N. 66 - Giugno 2013
(XCVII)
L'UOMO CHE OSò SFIDARE IL REGIME
LA FINE DI GIACOMO MATTEOTTI
di Christian Vannozzi
Esponente
di
spicco
del
socialismo
e
del
pensiero antifascista,
Giacomo
Matteotti nacque
a
Fratta
Polesine
il
22
maggio
1885
e
venne ritrovato
morto
a
Roma
il
10
giugno
del
1924.
Il
suo
omicidio
fu
al
centro
dell'attenzione
nei
primi
anni
del
fascismo
in
Italia,
dove
si
formularono
varie
ipotesi
che
arrivarono
fino
al
discorso
stesso
del
Duce
sulla
responsabilità
morale
dell'accaduto.
Il
padre
di
Giacomo
fu
consigliere
comunale
all'internò
del
partito
socialista
nel
comune
di
Polesine.
Giacomo
frequento
il
liceo
'Celio?
di
Rovigo
e si
laureò
in
giurisprudenza
all'Università
di
Bologna
nel
1907
dove
entrò
in
stretto
contatto
con
gli
ambienti
socialisti
universitari,
dove
riuscì
a
divenire
un
elemento
di
spicco.
Durante
la
Grande
Guerra,
fu
un
grande
fautore
della
neutralità
italiana,
mostrando
un
accanito
antimilitarismo,
tanto
da
inimicarsi
diversi
cittadini
illustri
del
suo
paese,
nonché
le
autorità
politiche
che
lo
costrinsero
al
confino
nei
pressi
di
Messina.
Nel
gennaio
1916,
in
piena
guerra,
sposò
con
rito
civile
la
poetessa
romana
Velia
Titta
che
gli
diede
il
figlio
Giancarlo,
che
seguì
le
orme
politiche
del
padre.
Giacomo
fu
eletto
in
Parlamento
nel
1919
per
la
circoscrizione
Ferrara-Rovigo.
Nel
1921
denunciò
pubblicamente
le
violenze
fasciste
che
in
Italia
i
seguaci
di
Mussolini
perpetuavano
nelle
campagne
contro
socialisti
e
cattolici.
La
scarsa
valenza
guerrafondaia
e
l'amicizia
con
Turati
gli
costò
nel
1922
l'espulsione
dal
Partito
Socialista
insieme
all'intero
movimento
riformista
guidato
da
Turati.
La
corrente
fondò
però
immediatamente
un
nuovo
soggetto
politico
socialista,
il
partito
Socialista
Unitario.
Lo
scontro
con
il
fascismo
fu
molto
duro,
in
quanto
osteggiò
pubblicamente,
in
aula
e
per
mezzo
della
stampa,
tutti
gli
ideali
fascisti
legati
alla
guerra
e
alla
violenza
per
ottenere
il
rinnovamento
della
società.
Per
i
fascisti
la
società
poteva
essere
rinnovata
solo
tramite
il
fascismo
e
gli
oppositori
dovevano
essere
perseguitati
anche
con
la
violenza
perchè
nemici
dell'interesse
pubblico.
La
violenza
per
i
fascisti
era
necessaria
anche
per
contrastare
le
sommosse
anti-statali
socialiste
che
si
erano
perpetuate
durante
il
'biennio
rosso',
che
aveva
scosso
l'Italia
a
causa
della
crisi
economica
che
devastò
l'Italia
dopo
la
fine
della
guerra.
Per
Matteotti
il
ceto
proletario
si
era
reso
manifesto
come
unico
mezzo
per
far
uscire
il
Paese
dalla
crisi,
ma
purtroppo
i
ceti
capitalisti
si
erano
appropriati
dei
successi
economici
dei
primi
anni
'20,
senza
lasciare
spazio
al
benessere
dei
lavoratori,
che
continuavano
a
vivere
in
condizioni
disagiate
nonostante
l'economie
si
stesse
risollevando.
Capitalisti,
e
fascisti
erano
quindi
il
maggior
bersaglio
del
segretario
socialista,
che
iniziò
a
crearsi
potenti
nemici
nelle
alte
sfere
sia
politiche
che
sociali.
Il
30
maggio
1924
Matteotti
prese
la
parola
alla
Camera
per
denunciare
i
brogli,
le
violenze
e
gli
abusi
fascisti
nelle
elezioni
vinte
il 6
aprile.
Nelle
proteste
generali
da
parte
dei
deputati
mussoliniani
che
lo
insultavano
e lo
interrompevano
continuamente
il
deputato
socialista
pronunciò
il
seguente
discorso:
"[...]
Contestiamo
in
questo
luogo
e in
tronco
la
validità
delle
elezioni
della
maggioranza.
[...]
L'elezione
secondo
noi
è
essenzialmente
non
valida,
e
aggiungiamo
che
non
è
valida
in
tutte
le
circoscrizioni.
[...]
Per
vostra
stessa
conferma
dunque
nessun
elettore
italiano
si è
trovato
libero
di
decidere
con
la
sua
volontà...
[...]
Vi è
una
milizia
armata,
composta
di
cittadini
di
un
solo
Partito,
la
quale
ha
il
compito
dichiarato
di
sostenere
un
determinato
Governo
con
la
forza,
anche
se
ad
esso
il
consenso
mancasse".
Celebri
furono
anche
le
parole
dette
ai
compagni
parlamentari
dopo
aver
denunciato
il
fascismo:
"Io,
il
mio
discorso
l’ho
fatto.
Ora
voi
preparate
il
discorso
funebre
per
me".
La
proposta
di
Matteotti
di
far
invalidare
l'elezione
di
alcuni
deputati
fascisti
fu
però
respinta
con
285
voti
contrari,
57
favorevoli
e 42
astenuti.
Secondo
lo
storico
De
Felice
il
segretario
socialista
con
il
suo
discorso
non
voleva
invalidare
le
elezioni
fasciste,
cosa
che
non
si
sarebbe
mai
verificata,
ma
intendeva
catalizzare
tutte
le
forze
contrarie
al
fascismo
del
Parlamento
dalla
sua
parte,
in
modo
da
poter
contare
su
una
forte
opposizione
al
regime.
Il
suo
contrasto
con
i
comunisti
e
con
l'ideologia
leninista
segnò
un
punto
di
non
ritorno
tra
i
socialisti
unitari
e il
partito
comunista
che
vedeva
tutti
i
governi
di
cooperazione
con
la
borghesia
come
governi
sfruttatori
che
dovevano
essere
combattuti.
Per
Matteotti
i
democratici
ed i
borghesi
non
potevano
essere
considerati
come
i
nazionalisti,
ed i
fascisti,
e
per
questa
ragione
non
cercò
mai
di
allearsi
all'altro
grande
partito
di
sinistra
che
c'era
in
Italia.
Forse
alla
lunga
l'alleanza
tra
le
forse
comuniste,
socialiste
e
repubblicane
avrebbe
potuto
contrastare
più
fortemente
il
fascismo,
ma
con
il
senno
del
poi
la
storia
è
sempre
più
facile
da
scrivere,
sicuramente
Giacomo
Matteotti
aveva
fatto
i
suoi
conti
e
ponderato
bene
le
sue
scelte.
Celebre
fu
il
suo
discorso
contro
i
comunisti
d'Italia:
"Il
nemico
è
attualmente
uno
solo,
il
fascismo.
Complice
involontario
del
fascismo
è il
comunismo.
La
violenza
e la
dittatura
predicata
dall'uno,
diviene
il
pretesto
e la
giustificazione
della
violenza
e
della
dittatura
in
atto
dell'altro".
Questo
discorso,
letto
il
30
maggio,
fece
capire
immediatamente
sia
a
Mussolini
che
ai
fascisti,
che
con
questa
camera
non
ci
sarebbe
potuto
essere
dialogo
e
che
la
destra
fascista
non
avrebbe
potuto
realizzare
tutto
ciò
che
voleva.
L'opposizione
era
infatti
forte,
e
proveniva
da
tutti
i
lati
del
parlamento,
dai
comunisti
ai
socialisti,
dai
liberali
ai
cattolici.
Il
10
giugno
del
1924
Matteotti
uscì
a
piedi,
verso
le
16.15
per
recarsi
a
Montecitorio.
Non
fece
la
solita
strada,
cioè
quella
che
passa
da
via
Flaminia
sotto
gli
archi
di
Piazza
del
Popolo,
bensì
volle
fare
il
lungotevere.
Una
vettura
stava
però
ad
attenderlo,
che
secondo
le
ricostruzioni
dei
testimoni
portava
alcuni
membri
della
polizia
politica,
precisamente
Amerigo
Dumini,
Albino
Volpi,
Giuseppe
Viola,
Augusto
Malacria
e
Amleto
Poveromo.
Probabilmente
la
polizia
politica
era
li
per
altri
scopi,
ma
una
volta
scorto
l'accanito
oppositore
del
fascismo,
decisero
di
intervenire.
Due
di
loro
cercarono
di
afferrare
Matteotti
che
però
si
difese
molto
bene
e
rese
inevitabile
l'ingresso
in
scena
di
un
terzo
aggressore
che
colpì
alla
testa
il
deputato
stordendolo.
I
tre
caricarono
poi
Matteotti
in
macchina
sotto
gli
occhi
di
due
ragazzini
che
descrissero
l'intero
accaduto
alla
polizia.
La
colluttazione
tra
Matteotti
e i
suoi
aggressori
continuò
in
macchina,
dove
il
deputato
riuscì
a
lanciare
fuori
dal
finestrino
il
tesserino
da
parlamentare,
che
fu
ritrovato
da
dei
passanti
all'altezza
del
Ponte
del
Risorgimento.
Non
riuscendo
a
calmare
gli
animi
di
Giacomo
Matteotti,
uno
degli
assalitori
lo
accoltellò
uccidendolo.
Il
corpo
del
povero
deputato
fu
gettato
nella
campagna
romana,
precisamente
nella
Macchia
della
Quartarella,
un
bosco
del
comune
di
Riano
che
distava
25
km
da
Roma.
Dopo
due
giorni
di
assenza
dal
parlamento
i
deputati
socialisti
iniziarono
ad
interrogarsi
sulla
sorte
di
Matteotti,
ed
Enrico
Gonzales
pose
un'interrogazione
parlamentare
allo
stesso
Mussolini
che
rispose:
"Credo
che
la
Camera
sia
ansiosa
di
avere
notizie
sulla
sorte
dell'onorevole
Matteotti,
scomparso
improvvisamente
nel
pomeriggio
di
martedì
scorso
in
circostanze
di
tempo
e di
luogo
non
ancora
ben
precisate,
ma
comunque
tali
da
legittimare
l'ipotesi
di
un
delitto,
che,
se
compiuto,
non
potrebbe
non
suscitare
lo
sdegno
e la
commozione
del
governo
e
del
parlamento".
Da
quel
momento
iniziarono
le
indagini
di
due
grandi
esponenti
della
giurisprudenza
romana,
Mauro
Del
Giudice
ed
Umberto
Guglielmo
Tancredi.
I
due
magistrati
arrivarono
ben
presto
ad
arrestare
tutti
gli
esecutori
del
delitto,
ma
non
riuscirono
ad
andare
oltre,
ai
mandanti
che
a
quanto
pare
erano
stati
informati
di
tutto.
La
ricostruzione
fu
semplice,
la
polizia
politica
non
si
aspettava
di
imbattersi
in
Matteotti,
ma
una
volta
visto
decisero
di
dargli
una
lezione.
La
cosa
però
degenerò
e si
arrivò
all'accoltellamento
del
deputato,
cosa
sicuramente
non
voluta
ma
successa
accidentalmente,
per
colpa
degli
animi
che
si
erano
surriscaldati.
Gli
esecutori
avvisarono
immediatamente
i
gerarchi
fascisti
e
questi
il
Duce,
che
quindi
ben
conosceva
i
fatti.
Naturalmente
i
fascisti
invece
che
denunziare
il
fatto
lo
tennero
nascosto,
e ne
fecero
le
spese
i
due
magistrati
che
furono
allontanati
dall'incarico
e
costretti
al
pensionamento
forzato.
Di
questi
giorni
in
Italia
potrebbe
accadere
lo
stesso
viste
le
forti
intromissioni
politiche
nella
magistratura.
Probabilmente
è
una
prerogativa
italiana
il
fatto
che
i
giudici
non
possano
essere
indipendenti
bensì
sottoposti
ai
governanti
che
li
utilizzano
per
i
propri
fini
personali.
Purtroppo
la
magistratura
pur
essendo
un
potere
separato
dall'esecutivo
è
comunque
controllato
e
governato
da
esso,
tramite
il
braccio
rappresentato
dal
ministero
della
Giustizia.
In
parlamento
non
mancò
la
protesta
dei
socialisti
unitari,
che
stretti
attorno
alla
famiglia
di
Matteotti
pronunciarono
il
seguente
discorso:
"L'autorità
politica
assicura
solerti
indagini
per
consegnare
alla
giustizia
i
colpevoli,
ma
la
sua
azione
appare
totalmente
investita
dal
sospetto
di
non
volere,
né
potere
colpire
le
radici
profonde
del
delitto,
né
svelare
l'ambiente
da
cui
i
delinquenti
emersero".
(Comunicato
del
partito
socialista)
Dopo
il
comunicato
tutti
i
parlamentari
dell'opposizione
abbandonarono
l'aula
per
andare
nella
sala
dell'Aventino.
Secondo
le
parole
di
Marinelli,
prima
di
essere
fucilato
per
tradimento
contro
il
regime
per
aver
appoggiano
l'ordine
del
giorno
Grandi
che
segnava
la
sfiducia
del
Gran
Consiglio
al
Duce,
sembra
che
il
gerarca
abbia
confessato
di
essere
stato
lui
stesso
il
mandante
dell'omicidio
Matteotti,
in
quanto
fu
duramente
ripreso
dal
Duce
sul
perchè
non
si
riusciva
a
far
chiedere
la
bocca
al
segretario
socialista.
Per
questa
ragione
si
organizzò
un
agguato,
anche
se
poi
non
è
plausibile
questa
versione
perchè
non
c'erano
i
presupposti
per
attendere
Matteotti
sul
lungotevere.
Per
porre
fine
a
tutte
le
chiacchiere
e
l'ipotesi
sul
coinvolgimento
del
regime
Mussolini
pronunciò
il
suo
celebre
discorso
al
parlamento:
"Ma
poi,
o
signori,
quali
farfalle
andiamo
a
cercare
sotto
l'arco
di
Tito?
Ebbene,
dichiaro
qui,
al
cospetto
di
questa
Assemblea
e al
cospetto
di
tutto
il
popolo
italiano,
che
io
assumo,
io
solo,
la
responsabilità
politica,
morale,
storica
di
tutto
quanto
è
avvenuto.
Se
le
frasi
più
o
meno
storpiate
bastano
per
impiccare
un
uomo,
fuori
il
palo
e
fuori
la
corda!
Se
il
fascismo
non
è
stato
che
olio
di
ricino
e
manganello,
e
non
invece
una
passione
superba
della
migliore
gioventù
italiana,
a me
la
colpa!
Se
il
fascismo
è
stato
un'associazione
a
delinquere,
io
sono
il
capo
di
questa
associazione
a
delinquere!
Se
tutte
le
violenze
sono
state
il
risultato
di
un
determinato
clima
storico,
politico
e
morale,
ebbene
a me
la
responsabilità
di
questo,
perché
questo
clima
storico,
politico
e
morale
io
l'ho
creato
con
una
propaganda
che
va
dall'intervento
ad
oggi".
(Benito
Mussolini,
discorso
alla
Camera,
3
gennaio
1925).
La
chiusura
della
vicenda
rafforzerà
il
fascismo
che
instaurò
la
dittatura
che
noi
tutti
conosciamo,
spazzando
via
lo
stato
democratico
liberale
ed
opprimendo
con
la
forza
tutte
le
voci
di
opposizione.
Era
l'inizio
del
ventennio
fascista,
dove
forse
l'Italia
conobbe
la
sua
storia
più
buia.
Dove
tutto
il
genio
di
un
popolo
doveva
essere
messo
a
disposizione
del
fascismo.
dove
ogni
voce
doveva
tacere
per
far
sentire
l'unica
voce
del
Duce.