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N. 84 - Dicembre 2014 (CXV)

“FA DUNQUE MODO DI VEDERLA NUDA”
IL RACCONTO DEL METODO: GIGE E CANDAULE

di Riccardo Poli

 

Il racconto di Gige e Candaule presente nel I libro delle Storie di Erodoto, visto da molti come uno dei tanti racconti, a prima vista fini a se stessi, inseriti dallo storico di Alicarnasso per rendere più leggera la lettura della lunga opera, è in realtà il manifesto programmatico dell’intera concezione erodotea sul reperimento delle fonti e sul metodo di indagine utilizzato dallo steso Erodoto per la stesura dell’opera.

 

A lungo si è dibattuto sul perché Erodoto abbia deciso di inserire nelle sue pagine racconti fantastici, favole o tradizioni locali; e la risposta più accreditata è perché esse venivano esposte in un primo momento oralmente, per cui dovevano conciliarsi con le differenti esigenze del pubblico che di volta in volta ascoltava.

 

E il modo migliore per farlo era ricorrere ad aneddoti pertinenti la storia dell’uditorio chiamato ad ascoltare. Ne è un esempio pratico proprio la storia di Gige e Candaule, che si inserisce subito dopo l’inizio del cosiddetto logos (ovvero unità narrativa) lidio.

 

Abbiamo detto però che essa è un manifesto programmatico, per cui vediamo in che modo Erodoto concepisce il metodo di reperimento delle fonti adatte per stendere le sue Storie. Egli parte dalla cosiddetta autopsia, l’osservazione, la visione diretta dei fatti. E in ciò è certamente aiutato dal fatto di aver compiuto, nel corso della sua vita, svariati viaggi che lo portarono dall’Egitto ad Atene e da Atene alla Magna Grecia (muore infatti probabilmente a Turi, colonia panellenica che lui stesso aveva contribuito a fondare intorno al 444 a.C.).

 

Seguono la vista la cosiddetta gnome, o ragionamento, e l’historia vera e propria, o indagine. Tale successione di metodologie la afferma direttamente Erodoto al capitolo 99 del II libro, riservato al logos egizio, ove dice: “Fino a questo punto ciò che ho detto deriva dalla mia personale osservazione, dal mio ragionamento e dalle mie ricerche”.

 

Merita un chiarimento il termine historia, indagine. Si deve tenere presente che l’opera erodotea è giunta a noi priva di titolo, il quale oggi è indicato col termine “Storie” proprio perché Erodoto stesso fa desumere, nel suo proemio, che il tema dei suoi scritti saranno delle storie proprio nel senso di historie, ovvero di indagini, di ricerche: “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso”.

 

In secondo luogo bisogna prestare particolare attenzione al termine historie nella sua forma greca: la radice della parola è id-, che deriva a sua volta dal verbo greco orao, “vedere”. Per cui le ricerche che Erodoto compie sono fatte con la vista, con gli occhi; e ciò a conferma di quale deve essere il primo passo fatto dallo storico per ottenere le sue informazioni, ovvero l’osservazione, la visione diretta dei fatti.

 

Il metodo di indagine erodoteo è completato pure dalla akoe, dalla “audizione”, ovvero da ciò che ha sentito dire nel corso dei suoi innumerevoli viaggi. In proposito diamo voce al testo, con la prosecuzione delle parole di Erodoto ancora al capitolo 99 del II libro (logos egizio): “da questo punto invece vengo a riferire i racconti degli Egiziani secondo come li udii”.

 

Erodoto continua affermando che: “si aggiungerà ad essi anche qualcosa che io stesso ho veduto”. E con questa frase conferma l’importanza primaria delle notizie conosciute per visione diretta su quelle ottenute per testimonianza orale.

 

Conclude così l’esposizione del proprio metodo, facendo intendere che, se le testimonianze raccolte sono tra loro in contrapposizione, la scelta ricadrà, in maniera quindi del tutto soggettiva, su quella che pare più attendibile (come si evince dal libro II, capitolo 120: “a voler dichiarare la mia opinione…” e “Questo è il mio parere”).

 

Arriviamo finalmente alla nostra vicenda. In che senso essa rappresenta il racconto del metodo erodoteo? Non c’è modo migliore di rispondere dando voce al testo (capitolo 8):

 “Orbene, questo Candaule era innamorato della sua sposa e, innamorato com’era, riteneva di possedere la donna di molto più bella di tutte. Poiché aveva questa opinione e fra le guardie del corpo Gige figlio di Daskylos era a lui particolarmente caro, Candaule gli confidava anche i più importanti dei suoi affari, e gli parlò perfino della bellezza della moglie, lodandola oltre misura.

 

Trascorso non molto tempo, poiché era destino che a Candaule capitasse qualche sciagura, fece a Gige questo discorso: “Gige, io penso che tu non mi presti fede quando ti parlo delle bellezze della mia sposa, chè per gli uomini è più facile credere agli occhi che agli orecchi. Fa dunque in modo di vederla nuda”.

 

Gige, da buon amico e servitore, è stupito dalla richiesta avanzatagli da Candaule a tal punto da considerarlo quasi un pazzo (“qual mai insano discorso tu fai?”); eppure alla fine si convince ad esaudire il capriccio del padrone, che lo rassicura dicendogli: “non temere né di me […] né di mia moglie, che tu riceva da lei qualche danno, perché farò in modo che essa non sappia neppure di essere vista da te”.

 

Il gioco vale la candela, deve aver pensato Gige, che ubbidisce quindi a Candaule. Peccato che, al momento di uscire dalla camera del padrone dopo aver assistito alla svestizione della regina, Gige venga visto di nascosto dalla donna stessa, la quale però “fece finta di non essersi accorta di nulla, avendo in mente di vendicarsi di Candaule”.

 

La vendetta per il disonore subìto è agghiacciante: “o, ucciso Candaule, ti prendi me e il regno di Lidia o conviene che subito tu stesso muoia, affinchè per l’avvenire tu non abbia a vedere […] ciò che non devi vedere”, dice la donna rivolgendosi a Gige. Messo di fronte a tale amletico dubbio, il fedele servitore decide di vivere, prendendosi la moglie e il regno del vecchio padrone (ucciso beffardamente proprio nella stessa camera che è stata teatro della “spiata”, e mentre egli stesso dormiva, ovvero mentre non poteva vedere ciò che stava accadendo).

 

Ciò che si nota in maniera evidente dal breve racconto è quale straordinaria importanza assuma la vista nel modo di lavorare, e di raccontare, di Erodoto.

 

Emblematica in tal senso è la frase: “per gli uomini è più facile credere agli occhi che agli orecchi”, nella quale è racchiuso in maniera evidente il pensiero di Erodoto stesso, nonostante ciò venga messo in bocca a Candaule e non direttamente espresso dallo stesso storico di Alicarnasso (come in realtà ha fatto esplicitamente nel proemio, e come rifarà al già citato capitolo 99 del II libro).

 

Ecco dunque l’opsis, la vista, come tema centrale dell’intero apparato conoscitivo erodoteo.

 

La sua importanza, tanto come rigore metodologico quanto come strumento conoscitivo, è sottolineata, indirettamente e nascostamente, anche da un’altra frase del racconto, questa volta della moglie di Candaule: “o conviene che subito tu stesso muoia, affinchè per l’avvenire tu non abbia a vedere […] ciò che non devi vedere”; l’aforisma chiarisce come l’importante è vedere solo ciò che si può, ovvero solo ciò importa, solo ciò che è utile al proprio fine; il quale è, per Erodoto, una narrazione il più verosimile - nel senso di attendibile - possibile alla realtà dei fatti.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

A. Izzo D’Accini – D. Fausti, Erodoto. Storie, I, Milano 2011.



 

 

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