N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
Giacomo Paleologo
L'uomo che volle farsi "ponte"
di Lawrence M.F. Sudbury
Tra
le
numerose
figure
di
teologi
"eretici"
del
periodo
riformistico
e
controriformistico,
una
spicca
particolarmente,
pur
nell'oblio
che
caratterizza
tutta
la
schiera
di
liberi
pensatori
che
si
opposero
alle
varie
"linee
ufficiali",
per
indipendenza
di
pensiero
e
per
capacità
sincretica:
si
tratta
di
Giacomo
Paleologo,
un
uomo
di
cui
ben
pochi
anche
tra
gli
storici
professionisti
ricordano
l'esistenza,
ma
che
seppe
tentare,
in
nome
della
tolleranza,
di
essere
ponte
ideologico
e
teologico
tra
est
e
ovest
in
un
periodo
in
cui
una
tale
funzione
appariva
addirittura
impensabile.
Nato
intorno
al
1520
come
Giacomo
da
Chio
nell'isola
egea
davanti
alla
costa
di
Smirne
che
gli
fornì
il
patronimico,
egli
era,
come
non
infrequente
in
quelle
zone,
di
padre
greco
e di
madre
italiana:
Chio
era,
infatti,
dal
1347,
sotto
il
dominio
formale
della
Repubblica
di
Genova,
anche
se,
dall'inizio
del
XVI
secolo,
il
controllo
effettivo
era
nelle
mani
della
famiglia
Giustiniani.
Probabilmente
di
origine
economicamente
altolocata,
il
giovane
strinse
fin
da
bambino
amicizia
con
uno
dei
rampolli
della
famiglia
governante,
Vincenzo
Giustiniani
(più
tardi
Superiore
Generale
dell'Ordine
Domenicano)
e,
quando
questi
mostrò
i
segni
di
una
precoce
vocazione,
lo
seguì
nel
noviziato
dell'Ordine
Domenicano.
Ciò
permise
al
ragazzo
italo-greco
nato
in
un
remoto
angolo
di
una
Repubblica
già
in
fase
calante
di
formarsi
in
alcune
delle
scuole
più
prestigiose
d'Italia,
quelle
domenicane
di
Genova
e
Ferrara,
e,
più
tardi,
presso
l'Università
di
Bologna.
Fu
in
questo
periodo
italiano
che
egli
adottò
il
nome
con
cui
divenne
celebre,
quel
Jacobus
Palaeologus
che
stava,
nelle
sue
intenzioni,
ad
indicare
una
sua
parentela
con
l'ex
famiglia
imperiale
di
Bisanzio
dei
Paleologo,
parentela
che
ribadì
ripetutamente
nel
corso
della
sua
vita
ma
che
non
può
essere,
dalle
fonti
in
nostro
possesso,
in
nessun
modo
confermata.
Nel
1554,
Giacomo,
terminati
gli
studi,
tornò
nel
natio
oriente
per
prendere
residenza
nel
convento
domenicano
di
San
Pietro
in
Pera,
nel
quartiere
cristiano
di
Istanbul.
E'
qui
che,
con
ogni
probabilità,
cominciò
a
sviluppare
una
adesione
che
si
dimostrò
permanente
agli
insegnamenti
anti-trinitari
di
Michele
Serveto
e
non
ebbe
paura
di
comporre
e
pubblicare,
l'anno
seguente,
una
difesa
delle
dottrine
servetiane
contro
le
denunce
di
Calvino
che
avevano
portato
il
pioniere
antitrinitario
ad
essere
condannato
a
morte
a
Ginevra
nel
1553.
Naturalmente
una
tale
visione
lo
mise
in
aperta
contrapposizione
con
i
suoi
superiori,
che
lo
espulsero
dall'Ordine
alcuni
mesi
dopo.
Così,
nel
1556,
Paleologo,
tornato
a
casa
a
Chio,
assunse
un
ruolo
attivo
nel
sostegno
ai
commissari
genovesi
secolari
e
agli
agenti
del
Sacro
Romano
Imperatore
che
si
contrapponevano
all'autorità
del
vescovo
dell'isola,
cosa
che,
ben
presto,
lo
portò
ad
essere
denunciato
al
Sant'Uffizio,
ad
essere
arrestato
e,
nel
1557,
ad
essere
"estradato"
a
Genova.
La
sua
permanenza
nelle
carceri
genovesi,
però,
durò
solo
pochi
mesi:
all'inizio
del
1558,
infatti,
riuscì,
probabilmente
con
la
complicità
o
almeno
il
beneplacito
dell'oligarchia
nobiliare,
a
fuggire
alla
volta
di
Istanbul,
per
essere,
però,
catturato
nuovamente
a
Ragusa
(l'attuale
Dubrovnik)
due
mesi
dopo
e
portato
al
carcere
dell'Inquisizione
romana,
dove
venne
posto
sotto
indagine
personale
del
Grande
Inquisitore,
Michele
Ghislieri
(poi
papa
Pio
V).
Per
il
resto
della
sua
vita,
Paleologo,
dopo
questa
esperienza,
mantenne
una
opposizione
ferocemente
contraria
all'Inquisizione
e
una
inimicizia
particolare
nei
confronti
del
Ghislieri.
In
ogni
caso,
anche
questa
detenzione
non
risultò
particolarmente
lunga:
nel
1559,
quando
la
folla
romana
prese
d'assalto
le
prigioni
dell'Inquisizione,
Paleologo
fu
liberato
con
la
forza
e le
prove
contro
di
lui
andarono
in
fiamme
(cosa
che,
comunque,
non
impedì
al
Tribunale
dell'Inquisizione
di
condannarlo
a
morte
in
contumacia
nel
1561
e di
bruciarlo
"in
effigie"
qualche
giorno
dopo).
L'"eretico"
inizialmente
fuggì
in
Francia,
dove,
nel
1562,
presentò
ricorso
presso
il
legato
pontificio
Ippolito
d'Este,
nella
speranza,
rimasta
tale,
di
avere
la
sentenza
dell'Inquisizione
rovesciata,
poi,
rendendosi
conto
che
le
sue
denunce
virulente
contro
il
Calvinismo
lo
avevano
reso
sgradito
e
pericoloso
per
i
Protestanti
riformati,
nel
1562
offrì
i
suoi
servigi
ad
Andreas
Dudith,
allora
vescovo
di
Knin
e
rappresentante
imperiale
al
Concilio
di
Trento.
Accolto
dal
vescovo
come
consulente
nonostante
le
pendenze
penali,
Paleologo
consigliò
Dudith
nella
stesura
della
presentazione
al
Consiglio
degli
argomenti
imperiali
a
favore
dell'Utraquismo
(cioè
del
permesso
per
la
distribuzione
sia
del
pane
che
del
vino
ai
laici
alla
Santa
Comunione)
e
in
cambio
Dudith
tentò
convincere
il
Consiglio
Ecumenico
a
cassare
la
condanna
per
eresia,
cosa
che,
per
altro,
suscitò
numerose
perturbazioni
nei
lavori
del
Consiglio
stesso.
Fatto
sta
che,
alla
fine
nel
1563,
a
Paleologo
venne
concesso
asilo
imperiale
a
Praga
e,
quando
il
nuovo
imperatore
Massimiliano
II
salì
al
trono
nel
1564,
egli
ottenne
un
notevole
avanzamento
economico-sociale
per
aver
supportato
la
elezione
del
candidato
imperiale
vincente.
Seguendo
l'esempio
del
suo
mecenate
Andreas
Dudith,
Paleologo
rinunciò,
a
questo
punto,
definitivamente
alla
sua
professione
religiosa,
contrasse
un
matrimonio
vantaggioso
con
la
figlia
di
un
leader
riformatore
di
Praga,
e,
nel
1569,
venne
proposto
dall'imperatore
come
Arcivescovo
Utraquista
di
Praga.
Tuttavia,
il
suo
nemico
giurato
Ghislieri
era
ora
Papa
e
fece
in
modo,
con
continui
veti
e
accuse,
che
Paleologo
fosse,
nel
1571,
esiliato
lontano
dai
domini
imperiali,
in
Polonia,
dove
si
riunì
a
Cracovia
con
Andreas
Dudith,
che
ora
fungeva
da
rappresentante
imperiale
per
il
Regno
di
Polonia.
Naturalmente
quello
dell'esilio
non
fu
un
bel
momento
per
Giacomo
ma
ebbe
il
vantaggio
di
permettergli,
finalmente,
di
esprimere
pienamente
il
proprio
punto
di
vista
anti-trinitario.
La
sua
libertà
di
pensiero,
però,
lo
pose
ben
presto
in
aperto
contrasto
con
la
Ecclesia
Minor
sociniana
e,
in
particolare,
con
Gregorius
Paulus,
riguardo
ad
alcuni
elementi
teologici
(che
vedremo)e
all'adeguatezza
del
servizio
militare
per
un
cristiano.
Essendosi
fatto
grandi
nemici
nella
cattolica
Roma,
nella
calvinista
Ginevra
e
nella
sociniana
Cracovia,
Paleologo,
nel
1573,
cercò
una
sistemazione
più
consona
al
suo
pensiero
decidendo
di
trasferirsi
nella
Transilvania
unitariana
retta
dal
principe
Giovanni
Sigismondo,
il
solo
monarca
anti-trinitario
della
storia
europea:
qui
la
massima
autorità
religiosa
era
il
vescovo
unitariano
Ferenc
David,
con
cui
era
in
corrispondenza
dal
1570
e
l'ex
domenicano
riteneva
di
poter
trovare
un
terreno
ideale
per
la
proclamazione
del
proprio
credo.
Così,
dopo
un
lungo
viaggio
a
Istanbul
e
Chio,
intrapreso
soprattutto
per
impressionare
l'imperatore
Massimiliano
con
le
sue
capacità
diplomatiche
e
con
l'ampiezza
dei
suoi
contatti
in
oriente,
Paleologo
divenne
rettore
del
collegio
unitariano
di
Kolosvar
(la
moderna
Cluj)
e il
leader
teologico
della
corrente
unitariana
"non
adorante",
cioè
di
quel
ceppo
del
Protestantesimo
radicale
che
negava
la
validità
di
pregare
l'uomo-Gesù.
Ben
presto,
però,
in
seguito
alla
morte
di
Giovanni
Sigismondo
nel
1571,
Paleologo
si
trovò
invischiato
nella
difficile
situazione
creatasi
con
la
successione
al
principato
transilvano:
egli
aveva
sostenuto
il
candidato
pro-imperiale
(e
anti-trinitario)
Gaspar
Bekes
contro
il
rivale
cattolico
Stefano
Bathory
e
quando,
dopo
due
rivolte
fallite,
Bekes,
nel
1575,
dovette
ammettere
la
propria
sconfitta,
il
teologo
italo-greco
dovette
fuggire
di
nuovo,
inizialmente
tornando
a
Cracovia,
dove
sostenne
le
pretese
di
Massimiliano
al
trono
polacco,
per
poi
stabilirsi
in
Moravia.
Nel
frattempo
Ferenc
David
aveva
continuato
a
praticare
e
predicare
il
non
adorantismo,
attirandosi
una
accusa
di
innovazione
religiosa
e,
conseguentemente,
la
deposizione
da
capo
della
Chiesa
Unitariana
transilvana
e
l'arresto
che
lo
condusse
alla
morte
in
carcere
nel
1579.
Paleologo
scrisse
un
certo
numero
di
opere
polemiche
a
sostegno
del
vescovo
imprigionato
e
contro
Fausto
Sozzini,
che
accusava
di
essersi
unito
agli
accusatori
di
David:
il
risultato
fu,
per
lui,
il
tagliarsi
alle
spalle
tutti
i
ponti
con
la
Chiesa
Unitariana
ufficiale.
Quando
Massimiliano
II
morì,
nel
1576,
Paloeologo
si
trovò
ancora
più
isolato:
il
nuovo
imperatore
Rodolfo
II
era
molto
meno
in
sintonia
con
lui
e si
convinse
che
quell'uomo
così
vicino
alla
Sublime
Porta
fosse
una
spia
turca
e,
forse,
anche
polacca.
Conseguenza
dei
sospetti
imperiali
fu
che
Paleologo
venne
arrestato
dal
Vescovo
di
Olomouc
nel
dicembre
del
1581
e,
sebbene
le
accuse
di
spionaggio
non
potessero
essere
in
alcun
modo
provate,
con
la
scusa
di
un
ampio
corpus
di
scritti
eretici
trovati
nella
sua
abitazione,
fu
consegnato
all'Inquisizione
che
riuscì
a
farlo
estradare
a
Roma
nel
maggio
1582.
Il
19
febbraio
1583,
Giacomo
Paleologo
fu
portato
davanti
al
rogo,
ma,
poco
prima
di
salirvi,
abiurò
alla
vista
di
alcuni
Marrani
portoghesi
bruciati
vivi
ed
ebbe
il
permesso
di
ritornare
nella
sua
cella.
Il
Collegio
Cardinalizio
era,
comunque,
a
favore
della
sua
morte,
ma
papa
Gregorio
XIII
insistette
sul
fatto
che
se
l'"eretico"
avesse
cooperato
denunciando
gli
errori
delle
sue
pubblicazioni
antitrinitarie
avrebbe
potuto
essere
più
utile
da
vivo:
l'ex
domenicano,
però,
si
rifiutò
di
collaborare
con
il
piano
di
Gregorio
e,
conseguentemente,
per
ordine
della
Curia,
fu
decapitato
il
23
marzo
1585.
Fin
qui,
dalla
semplice
esposizione
delle
vicende
della
vita
del
Paleologo,
si
potrebbe
trarre
l'idea
di
una
"normale"
figura
di
"avventuriero
della
teologia",
per
alcuni
versi
piuttosto
comune
nel
periodo
in
esame:
è un
dato
di
fatto
che
una
grande
varietà
di
gruppi
radicali
erano
emersi
dalla
Riforma
del
secolo
XVI,
essendo
in
gran
parte
caratterizzati,
come
lui,
da
alcuni
elementi
comuni
quali
il
rifiuto
dell'autorità
clericale
e
dei
sacramenti
come
strumenti
essenziali
della
Grazia
di
Dio
e la
negazione
delle
formulazioni
ortodosse
della
Trinità:
questi
gruppi
erano
comunemente
respinti
dai
loro
avversari
e
considerati
come
"Anabattisti"
(anche
se
non
tutti
praticavano
il
battesimo
i
credenti),
un
termine
che,
nella
visione
comune,
implicava
un
basso
rango
sociale,
una
istruzione
limitata,
un
comportamento
eccessivamente
religioso
e il
rifiuto
delle
norme
sociali
e di
genere.
Il
fatto
è
che
Giacomo
Paleologo
non
risulta
conforme
a
nessuno
di
questi
stereotipi:
la
sua
padronanza
dei
testi
biblici
era
almeno
alla
pari
di
quello
dei
migliore
dei
suoi
antagonisti,
la
sua
conoscenza
della
patristica
probabilmente
migliore
di
quella
di
qualsiasi
suo
contemporaneo,
la
sua
abilità
nel
dibattito
accademico
era
impareggiabile
e
dai
suoi
testi
si
evince
chiaramente
come
scrivesse
eloquentemente
in
alto
stile
latino.
Era,
inoltre
un
forte
critico
di
tutte
le
forme
di
sovversione
sociale
e,
grazie
alla
sua
formazione
presso
l'Università
di
Bologna,
si
trovava
pienamente
a
suo
agio
negli
ambienti
più
colti
e
altolocati
di
Italia,
Polonia,
Ungheria,
Transilvania
e
Lituania.
Anche
tra
coloro
che
non
condividevano
la
sua
visione
radicale
del
Cristianesimo
vi
erano
molti,
come
Vincenzo
Giustiniani
e
Andreas
Dudith,
che
simpatizzava
con
i
suoi
appelli
per
la
tolleranza
e
con
la
sua
difesa
eloquente
della
libera
espressione
religiosa
contro
l'idea
di
un'Europa
sempre
più
oppressivamente
schiacciata
dagli
stretti
vincoli
della
conformità
religiosa.
Ciò
che
faceva
veramente
paura
di
lui
era,
oltre
alla
sua
capacità
di
intrattenere
contatti
intellettuali
e
politici
sia
ad
occidente
che
a
oriente
del
Mediterraneo,
la
sua
indipendenza
di
giudizio
e di
pensiero,
che
egli
espresse
costantemente
nei
suoi
scritti.
Al
loro
interno,
fino
al
1571,
Paleologo
aveva
affermato
di
essere
prettamente
un
umanista
erasmiano,
critico
contro
gli
eccessi
dell'autorità
papale
e
dell'Inquisizione
e
comprensivo
verso
alcune
delle
idee
dei
riformatori,
ma
ancora
un
fedele
cattolico:
in
questo
senso
non
si
trovava
in
una
posizione
così
dissimile
da
quella
del
suo
patrono,
Andreas
Dudith,
e
del
patrono
di
Dudith,
il
Cardinale
Reginald
Pole.
Tutti
gli
studiosi
sono,
però,
d'accordo,
che
le
proposizioni
radicali
dei
suoi
lavori
successivi
siano
più
rappresentative
delle
precedenti
delle
sue
reali
idee
anti-trinitarie,
come
detto
già
maturate
dai
tempi
del
suo
soggiorno
a
Pera
nel
1554-1555
ma
che
sarebbe
stato
troppo
imprudente
pubblicare
prima
di
trasferirsi
in
Transilvania.
In
seguito
alla
morte
di
Giovanni
Sigismondo
nel
1571,
il
permesso
per
Paleologo,
che
rimaneva
pur
sempre
uno
straniero,
per
la
stampa
di
opere
anti-trinitarie
in
Transilvania
era
comunque
difficile
da
ottenere,
cosicché
gran
parte
tei
suoi
elaborati
ci
sono
pervenuti
grazie
a
copie
manoscritte
fatte
dai
suoi
studenti
(ed
esistono
fondate
ipotesi
che,
quando
nel
1573
Ferenc
David
stava
tentando
di
aggirare
le
restrizioni
crescenti
sulla
stampa
in
Transilvania
cercando
di
trovare
a
Istanbul
una
macchina
da
stampa
per
pubblicare
i
lavori
dei
Protestanti
radicali,
il
viaggio
sul
Bosforo
di
Paleologo
di
quel
periodo
avesse
proprio
l'ottenimento
di
tale
strumento
come
scopo
ultimo,
in
una
missione
diplomatico-commerciale
purtroppo
fallita,
tanto
che
i
non
adoranti
ebbero
possibilità
di
produrre
lavori
a
stampa
solo
con
la
creazione,
nel
1578,
da
parte
di
Symon
Budny,
di
una
tipografia
in
Bielorussia
che
finalmente
fece
uscire
anche
molte
opere
del
Paleologo).
Proprio
la
gran
mole
di
testi
autografi
di
Giacomo
furono,
come
visto,
la
scusa
utilizzata
per
consegnarlo
alle
grinfie
degli
inquisitori.
Essa
comprendeva:
1)
il
"Contra
Calvinum
pro
Serveto",
una
difesa
di
Michele
Serveto
che
si
ritiene
risalga
già
al
1550;
2)
il
"De
Peccato
originis"
e il
"De
Providentia",
due
trattati
scritti
intorno
al
1569
in
forma
di
lettere
aperte
a
Papa
Pio
V,
ma
destinati
ad
essere
letti
dall'imperatore
Massimiliano
II,
in
cui
si
criticano
gli
insegnamenti
calvinisti
sulla
predestinazione
e il
peccato
originale
ma
si
accusa
anche
l'Inquisizione
della
persecuzione
infondata
contro
l'autore;
3)
l'"Adversus
proscriptionem
Elisabethae
Reginae
Angliae",
in
cui
si
confuta
con
estrema
precisione
filologico-teologica
la
bolla
con
la
quale
Pio
V
aveva
scomunicato
Elisabetta
I
d'Inghilterra
nel
1570;
4)
il
"De
discriminare
Veteris
et
Novi
Testamentum",
certamente
scritto
nel
1572
e
pubblicato
a
Cracovia,
in
cui
il
Paleologo
sostiene
l'assoluta
continuità
e la
coerenza
tra
Antico
e
Nuovo
Testamento
sulla
base
del
rifiuto
dell'identificazione
standard
cristiana
di
Gesù
Cristo
come
Figlio
di
Dio
incarnato
(cosa
quest'ultima
che
sarebbe
stata
solo
un'invenzione
infondata
e
non
scritturale
della
Chiesa),
mentre
Egli
sarebbe
stato,
in
realtà,
il
vero
Messia
di
Israele,
giunto
in
adempimento
delle
profezie
messianiche
della
Legge
mosaica
(che
rimane
di
conseguenza
in
pieno
vigore)
per
abrogare
il
sacerdozio
sacrificale
del
Vecchio
Testamento,
della
cui
cultura
di
origine
egli
rimase,
in
ogni
caso,
completamente
frutto
(e
da
quest'ultima
idea
derivarono
le
accuse
di "giudaizzazione"
degli
avversari
dello
scrittore
di
Chio);
5) i
vari
"De
Tribus
gentibus",
"Dissolutio
de
sacramentis",
"De
Eucharistia",
"De
Baptismo",
"De
resurrectione
mortuorum",
e
"De
bello
sententia",
una
serie
di
manoscritti,
tutti
databili
al
1572,
in
cui
si
esprimono
con
grande
apertura
mentale
opinioni
su
Ebraismo,
Cristianesimo
e
Islam
visti
come
tre
religioni
che
forniscono
uguali
prospettive
di
salvezza,
si
inneggia
alla
tolleranza
religiosa
e si
confutano
le
opinioni
delle
Chiese
cristiane
di
avere
l'"esclusiva"
della
salvezza
attraverso
la
partecipazione
ai
benefici
della
morte
espiatoria
e
della
risurrezione
di
Cristo
tramite
il
battesimo
e il
sacramento
dell'Eucaristia;
6)
la
"Catechesi
Christiana
dierum
duodecim",
certamente
del
1574,
la
dichiarazione
più
completa
e
sistematica
della
teologia
anti-trinitaria
del
Paleologo,
strutturato
come
un
dibattito
satirico
tra
un
Indiano
messicano
e un
Ebreo
che
tentano
di
comprendere
la
fede
cristiana
protestante
riformata,
un
luterano
e un
rappresentante
della
Controriforma
cattolica;
7) i
più
tardi
"Disputatio
Scolastica",
"Commentariaus
in
Apocylypsim",
"Theodoro
Bezae
pro
Castellione
et
Bellio",
"Omnes
ab
Uno
Adamo
descenderint",
"Confutatio
vere
et
Solida
Iudicii
Ecclesiarum
Polinicarum
Causa
de
Francisci
Davidis",
"Defensio
Francisci
Davidis
in
negotio
non
invocando
de
Jesu
Christi
in
precibus"
e
"Ad
Scriptum
fratrum
Racoviensium
de
bello
et
judiciis
forensibus
Responsio",
tutti
libelli
di
stampo
politico-teologico
in
difesa
delle
proprie
posizioni
e di
coloro
che
le
proclamavano
(in
particolare
Ferenc
David)
contro
le
idee
cattoliche,
riformate
e
sociniane.
Da
una
lettura
complessiva
di
tutti
questi
testi
emerge
una
immagine
non
solo
di
un
finissimo
latinista,
ma
anche
di
un
intellettuale
e di
un
teologo
attento,
rigoroso
e
originale.
Naturalmente
Giacomo
condivide
con
tutti
gli
anti-trinitari
del
XVI
secolo
tre
proposizioni
fondamentali
ma
non
fondate
dal
punto
di
vista
scritturale
del
Cristianesimo
tradizionale:
il
peccato
originale,
la
predestinazione
divina
e,
ovviamente,
la
trinità,
ma
la
sua
visione
si
spinge
oltre
il
piano
strettamente
teologico
per
inquadrarsi
in
una
strutturazione
politica
nella
quale
questi
dogmi,
ugualmente
sfruttati
da
Inquisizione
e
Calvinismo,
sono
solo
dispositivi
attraverso
i
quali
il
clero
può
stabilire
e
mantenere
il
controllo
sulle
masse,
non
diversi
da
quelli
elaborati
per
gli
stessi
scopi
dalle
élite
clericali
nel
Giudaismo
e
nell'Islam
(e,
infatti,
più
volte
ribadisce
di
non
trovare
grandi
differenze
tra
le
strutture
teologiche
delle
tre
grandi
religioni
monoteiste).
Tali
dispositivi
sono
doppiamente
ingannatori,
da
un
lato
perché
impediscono
la
corretta
interpretazione
del
Messaggio
divino
e
dall'altro
perché,
per
opera
diabolica,
impediscono
che
Ebrei
e
Musulmani
possano
rispondere
pienamente
a
Gesù
come
Messia
e
Profeta,
in
particolare
fintanto
che
i
Cristiani
continuano
ad
adorare
quest'ultimo
come
Dio.
La
salvezza,
per
il
Paleologo
viene
solo
mediante
la
fede,
che
egli,
sulla
base
di
Romani
10:17,
intende
come
una
serie
di
stati
raggiunti
"fides
ex
auditu",
cioè
attraverso
l'ascolto
e la
condivisione
della
Parola
di
Dio
rivelata
nella
congregazione
dei
fedeli.
La
fede
è
assalita
dal
peccato,
che,
secondo
la
teologia
di
Paleologo,
è
più
una
intenzione
sbagliata
che
un'azione
sbagliata,
dal
momento
che
la
peccaminosità
nasce
dalla
ricerca
di
qualche
cosa
che
le
Scritture
hanno
mostrato
che
non
dovrebbe
essere
desiderata.
Tutto
il
genere
umano
ha
il
libero
arbitrio
e
Dio
offre
a
tutti
una
libera
scelta
di
beatitudine,
tuttavia,
i
singoli
esseri
umani,
in
uno
stato
di
natura,
non
hanno
la
capacità
di
apprezzare
o
comprendere
le
dimensioni
reali
della
scelta
che
viene
loro
offerta
e si
possono
solo
aggrappare
a
frammenti
della
vera
beatitudine,
sotto
forma
di
ricompense
materiali
(beni,
energia)
o,
nel
caso
dei
pagani
nobili,
di
perfezione
dell'anima
individuale,
mentre
la
piena
beatitudine
può
essere
conosciuta
unicamente
attraverso
la
partecipazione
permanente
alla
comunione
dei
credenti,
nella
quale
la
fede
si
fonda
sulla
grazia
della
rivelazione
divina.
Allora,
per
il
Paleologo,
la
vita
religiosa
di
una
congregazione
cristiana
(o
musulmana
o
ebrea)
diventa
una
scuola
di
beatitudine
per
i
suoi
membri
che
vengono
preparati
a
rispondere
all'offerta
di
salvezza
di
Dio
in
piena
libertà,
sempre
che
tali
congregazioni
comprendano
correttamente
e
condividano
la
rivelazione
di
Dio
presente
nel
testo
delle
Scritture.
Dal
momento
che
lo
strumento
della
grazia
di
Dio
per
la
salvezza
si
identifica
con
la
rivelazione
scritturale,
allora,
coloro
che
fabbricano
rivelazioni
falsi
o
che
distorcono
la
comprensione
della
vera
rivelazione
non
possono
che
essere
agenti
di
Satana.
Paleologo
aveva
incontrato
i
Fratelli
polacchi
della
"Ecclesia
Minor"
a
Cracovia,
e
molto
del
suo
anti-trinitarismo
deriva
sistematicamente
dalla
loro
teologia
ma
egli
si
diparte
dalle
loro
dottrine
e
pratiche
in
almeno
due
aspetti
chiave
(cosa
che
gli
valse
l'ira
di
alcuni
loro
leader
ma
che
non
portò
mai
l'autore
italo-greco
a
chiedere
la
soppressione
della
Denominazione
sociniana):
I)
in
primo
luogo,
anche
se i
Fratelli
polacchi
respingevano
la
dottrina
della
crocifissione
come
espiazione
sacrificale
per
i
peccati
dell'umanità,
essi,
tuttavia,
consideravano
la
morte
senza
peccato
di
Cristo
e,
prima
ancora,
la
sua
passione
come
elementi
di
promozione
di
una
fede
salvifica
attraverso
l'esempio
morale
e,
inoltre,
la
risurrezione
di
Cristo
come
assunzione
da
parte
di
Gesù
di
uno
status
di
mediatore
tra
i
fedeli
e
Dio,
cosa
che
li
portava
a
una
posizione
di
preghiera
a
Cristo
in
forma
adorante.
Per
Paleologo
ciò
era
totalmente
inaccettabile
nel
momento
in
cui,
secondo
il
suo
pensiero,
in
opposizione
ad
un
mondo
dato
temporaneamente
al
dominio
di
Satana,
a
tempo
debito
la
verità
avrebbe
dovuto
trionfare
con
la
Parusia
ma
tale
Parusia
non
avrebbe
potuto
aver
luogo
fino
a
che
la
Comunione
dei
Santi
avesse
visto
in
Cristo
anche
il
più
piccolo
attributo
di
divinità
in
contrapposizione
con
il
Comandamento
monoteista;
II)
i
Fratelli
polacchi,
come
quasi
tutti
gli
anti-Trinitari,
dichiaravano
che
la
grazia
della
salvezza
può
essere
raggiunta
solo
attraverso
la
piena
partecipazione
nella
Comunione
dei
credenti
e,
di
conseguenza,
cercavano
di
rafforzare
tale
Comunione
separandosi
dal
"mondo
peccaminoso"
in
comunità
egualitarie
fortemente
esclusive
nelle
quali
le
distinzioni
secolari
di
potere
e di
possesso
non
si
applicavano
e
che
resistevano
alle
richieste
di
fedeltà
civile
e di
prestazione
del
servizio
militare.
Per
Paleologo
cercare
una
certa
sicurezza
nel
potere
secolare,
nel
possesso
e
nella
concezione
di
potere
statale
ha
comunque
una
sua
logica
e
una
sua
validità,
sebbene
frammentarie
e
inadeguate,
in
risposta
alla
necessità
umana
universale
di
felicità
e,
su
questa
base,
contrastava
fortemente
qualsiasi
idea
che
la
piena
partecipazione
nella
Comunione
dei
credenti
escludesse
necessariamente
sia
dalla
piena
partecipazione
ai
diritti
civili
e o
di
appartenenza
che
dall'obbligo
di
difendere
l'ordine
legittimo
civile
con
la
forza
militare,
condannando,
inoltre,
senza
riserve
la
pratica
di
separazione
dal
mondo,
soprattutto
se
ciò
portava
addirittura
a
incorrere,
in
caso
di
trasgressione,
alla
sanzione
della
scomunica,
una
misura
ritenuta
da
lui
assurda
e
iniqua.
Come
è
possibile
notare,
stiamo
parlando
di
posizioni
che,
in
gran
parte,
risultano
tutt'ora
di
estrema
attualità
e
che
sono,
in
molti
casi,
divenute
patrimonio
di
molte
Chiese
dell'età
contemporanea.
Il
problema
è
che
tali
posizioni
venivano
espresse
da
un
uomo
di
circa
cinque
secoli
fa e
per
questo,
a
quel
tempo,
erano
troppo
aperte
e
pericolose,
tanto
che
allora
quell'uomo
dovette
sparire
dalla
faccia
della
terra
e,
forse,
tanto
che
ancora
oggi
quell'uomo
deve
incorrere
alla
damnatio
memoriae
di
cui
sono
spesso
vittime
i
grandi
precorritori.
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