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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

la storia dei Giochi Olimpici Invernali
Parte XIX - salt lake city 2002

di Simone Valtieri

 

"L’importante è vincere, non partecipare”. È quello che devono aver pensato i membri dello SLOC, il comitato promotore per le olimpiadi Salt Lake City 2002, travisando l’antico motto dei giochi. Le sconfitte subite negli anni precedenti, nel 1972, nel 1976 e soprattutto l’ultima, nel 1998, dopo la quale avevano accusato di brogli la delegazione giapponese di Nagano, avevano indotto i promotori a intraprendere, oltre alla candidatura ufficiale, una seconda via.

 

In cambio di favori ai parenti più prossimi, i membri dello SLOC si assicuravano i voti di molti delegati olimpici, soprattutto di quelli provenienti dal sud del mondo. La vicenda emerse dopo l’inchiesta condotta dai giornalisti della KTVX, una televisione locale di Salt Lake City affiliata alla nazionale ABC, ed emersa nel novembre del 1998, che scoprirono il collegamento tra sei ragazzi, beneficiari di borse di studio elargite dallo SLOC, e alcuni membri del Cio: tutti erano figli di delegati. La vicenda verrà approfondita e farà saltare molte teste all’interno del Comitato Olimpico, minando alle fondamenta la sua credibilità.

 

L’inchiesta interna, che porterà a sei esclusioni e quattro dimissioni spontanee, tra cui quella della finlandese Pirjo Häggman, prima donna ad entrare nel Cio nel 1981, metterà in imbarazzo il presidente stesso, Juan Antonio Samaranch, in qualche modo implicato nella vicenda a causa di doni ricevuti e girati alla fondazione del museo olimpico, e si chiuderà frettolosamente senza indagare sulle precedenti assegnazioni sospette, da Atlanta ’96 a Nagano ’98 fino a Sydney 2000. Nonostante ciò la macchina dei giochi si era ormai messa in moto da troppo tempo e togliere i cinque cerchi a Salt Lake City avrebbe provocato al Cio più danni che benefici. Inoltre Tom Welch, l’allora presidente dello SLOC, tra i principali responsabili dello scandalo, era già stato costretto a dimettersi nel 1997 in seguito ad una condanna per violenza sessuale sulla moglie. Lo seguiranno Frank Joklin e Dave Johnson, rispettivamente suo sostituto come presidente e vice del progetto, per cui “Salt Lake City sia”, con conseguenze non solo nell’immediato, ma anche nel futuro, che porteranno ad una importante riorganizzazione interna del Comitato Olimpico Internazionale.

 

Nello Utah si presentano quasi 2400 atleti (più di un terzo donne) in rappresentanza di 77 Paesi. Alla cerimonia di apertura, con un colpo ad effetto, viene chiamato ad accendere il braciere olimpico Mike Eruzione, insieme ai suoi compagni di Miracle on ice, la squadra di hockey composta da studenti e dilettanti che emozionò e sorprese il mondo vincendo l’oro a Lake Placid 1980. Molte le novità: il bob femminile, lo skeleton (di nuovo nel programma dopo l’unica apparizione di St. Moritz ‘48), le staffette sprint dello sci di fondo, una prova in più di combinata nordica e l’inserimento di due gare ad inseguimento nel biathlon, introduzione questa molto gradita a colui che sarà proclamato re di Salt Lake City.

 

Stiamo parlando di Ole Einar Bjørndalen, talento cristallino dello “scia e spara”, che grazie alla prova in più centra col suo fucile un favoloso en plein, aggiudicandosi tutte e quattro le gare in programma, staffetta compresa. Alla fine dei giochi la sua sorprendente dichiarazione sarà: “Beh, però si poteva fare meglio”. Come? Se avesse vinto anche la 30 km a tecnica libera dello sci di fondo che fece come “allenamento”, arrivando quinto a 13 secondi e mezzo dal primo posto e a meno di due secondi dal podio. “Mi sono mancate le cartucce giuste”, dirà ancora sorridendo. Nella stessa disciplina tra le donne sarà un dominio tedesco con l’unica eccezione dell’inseguimento, dove la russa Olga Pyleva precederà di una manciata di secondi Kati Wilhelm, oro nella 7,5 km e in staffetta, complice anche una sessione di tiro disastrosa della tedesca, capace di arrivare a podio nonostante quattro errori al poligono. Nell’altra gara in programma, la 15 km, a trionfare sarà la sua connazionale Andrea Henkel, anch’essa al secondo oro dopo quello in staffetta.

 

Ritiratosi il leggendario Bjørn Daehlie, il fondo è in cerca di un erede e sembra averlo trovato in Johann “Juanito” Mühlegg, tedesco naturalizzato spagnolo che arriva primo nella nuovissima 20 km (10 km a tecnica libera + 10 km a classica), nella 30 km skating e nella 50 km classica. Ma è fumo negli occhi. La WADA, l’agenzia antidoping mondiale criticata dagli atleti per i suoi metodi invasivi e per i controlli a sorpresa, diventa protagonista delle gare olimpiche a Salt Lake City, smascherando dapprima Mühlegg, positivo alla darbopoietina, poi dimezzando la squadra russa femminile, pescando con valori di emoglobina anomali Larissa Lazutina (vincitrice della 30 km e argento sia nella 10 km che nella 15 km) e Olga Danilova (oro nel 5+5 km e seconda nella 10 km a tecnica classica). Non sarà tolta invece alcuna medaglia alla Russia nella staffetta 4x5 km, semplicemente perché alla formazione viene impedito di partecipare, in quanto la notizia dei valori anomali della Lazutina affiora proprio durante un controllo a sorpresa effettuato pochi minuti prima dell’inizio della prova. Altre fondiste fermate sono l’ucraina Valentina Shevchenko e l’altra russa Natalia Baranova, ma si ha la sensazione che tutti gli atleti pescati siano stati “i pochi” a pagare per “i molti”, visto anche un caso analogo scoppiato ai mondiali di Lahti l’anno prima che aveva visto sei fondisti finlandesi positivi al doping, e considerati i tanti valori di poco sotto il tetto massimo, emersi da altri controlli.

 

Accade così che le classifiche dello sci di fondo vengano completamente stravolte e, senza veri dominatori, molti atleti conseguono il risultato più prestigioso. Andrus Veerpalu è il primo estone a raggiungere un oro olimpico, Christian Hoffmann il primo austriaco, Frode Estil e Tore-Arne Hetland, nella nuovissima prova a sprint, gli ennesimi ori norvegesi. Il russo Mikhail Ivanov si aggiudica la maratona dei ghiacci (la 50 km), mentre per la terza edizione consecutiva la prova di staffetta termina con un finale serrato tra Norvegia e Italia. Vince ancora la formazione scandinava grazie a Thomas Alsgaard che, come con Fauner quattro anni prima, regola al fotofinish Christian Zorzi, il bronzo della prova a sprint.

 

Al femminile la staffetta italiana perde l’occasione della vita non sapendo approfittare dell’esclusione russa e terminando solo sesta, nonostante lo splendido ultimo segmento di gara di Stefania Belmondo, concluso col miglior tempo assoluto, ma vano dopo la caduta in prima frazione della giovanissima Marianna Longa e il conseguente distacco accumulato di oltre un minuto. Stefania resta comunque il volto più bello dello sci di fondo, sempre in prima linea contro “quelle che barano”, come ha sempre definito alcune avversarie, vince sulle nevi dello Utah ben tre medaglie, tra cui brilla l’oro nella 15 km a tecnica libera d’apertura, portando il suo totale olimpico a quota 10, come la leggenda sovietica Raissa Smetanina. Le altre medaglie che arrivano sono il bronzo nella 10 km a tecnica classica, dominata dalla norvegese Bente Martinsen, ottenuto dopo la squalifica della Danilova, e l’argento nella 30 km dietro alla sorprendente connazionale Gabriella Paruzzi. Storici gli altri due ori: Beckie Scott vince la 5+5 km, primo oro canadese, mentre la russa Julia Tchepalova conquista il primo titolo assoluto della sprint, la distanza più corta, dopo aver vinto quattro anni prima quello sui 30 km, la distanza più lunga.

 

Per chiudere con gli scandali che hanno contraddistinto la XIX edizione dei giochi olimpici non bisogna dimenticare il cosiddetto skategate, com’è stata chiamata l’intricata vicenda riguardo alla corruzione di un giudice nel pattinaggio artistico. Era stato predisposto un piano, scoperto casualmente durante un’inchiesta della polizia di Venezia su traffici di armi e droga, per far vincere i russi nel pattinaggio a coppie e i francesi nella danza. Tutto parte dall’intercettazione di un certo “Taivancik” (“piccolo taiwanese”), al secolo l’uzbeko Alimzhan Takhtakhunov, che era riuscito a ottenere un visto per la Francia grazie a “favori olimpici” fatti ad un pezzo grosso, il presidente della federghiaccio transalpina Didier Gailhaguet. Grazie alla complicità del giudice di gara Marie-Reine La Gougne, vengono falsati i risultati della prova a coppie del pattinaggio che termina per 5-4 a favore dei russi Elena Berezhnaya ed Anton Sikhaluridze sui canadesi Jamie Salé e David Pelletier. La truffa viene smascherata quasi immediatamente e la salomonica decisione del neopresidente del Cio, Jacques Rogge, è di attribuire un oro pari merito. Nulla si è fatto invece nei confronti della coppia francese Marina Anissina e Gwendal Peizerat, nonostante le intercettazioni che provassero il coinvolgimento della Anissina nell’affare. L’oro andrà alla Francia, in ogni caso la miglior coppia sul ghiaccio, con buona pace dei russi Irina Lobacheva ed Iliya Averbukh, argento, e della coppia italiana composta da Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio, bronzo, tradita da una caduta alla fine di una prova pressoché perfetta. Nelle individuali l’oro andrà sorprendentemente alla statunitense Sarah Hughes, in rimonta dopo il quarto posto del programma corto, ed al fuoriclasse russo Alexei Yagudin, capace di sconfiggere in uno scontro tra titani il suo erede e connazionale Evgeni Plushenko.

 

L’atleta donna vincitrice del maggior numero di medaglie è la sciatrice croata Janica Kostelic. Partecipa a quattro prove riuscendo ad imporsi in quasi tutte, non gareggiando soltanto nella discesa libera vinta dalla francese Carole Montillet, davanti all’azzurra Isolde Kostner, con l’emozionante dedica finale all’amica, compagna di nazionale e di stanza Regine Cavagnoud, scomparsa pochi mesi prima in un incidente in allenamento sulle nevi di Innsbruck. Combinata, gigante e slalom sono terreno di caccia della fortissima sciatrice dai Balcani, il superG le sfugge per soli 5 centesimi e a beffarla è un’insospettabile ragazza arrivata da Rocca Priora, vicino Roma. Il suo nome è Daniela Ceccarelli e prima di allora vantava un secondo posto in Coppa del Mondo e poco altro. La ragazza, che aveva imparato a sciare a Campo Catino, scende col numero “9” in maniera impeccabile e registra un tempo che le consente di piazzarsi davanti alla compagna di squadra Karen Putzer, poi terza, e di resistere agli attacchi di tutte le avversarie. In campo maschile è l’inossidabile Kjetil-André Aamodt a vincere più gare di tutti: due, grazie al prevedibile oro nella combinata ed a quello meno scontato nel superG, cui aggiunge anche l’amaro quarto posto nella discesa vinta dall’austriaco Fritz Strobl. Gare tecniche che vanno all’altro austriaco Stephan Eberharter, oro nel gigante dopo i podi in discesa (bronzo) e superG (argento), e al non pronosticabile francese Jean-Pierre Vidal, primo nello slalom davanti al connazionale Sebastien Amiez.

 

Come e forse ancor più sensazione di Daniela Ceccarelli, desta l’impresa di uno sconosciuto ragazzino svizzero che con gli sci ai piedi riesce a saltare più lontano di tutti quanti. Simon Amman, detto Harry Potter per la somiglianza con il maghetto della saga letteraria, tira fuori dal cilindro due salti lunghissimi, neanche fosse in sella ad una Nimbus 2000 (n.d.r. la celebre scopa volante di Harry Potter) e plana sul gradino più alto del podio sia nella gara dal trampolino K90 che in quella dal K120. La spettacolare prova a squadre finisce con il distacco più risicato di sempre: 974,1 a 974. Un decimo di punto è ciò che separa il paradiso, raggiunto dai funamboli tedeschi Hannawald, Hocke, Uhrmann e Schmitt, dalla terra, su cui restano con l’argento i saltatori finlandesi Hautamäki, Lindström, Jussilainen e Ahonen.

 

Un altro en-plein, dopo quello di Bjørndalen nel biathlon, arriva dal finlandese Samppa Lajunen, capace di trionfare nelle due prove individuali e in quella a squadre della combinata nordica, mentre al contrario, nello snowboard e nel freestyle, date le peculiarità tecniche necessarie e le diverse caratteristiche delle singole discipline dei due sport, ogni gara ha un suo vincitore. Nel freestyle gobbe primi sono l’avvenente norvegese Kari Traa, alla ribalta delle cronache anche per un servizio “hot” pubblicato su una nota rivista scandinava, e il finlandese Janne Lahtlea, che migliora di un gradino rispetto all’argento di Nagano.  Nell’acrobatico aerials hanno la meglio il ceco Ales Valenta, che approfitta di uno svarione del campione olimpico in carica Bergoust, e l’australiana Alisa Camplin, che non diventa, per soli due giorni, il primo oro australiano alle olimpiadi invernali. Lo snowboard registra nel gigante la caduta (in tutti i sensi, vista la scivolata in finale) della regina Karine Ruby, argento dietro alla connazionale Isabelle Blanc e davanti all’italiana Lidia Trettel, e l’affermazione dello svizzero Philipp Schoch. Nello spettacolare Half Pipe, sono due americani a compiere le acrobazie più complicate: Kelly Clark e Ross Powers.

 

Sul budello ghiacciato dello Utah Olympic Park si assiste al passaggio di testimone tra il vecchio leone dello slittino Georg Hackl, dal poco lusinghiero soprannome di “salsiccia volante” ed alla quinta medaglia olimpica consecutiva (argento-oro-oro-oro-argento), e il “giovane” italiano, nonostante sia già alla terza olimpiade, Armin Zoeggeler. L’altoatesino, dopo il bronzo di Lillehammer e l’argento di Nagano, tra i ghiacci dello Utah riesce finalmente a salire sul gradino più alto del podio, rovinando la festa alla Germania che si deve accontentare di vincere due gare su tre, con l’oro nel doppio della coppia Leitner-Resch e con il podio tutto tedesco, guidato da Sylke Otto, nel singolo femminile. La stessa pista regala altre soddisfazioni alla compagine teutonica, che piazza davanti a tutti i suoi due bob al maschile, guidati dai quasi omonimi Christoph Langen ed André Lange, ma che si vede anche qui negare il tris d’ori, stavolta dall’equipaggio femminile di “Stati Uniti II” che vince l’oro nella neonata specialità con Jill Bakken e Vonetta Flowers, prima nera a salire nell’olimpo.

 

Nell’hockey su ghiaccio, dopo la sorpresa ceca di Nagano, i “pro” di Canada e Stati Uniti si riprendono il palcoscenico sottratto loro dalle squadre europee quattro anni prima. Le formazioni nordamericane dominano entrambi i tornei che si concludono con la stessa finale e con lo stesso copione: Canada batte Stati Uniti nella gara per l’oro sia tra gli uomini che tra le donne. Nel curling, invece, nonostante i favori del pronostico, il Canada non va oltre l’argento tra i maschi (oro alla Norvegia), e il bronzo tra le donne (titolo alla Gran Bretagna).

Nel pattinaggio di velocità, la pista lunga dello Utah Olympic Oval non trova un solo padrone, perlomeno nelle distanze più brevi, dove a vincere sono atleti sempre diversi, ma sentenzia una supremazia dei Paesi Bassi al maschile e della Germania al femminile, contrastata in modo trasversale dai padroni di casa americani. I campioni dei fulminei 500 metri, le uniche gare che si chiudono senza record del mondo, sono lo statunitense Casey-Fitz Randolph e la canadese Catriona LeMay-Doan, al secondo titolo consecutivo sulla distanza, dopo aver dominato il quadriennio precedente con ben cinque ori mondiali nel carniere. Nei 1.000 emergono l’olandese Gerard van Velde e l’americana Christine Witty, nei 1.500 Derek Parra, anch’esso americano, e la tedesca Annie Friesinger, tutti con il nuovo primato mondiale delle distanze. Le gare lunghe (5.000 e 10.000 per i maschi e 3.000 e 5.000 per le femmine) sono vinte dall’olandese Jochem Uytdehaage, in stato di grazia, e dalla fuoriclasse Claudia Pechstein, al terzo e quarto oro dopo Lillehammer e Nagano.

 

In calce al racconto dei giochi più corrotti del secolo, vengono però scritte a Salt Lake City due storie che riflettono totalmente quelli che sono i valori e lo spirito delle olimpiadi. Dallo skeleton, nella cui gara femminile trionfa l’americana Trista Gale, arriva la bella favola di Jim Shea, terzo di una dinastia di atleti olimpionici cominciata con nonno Jack, oro a Lake Placid 1932 nel pattinaggio di velocità, e continuata con il padre Jim Shea Sr. che partecipa alle prove di combinata nordica ad Innsbruck 1964. Lui, Jim Shea Jr. dal Connecticut, non voleva essere da meno. Dopo aver provato l’hockey e il lacrosse, scopre che la vecchia disciplina dei “matti a testa in giù” sarebbe rientrata nel programma olimpico e decide che quello può essere il suo sport. Lascia il lavoro da cameriere, vende la Jeep e prova a cimentarsi sul groviglio di ghiaccio. Può partecipare alle prime gare grazie a una slitta regalatagli da un’atleta inglese. Discesa dopo discesa riesce ad affinare la sua tecnica, migliorando a vista d’occhio. “Devi solo stare immobile e vincere la paura” gli avevano detto. Il giovane Jim segue il consiglio diventando miglior debuttante dell’anno nel 1995 e vincendo la sua prima gara di coppa nel 1998. Così il 20 febbraio 2002, prima di partire per la sua discesa più importante, Jim Shea Jr. si sistema nel casco una foto sbiadita del nonno e la cartolina che annunciava la sua morte, avvenuta tragicamente a pochi giorni dall’inizio dei giochi, quando a 91 anni venne investito da un automobilista ubriaco. Al termine delle due discese “Shea III” si toglie la foto dal casco e la sventola al cielo: è primo. Oro come il suo avo settant’anni prima. “Mi ha spinto lo spirito di nonno Jack. Sono uno Shea, sono un olimpionico”. Dirà tra le lacrime e con la medaglia in mano.

 

Nelle prove femminili di short track dominano le asiatiche con Yang Yang A (la A sta per august, agosto, per distinguerla dalla sua compagna di squadra, omonima e non imparentata, Yang Yang S nata a settembre) oro nei 500 e nei 1.000, con Ko Gi-Hyun (1.500) e con la staffetta coreana. Nel maschile dominano invece i nordamericani con il canadese Marc Gagnon primo nei 500 e con la staffetta, sul gradino più alto del podio davanti all’Italia, e con l’americano, idolo del pubblico e attesissimo protagonista, Apolo Anton Ohno, che eredita i suoi occhi a mandorla dal padre, un barbiere giapponese emigrato a Washington, e che riesce a conquistare il titolo dei 1.500. Ma è dai 1.000 metri che arriva la storia più incredibile mai raccontata ad un’olimpiade.

 

L’olimpiade dà valore all’inatteso. Come non accade in altre competizioni, mantiene il fatto di essere aperta a tutti i risultati” dice l’esperto telecronista Sandro Fioravanti in un documentario sulla storia dei giochi olimpici. Ceccarelli e Ammann sono eloquenti esempi, ma quello che riguarda Steven Bradbury, australiano di Camden, somiglia più ad un miracolo. Il ragazzo che viene dal caldo del Nuovo Galles del Sud, si diletta nello short track da ormai diverse stagioni. Alle spalle si lascia un passato da discreto agonista fino al 1994 e due gravissimi infortuni con conseguenti, interminabili riabilitazioni: nel primo, rischia di morire dissanguato quando la lama di un pattino gli recide l’arteria femorale, facendogli perdere quattro litri di sangue; nel secondo va vicino alla paralisi dopo una caduta in allenamento, due anni prima dei giochi americani. Già il solo fatto di essere a Salt Lake City rappresenta per lui un punto di arrivo. E non è una frase fatta, visto che i pronostici non gli danno alcuna possibilità neanche di passare il primo turno di gara. Invece... invece la fortuna si ricorda di lui. La dea bendata decide per una volta di togliersi la fascia dagli occhi e di vederci. Una serie incredibile di cadute e squalifiche nei primi turni di gara avanzano il pattinatore australiano fino all’ultima prova. Al via della finale Bradbury, diventato ormai per tutti un portafortuna vista la buona sorte sin qui mostrata, perde subito una decina di metri da Ohno, Soo, Turcotte e Li, tutti nettamente più forti di lui. A mezzo giro dalla fine accade l’incredibile: un’azione avventata fa scivolare il coreano Soo sulle barriere. Dieci metri più avanti il cinese Li e l’americano Ohno, sgomitando un po’ troppo, provocano una comica carambola cui si aggiunge il canadese Turcotte. Giro giro tondo… tutti giù per terra! E l’incredulo Bradbury si ritrova tra le mani l’oro più incredibile della storia ultracentenaria dei giochi. E forse, ripercorrendo la sua vicenda piena di gravi incidenti, mai colpo di fortuna fu più meritato.



 

 

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