiamato in patria, si ritirerà nel 2001 per le conseguenze di un infortunio occorsogli mentre si allenava sugli skiroll. Non riuscirà a disputare la sua quarta olimpiade ma verrà comunque considerato da molti come il miglior fondista della storia.

 

Sulle friabili nevi di Hakuba si disputano le prove di sci alpino. Alberto Tomba, alla quarta olimpiade, non riesce a lasciare il segno. Uscito malconcio da una caduta nel gigante, è diciassettesimo nella prima manche dello slalom. Salterà la seconda manche e diserterà la conferenza stampa, lasciando le sue dichiarazioni, e di conseguenza il suo ultimo atto olimpico da atleta, a una cassetta audio registrata. Prende il suo posto come protagonista assoluto dello sci alpino Hermann Maier, detto “Herminator”. L’ex muratore austriaco approda tardi allo sci ed è un colosso dalla potenza e robustezza impressionante. Durante la discesa libera vinta dal francese Jean Luc Cretier, è protagonista di un’uscita di pista tanto spettacolare quanto drammatica: Maier plana letteralmente per 70 metri atterrando violentemente sulla spalla sinistra e terminando il suo volo dopo aver sfondato tre file di barriere protettive. In men che non si dica, “Herminator” è in piedi a scrollarsi di dosso la neve e a pensare al superG di tre giorni dopo: vincerà a mani basse davanti ad un altro orso delle nevi come lo svizzero Didier Cuche, così come farà anche nello slalom gigante, lasciandosi alle spalle il connazionale Stephan Eberharter. L’Austria, sul podio in tutte le gare al maschile, vincerà anche la combinata con Mario Raiter, mentre a vincere lo slalom sarà il carneade norvegee Hans-Petter Buraas.

 

Non bastano alla tedesca Katja Seizinger due ori (discesa e combinata) e un bronzo (gigante) per essere considerata la sciatrice simbolo dei giochi. La prima pagina è meritatamente conquistata da Deborah Compagnoni, che diventa a Nagano la prima sciatrice donna a vincere tre ori in tre edizioni consecutive dei giochi. Debby trionfa nello slalom gigante, dominando in entrambe le manche e lasciando la più vicina delle avversarie, l’austriaca Alexandra Meissnitzer, a oltre un secondo e 80 centesimi: il distacco più grande mai registrato da Grenoble 1968, in pratica da un’altra era sciistica. La Compagnoni otterrà anche uno splendido e sfortunato argento nello slalom speciale, finendo per soli sei centesimi dietro alla tedesca Hilde Gerg, mentre non è iscritta alla gara che l’aveva vista esordire con l’oro sei anni prima, il superG, vinto per un solo centesimo dall’americana Picabo Street sull’austriaca Michaela Dorfmeister.

 

Nel pattinaggio su ghiaccio la copertina spetta a Tara Lipinski, americana di origine polacca che conquista l’oro nell’artistico all’età di 15 anni e 255 giorni, battendo il record della divina Sonja Henie. Un infortunio all’anca la costringerà, dopo molte operazioni, ad un prematuro ritiro che lascerà la scena a colei che a Nagano le arriva alle spalle: la sua connazionale Michelle Kwan. La prova femminile è l’unica non dominata dai russi, che piazzeranno Ilya Kulik sul gradino più alto della prova maschile, Oksana Grishuk-Evgeny Platov su quello delle coppie e Oksana Kazakova-Arthur Dmietriev nella danza, fatto insolito tra l’altro per una coppia, quest’ultima, capace di vincere anche un oro europeo e un bronzo mondiale, ma mai un titolo nazionale. Nello stesso impianto, il White Ring, dove volteggiano gli atleti dell’artistico, gareggiano anche i funamboli dello short track, disciplina che a Nagano vede trionfare tre volte i coreani (staffetta e 1000 metri femminile con protagonista Chun Lee-Kyung, e 1000 metri maschili con Kim Dong-Sung) due i canadesi (staffetta maschile e 500 metri femminili con Annie Perreault) e una i padroni di casa con Takafumi Nishitani nei 500 metri maschili.

 

Su pista lunga emerge il nome del leone Gianni Romme, olandese dal sapore italiano, chiamato così dal padre in onore del calciatore alessandrino Gianni Rivera, suo idolo più dei vari “Johan” (Cruijff o Neskeens), “Johnny” (Rep) o “Ruud” (Krol) degli “Arancioni” del calcio totale. Romme, sospinto nel sol levante dalla sua banda di ottoni della Klentje Pils, domina 5.000 e 10.000 metri con tempi sensibilmente inferiori al record del mondo, realizzati anche grazie ai nuovi pattini klap-skate che permettono di sollevare il tallone e di sprigionare maggior potenza in fase di spinta. Gli “orange” ben figurano anche nei 1.500, con due piazzamenti alle spalle del norvegese Adne Søndral, e nei 1.000, con l’oro di Ids Postma davanti al compagno Jan Bos, mentre scompaiono nei 500 metri, gara vinta dal nipponico Hiroyasu Shimizu davanti a ben quattro canadesi. E canadese è Catriona LeMay-Doan che consegue nei 500 femminili quello che i suoi connazionali non avevano ottenuto, ma si deve accontentare del bronzo sulla doppia distanza dove a vincere è ancora un’olandese, la Maria Aaltje Timmer, per tutti Marianne. La Timmer vince anche, con il record del mondo, la prova dei 1.500 metri battendo la tedesca Gunda Niemann, titolata pochi giorni prima nei 3.000 ed argento per soli 4 centesimi nei 5.000 dietro alla connazionale Claudia Pechstein.

 

L’oro che emoziona maggiormente i locali è però quello di Kazuyoshi Funaki, predestinato del salto da quando tre anni prima, a soli 19 anni, aveva debuttato in una gara di coppa per sostituire un compagno infortunato, vincendo al primo colpo e sbalordendo il mondo. Dal trampolino di Hakuba il giovane ventiduenne impressiona per la sensazione di leggerezza che riesce a mantenere dal momento dello stacco fino alla planata conclusiva: 132,50 metri accarezzando l’aria, un volo, il suo secondo salto nella prova del K120, che gli assegna il titolo olimpico, a distanza di ventisei anni dall’ultimo oro vinto da un connazionale a Sapporo ’72. Il titolo a squadre era già andato alla formazione nipponica nella prova d’esordio, mentre nel K90 Funaki aveva perso l’occasione di fare tripletta per un solo punto, beffato dal finlandese Jani Soininen, poi terminato nettamente alle sue spalle nel K120. Dallo stesso impianto di salto è il norvegese Bjarte-Engen Vik che si rende protagonista, gettando le basi per le vittorie olimpiche nelle gare individuali e a squadre di combinata nordica mentre nel “The Spiral” di Asakawa arriva il dominio tedesco nello slittino grazie ai fuoriclasse Georg Hackl (davanti all’italiano Armin Zoeggeler di mezzo secondo), Silke Kraushaar (prima per soli 4 milessimi sulla connazionale Barbara Niedernhuber) ed alla coppia Stefan Krausse/Jan Behrdent. Medaglie decisive che peseranno sul medagliere tedesco, il migliore di questa edizione con 12 ori totali e 29 medaglie, davanti ai 10 ori su 25 medaglie dei norvegesi, ed ai 9 su 18 dei russi.

 

Sulla pista di Asakawa si materializza anche il secondo e ultimo oro italiano di Nagano ‘98, quello di Gunther Huber e Antonio Tartaglia, che nel bob a due sfrecciano durante la prima delle quattro discese in programma, salvo vedersi poi recuperare discesa dopo discesa dai rivali, Pierre Lueders-David MacEachern, nelle altre tre. La gara si concluderà a sorpresa con un ex aequo al primo posto tra i due equipaggi che festeggeranno insieme l’alloro olimpico. Per l’abruzzese Tartaglia, che sotto la tuta si era fatto stampare una maglietta con la scritta profetica “Eugenio Monti”, è la prima affermazione in carriera, mentre per Huber è la seconda medaglia a cinque cerchi dopo il bronzo di Lillehammer in compagnia di Stefano Ticci, la quinta di famiglia se si sommano le tre conquistate nello slittino dai fratelli Wilfried e Norbert tra il 1992 ed il 1994. Nel bob a quattro è “Germania II” di Christoph Langen a conquistare il titolo, mentre alle sue spalle si registrano il ventunesimo posto della Giamaica, alla quarta partecipazione ancora guidata da Dudley Stokes, e l’ultimo posto del principe Alberto Grimaldi di Monaco, anch’esso al quarto gettone olimpico ma con risultati tutt’altro che lusinghieri.

 

I funamboli del freestyle, in scherno alle origini della loro disciplina ideata negli anni ‘60 dal norvegese Stein Eriksen che aveva messo a punto l’hot dog style, riuscendo a mescolare le sue abilità di sciatore e ginnasta, sono tutti extra-europei e rispondono al nome di Eric Bergoust, Jonny Moseley, Nikki Stone (statunitensi) e Tae Satoya (giapponesina che vince l’oro nella specialità gobbe). Nel biathlon si registra la prima affermazione olimpica del futuro dominatore della specialità, il norvegese Ole-Einar Bjørndalen, primo nella 10 km e secondo in staffetta dietro alla Germania, oltre all’argento dell’italiano Pieralberto Carrara che centra la prestazione della vita al tiro ma è di poco alle spalle del norvegese Halvard Hanevold nella prova sui 20 km. Nelle specialità femminili sono la russa Galina Koukleva, la bulgara Ekaterina Dafovska e ancora la Germania a vincere le medaglie più pregiate. Curiosa e dai contorni fiabeschi la storia che si cela dietro alla scelta del sito olimpico per le prove di biathlon. Nozawaonsen, a oltre 100 km di distanza da Nagano, viene preferito all’originale Kamishiro perché non si voleva disturbare un falco che aveva nidificato all’interno di un pino al poligono di tiro. La decisione si deve alla determinata azione degli ecologisti nipponici che sono riusciti ad ottenere lo spostamento delle gare. Costo dell’operazione? Una quisquilia: 10 milioni di dollari.



 

 

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