N. 92 - Agosto 2015
(CXXIII)
GETA E CARACALLA
FRATELLI CONTRO
di Carlo Ciullini
Era stato un secolo straordinario, probabilmente il più bello per Roma. Un'epopea d'oro, quella delle adozioni imperiali aliene da compromessi familiari e fondate solo su scelte meritocratiche, quale mai c'era stata in precedenza, né più si sarebbe ripetuta.
La
libera
scelta,
da
parte
degli
imperatori,
dei
loro
successori
in
base
alle
peculiari
virtù
e
capacità
manifestate
dal
soggetto,
indipendentemente
dai
legami
di
parentela,
si
rivelò
la
carta
vincente
gettata
dall'Urbs
sul
tavolo
dei
destini
del
mondo.
A
partire
da
Nerva,
nel
96
dopo
Cristo,
e
fino
al
180,
anno
della
morte
di
Marco
Aurelio,
si
susseguirono
quasi
novant'anni
di
“felicitas
temporum”,
come
definì
quell'epoca
Tacito:
un
periodo
di
lunga
prosperità,
di
comune
sentire,
di
diffusa
laboriosità
e,
sopratutto,
di
saldissima
pax
nell'ecumene
intero.
Prima
e
dopo
questo
lasso
di
tempo
benedetto
dagli
dei
e
dagli
uomini,
i
principes
e le
loro
casate
diedero
invece
il
peggio
di
sé,
contribuendo
ad
alimentare
tristemente,
nei
secoli,
la
squallida
fama
dei
negletti
imperatori
di
Roma.
La
teoria
di
coloro
che,
con
il
proprio
comportamento,
infangarono
il
manto
purpureo
simbolo
del
potere
imperiale,
è
lunga
e
rinomata:
Caligola,
Nerone,
Galba,
Otone,
Vitellio
e,
infine,
Domiziano.
Dopo
l'ultimo,
debosciato
Flavio,
con
l'avvento
di
Nerva
prese
il
via
il
governo
dei
principi
illuminati,
ciascuno
dei
quali
seppe
scegliere
al
meglio
chi
lo
avrebbe
seguito
sul
trono:
Nerva
optò
per
Traiano,
questi
per
Adriano,
poi
Antonino
Pio,
infine
Marco
Aurelio
(assieme
a
Lucio
Vero).
Una
lista
di
uomini
validi,
capaci
di
grandi
opere,
assennati,
dal
forte
carisma
e
riccamente
dotati
di
latinissima
virtus.
Ma,
per
un
bioritmo
storico
ineluttabile,
anche
ciò
che
sembra
imperituro
è
destinato
a
cedere
il
passo
al
cambiamento
e a
nuove
realtà:
l'età
d'oro
degli
Augusti
ispanici
e
degli
antonini
si
arenò
con
la
scomparsa
di
Marco
Aurelio,
l'“imperatore
filosofo”,
uomo
la
cui
profondità
di
spirito
mai
avrebbe
dovuto
suggerirgli
di
far
cadere
sul
degenere
figlio
Commodo
la
scelta
per
la
sua
successione
se,
in
tale
circostanza,
non
fosse
stato
più
forte
l'immeritato
affetto
paterno.
Un
figlio
che,
nei
suoi
dodici
anni
sul
trono
imperiale,
evidenziò
appieno
la
propria
indegnità
a
governare.
Tutto
era
finito,
dunque?
La
Roma
migliore
si
eclissava
per
sempre?
Dopo
l'eliminazione
cruenta
di
Commodo,
malvagio
nell'animo
e
troppo
impegnato
a
fare
il
gladiatore
piuttosto
che
a
ben
regnare,
con
il
subentro
del
grande
Settimio
Severo
ci
si
illuse
forse
che
gli
inetti
anni
commodiani
rappresentassero
una
triste
parentesi,
una
eccezione
fastidiosa
confermante
la
regola
virtuosa
dei
buoni
imperatori.
Ma
con
la
morte
nel
211
di
Severo
stesso,
il
quale
aveva
saputo
adeguatamente
rinvigorire
l'impero
dopo
i
dodici,
miserrimi
anni
del
successore
di
Marco,
la
realtà
amara
si
palesò
appieno
nella
figura
di
Caracalla,
erede
al
trono
dopo
la
scomparsa
del
padre.
Caracalla,
tuttavia,
non
regnò
solo:
parte
iniziale
del
suo
governo
fu
condiviso
con
un
altro
giovane
imperatore,
di
un
anno
più
piccolo
di
lui.
Si
trattava
di
Geta,
suo
fratello
minore.
Settimio
Severo,
insediando
al
comando
dello
Stato
i
due
figli
maschi,
tentò
in
tal
modo
di
porre
solide
basi
al
potere
della
dinastia,
originaria
di
Leptis
Magna,
nella
Tripolitania
(l'odierna
Libia).
Invero,
la
successione
in
seno
ai
Severi
risultò
alquanto
articolata,
attraversata
come
fu
da
quattro
fasi
distinte:
dal
198
Settimio
associò
al
trono
il
piccolo
Caracalla
(che
aveva
dieci
anni),
in
una
diarchia
che
divenne
poi
triade
quando,
nel
209,
unì
al
potere
anche
il
secondogenito
Geta,
allora
ventenne;
padre
e
figli
condussero
assieme
le
sorti
del
Paese
per
due
anni,
allorquando
Settimio
morì,
nel
Febbraio
211,
in
Britannia.
Da
quel
mese,
e
fino
a
dicembre
(dunque,
poco
più
di
dieci
mesi)
i
due
fratelli,
rimasti
soli,
regnarono
assieme:
infine
Caracalla,
ritenendo
fosse
più
gradevole
non
spartire
il
titolo
imperiale
con
nessuno,
tolse
di
mezzo
il
minore,
vestendo
monocraticamente
la
porpora
per
altri
sei
anni.
Poi,
anche
su
lui
calarono
le
lame
dei
congiurati.
Anche
i
due
giovani
principes
che
lo
seguirono,
Elagabalo
e
Alessandro
Severo,
avrebbero
concluso
assai
precocemente
la
loro
esperienza
sul
Palatino,
soccombendo
alle
trame
di
palazzo.
Il
periodo
ispanico-antonino
apparve
ormai
lontano
non
qualche
decennio,
ma
secoli:
non
era
più
possibile,
a un
imperatore,
morire
nel
proprio
letto
come
accadde
ai
cinque
fortunati
che
resero
irripetibile
quell'era.
E se
poi,
pur
di
regnare
liberamente
e
senza
scendere
a
compromessi,
si
facevano
uccidere
anche
i
fratelli...
Publius
Septimius
Geta
nacque
a
Roma
il 7
Marzo
189
dopo
Cristo;
la
madre
Giulia
Domna,
di
origine
siriaca,
insignita
del
titolo
di
augusta,
fu
una
delle
donne
più
potenti
e
influenti
della
storia
della
città.
Due
figli
maschi
costituirono
certo
motivo
di
orgoglio,
per
la
consorte
di
un
imperatore
alla
quale
era
demandato
il
compito,
quasi
istituzionale,
di
mantenere
alto
il
prestigio
familiare.
Per
ciò
che
concerne
la
breve
vita
di
Geta,
possiamo
rivolgerci
alla
non
sempre
affidabile
Historia
Augusta,
un'opera
sovente
impregnata
di
testimonianze
legate
a
fonti
fantasiose
e a
aneddotiche
briose,
piuttosto
che
ad
una
storiografia
accertabile.
Si
racconta
dunque
che
Geta
avesse,
fin
da
piccolo,
ricevuto
il
nome
aggiuntivo
di
Antonino
perché
il
padre
avrebbe
sognato
che
tale
sarebbe
stato
il
nome
del
suo
successore.
Ciò
costituiva,
da
parte
di
Severo,
anche
un
omaggio
a
Marco
Aurelio,
imperatore
che
l'africano
stimò
profondamente
in
ragione
di
quella
filosofia
stoica
che
li
accomunò:
non
è
escluso
che
il
capostipite,
con
questa
scelta
onomastica
a
riguardo
dei
propri
figli,
avesse
anche
voluto
ricordare
Antonino
Pio,
che
molto
lo
aveva
aiutato
agli
inizi
della
carriera
politica,
quando
l'uomo
venuto
da
Leptis
era
ancora
un
adolescente,
o
poco
più.
Tra
i
vari
episodi
narrati
dall'Historia,
pare
che
un
giorno
Severo,
esperto
in
oroscopi,
avesse
esclamato
dopo
una
consultazione
astrologica:
“E'
strano
che
il
cielo
predìca
la
divinizzazione
di
Geta,
giacché
l'oroscopo
non
lo
vede
affatto
come
imperatore”.
Una
situazione
in
certo
senso
paradossale.
Ma,
a
grandi
linee,
materializzatasi
realmente
quando,
diversi
anni
dopo,
la
frase
paterna
assunse
nuovo
valore
alla
luce
delle
parole
di
Caracalla
che
aveva
appena
fatto
assassinare
il
fratello:
“Che
possa
esser
almeno
divino,
dal
momento
che
non
è
più
vivo...!”.
Tra
i
racconti,
invero
più
fantasiosi
che
reali,
legati
alla
famiglia
imperiale,
il
nostro
testo
di
riferimento
riporta
un
episodio
denso
di
presagi:
si
narra
che
essendo
la
madre
Giulia
Domna
gravida
e in
attesa
imminente
del
secondogenito,
e
avendo
una
gallina
fatto
un
uovo
di
colore
purpureo
(quindi
regale),
il
piccolo
Caracalla
lo
avrebbe
preso
e
scagliato
al
suolo,
frantumandolo;
al
che
la
madre,
irata,
non
poté
esimersi
dall'apostrofarlo:
“Fratricida
maledetto,
smetti
di
uccidere
tuo
fratello...!”
Da
adolescente,
e
poi
da
giovane
uomo,
Geta
prese
più
volte
le
difese
di
cittadini
finiti
sotto
l'ombra
minacciosa
della
scure
imperiale,
perché
ritenuti
pericolosi
per
lo
Stato.
Pare
che
in
una
di
tali
occasioni,
Geta
rimproverasse
il
fratello
più
grande,
deciso
crudelmente
a
eliminare
i
nemici
politici:
“Tu
che
non
perdoni
niente
a
nessuno,
saresti
capace
di
assassinare
tuo
fratello...”.
Parole,
queste,
tristemente
profetiche.
Dalla
trama
riportata
nell'Historia
Augusta,
appare
manifesto
quanto
il
destino
di
Geta
fosse
già
segnato
dagli
omina
e
dagli
indizi
svelanti
il
tragico
futuro
del
ragazzo:
ciò
fa
pensare
a un
apporto
storiografico
artefatto
a
posteriori,
perfettamente
modellato
su
quello
che
sarebbe
poi
effettivamente
accaduto.
Ma
non
dimentichiamo
quanto
i
Romani
adorassero
gli
oracoli,
i
vaticini
e le
interpretazioni
celesti
e
ultraterrene.
Il
giovane
Geta,
di
spirito
indubbiamente
più
sensibile
e
raffinato
del
fratello,
amava
le
opere
letterarie
degli
antichi,
ed
era
a
sua
volta
profondamente
amato
dalla
madre,
che
lo
prediligeva
per
la
sua
fragilità;
si
dice
avesse
una
voce
melodiosa
e
suadente,
sebbene
talvolta
frenata
dalla
balbuzie.
Adorava
vestirsi
con
eleganza
e
ricercatezza,
manifestando
modi
cordiali:
per
questo
fu
benvoluto
dal
popolo,
dal
Senato
e
dall'esercito,
che
si
fece
promotore
della
richiesta
a
Settimio
Severo
di
associare
al
trono
anche
Geta,
dopo
che
ciò
era
stato
fatto
col
fratello
più
grande.
In
realtà,
il
padre
lo
insignì
del
titolo
di
caesar
fin
dal
198,
quando
il
piccolo
aveva
solo
nove
anni.
Questa
benevolenza
generale
nei
confronti
del
fratello
minore
esacerbò
segretamente
l'animo
truce
di
Caracalla,
che
soffocò
tuttavia
i
suoi
malversi
sentimenti
intimorito
dalla
presenza
carismatica
del
padre:
ma
l'astio
montava
in
lui
e
nella
sua
cricca
di
accoliti.
Un
giorno
o
l'altro,
l'occasione
per
eliminare
del
tutto
la
fastidiosa
presenza
fraterna
si
sarebbe
presentata:
prima
o
poi,
il
grande
Settimio
Severo,
già
avviato
alla
senilità,
avrebbe
lasciato
libero
asacampo
ai
cattivi
propositi
del
figlio
maggiore
e
degli
intrallazzatori
di
corte...
Nei
primi
anni
del
200
dopo
Cristo,
Roma
fu
impegnata
nella
guerra
in
Britannia,
e i
compiti
in
seno
alla
famiglia
vennero
suddivisi:
al
padre
andava
la
guida
delle
operazioni,
a
Caracalla
il
vice-comando
dell'esercito,
a
Geta
gli
incarichi
amministrativi
e
burocratici,
mentre
la
madre
si
poneva
a
consigliere
di
fiducia
del
princeps.
Alla
morte
dell'imperatore,
a
York
il 4
Febbraio
211,
i
due
fratelli
vennero
acclamati
entrambi
imperatores,
in
una
improbabile
e
poco
gradita
coabitazione.
Si
trattava,
tuttavia,
solo
di
una
calma
apparente.
Il
destino
del
più
debole
dei
figli
di
Severo
era,
a
suo
modo,
già
segnato.
Così,
il
19
Dicembre
dello
stesso
anno,
il
fragile
e
mite
Geta
fu
ucciso
tra
le
braccia
di
Giulia
Domna,
trafitto
da
alcuni
centurioni
inviati
in
qualità
di
sicari
dall'impietoso
Caracalla:
il
presagio
di
Geta
di
anni
prima
trovava,
in
tal
modo,
il
suo
funesto
compimento.
Il
ragazzo
venne
sepolto
nel
Settizonio,
una
sorta
di
ninfeo
fatto
edificare
dal
padre
nel
203,
alle
pendici
meridionali
del
Palatino.
In
seguito
la
salma
fu
inumata
nel
mausoleo
di
Adriano
per
intercessione
della
zia
Giulia
Mesa;
la
madre
non
c'era
più,
lasciatasi
morire
d'inedia
ad
Antiochia,
nel
217,
addolorata
allo
stremo
dall'assassinio
di
Caracalla:
un
figlio
certo
traviato,
ma
pur
sempre
figlio.
A
render
ancor
più
complicato
l'accertamento
della
reale
ubicazione
del
tumulo
di
Geta,
va
ricordata
anche,
sulla
Via
Appia,
l'esistenza
di
un
monumento
funerario
detto,
appunto,
Tomba
di
Geta.
Dopo
aver
deciso
della
morte
del
fratello,
Caracalla
ordinò
la
cancellazione
del
suo
nome
da
tutte
le
iscrizioni
ufficiali.
Inoltre,
nello
stesso
periodo,
in
una
sorta
di
generale
resa
dei
conti
furono
uccise
o
proscritte
circa
ventimila
persone,
tra
le
quali
Papiniano,
ritenute
sostenitrici
dirette
o
indirette
della
fazione
favorevole
a
Geta.
Sull'Arco
di
settimio
Severo,
nel
Foro
romano,
il
nome
di
Geta
venne
abraso
e
sostituito
dalle
parole
optimis
fortissimisque
princibus;
inoltre
le
sua
figura
fu
tolta
dall'Arco
dei
Severi,
a
Leptis
Magna.
Il
tutto,
nell'ambito
di
una
straordinaria
opera
di
damnatio
memoriae,
concertata
da
Caracalla
con
la
volontà
di
far
sbiadire
per
sempre
nell'oblio
il
nome
e il
volto
del
ben
poco
amato
fratello.
Infine
una
curiosità,
che
abbraccia
maggiormente
il
mito
letterario,
piuttosto
che
la
veridicità
storica:
Goffredo
di
Monmouth,
nella
sua
“Historia
regum
Britanniae”,
sostiene
che
Geta
fosse
stato
acclamato
re
britannico
dalle
legioni
di
York,
dopo
la
morte
del
padre.
I
Britanni,
invece,
avrebbero
scelto
Caracalla,
il
quale,
dapprima,
tentò
inutilmente
di
far
fuori
il
fratello
durante
i
Saturnali;
a
Dicembre
tuttavia
vi
riuscì,
grazie
alla
spada
complice
di
un
suo
ufficiale.
La
triste
fine
di
Geta,
che
raggiunse
i
Campi
Elisi
poco
più
che
adolescente,
testimonia
una
volta
di
più,
se
ancora
ve
ne
fosse
stato
bisogno,
quanto
la
brama
di
potere
personale
priva
di
scrupoli,
raramente
nel
corso
della
Storia
abbia
guardato
in
faccia
ad
affetti,
amicizie
e
parentele.
Non
fu
prerogativa
della
sola
Roma
assistere
a
sanguinosi
intrighi
di
corte,
congiure
contro
le
quali
rivestivano
scarso
valore
i
legami
di
sangue
o
quelli
familiari.
Ma a
Roma
questa
poco
nobile
pratica
trovò
terreno
fertile
nella
decadenza
etica
e
morale,
nella
frantumazione
dei
mores
atavici,
nella
penetrazione
inarrestabile
di
usi
e
abitudini
lascivi,
di
stampo
orientale
sopratutto.
Caracalla,
lo
abbiamo
visto,
non
si
fece
cruccio
di
sopprimere
il
fratello;
ma
come
dimenticare
icone
di
crudeltà
come
Nerone,
indiscusso
primatista
in
questa
abominevole
attività
di
eliminazione
parentale?
Prima
fece
fuori
la
madre,
Agrippina
Minore
(la
quale,
da
par
suo,
fu
la
probabile
responsabile
dell'assassinio
del
marito
Claudio),
e
poi
tolse
di
mezzo
Poppea
Sabina,
moglie
tanto
bella
quanto
indisponente
(con
un
calcio,
ci
narra
Tacito):
pare
che,
in
tale
tragica
circostanza,
l'imperatore
con
la
lira
avesse
addirittura
compiuto
un
doppio
misfatto,
poiché
sembra
che
la
donna
fosse
incinta.
Non
possiamo
certo
trascurare
un
tiranno
come
Commodo,
che
venne
accoppato
dai
cortigiani,
nel
pieno
della
sua
vigorosa
e
brutale
vita,
grazie
ai
poco
affettuosi
maneggi
della
concubina
ufficiale,
Marzia,
resa
ormai
esausta
dalle
stravaganti
e
debosciate
pratiche
del
marito,
che
si
riteneva
una
reincarnazione
di
Ercole.
All'interno
dei
palazzi
capitolini,
dunque,
potevano
facilmente
crearsi
più
fazioni,
ciascuna
supportante
un
esponente
diverso
della
famiglia
imperiale:
e
spesso
i
pugnali
risolvevano
le
dispute
e
annacquavano
le
invidie
con
maggior
efficacia
e
sollecitudine
di
una
sobria
dialettica.
Onori
e
nobiltà,
ma
anche
miserie
e
intrighi
alla
corte
dei
grandi
della
terra:
a
Roma
come
ovunque,
duemila
anni
fa
come
in
ogni
epoca.
E
contro
questo
modus
essendi
tipicamente
umano,
a
nulla,
a
conti
fatti,
valsero
le
ultime
parole
di
Settimio
Severo
pronunciate
ai
figli
sul
letto
di
morte,
parole
che
Dione
Cassio
ci
riporta
nella
sua
“Historia
romana”:“Non
state
in
disaccordo
tra
voi,
rendete
ricco
l'esercito,
e
disprezzate
tutti
gli
altri”.
Riferimenti
bibliografici:
ASTE
ANTONIO
(a
cura),
“La
vita
Getae
dell'Historia
Augusta”,
Aracne,
Ariccia
2007
GOFFREDO
DI
MONMOUTH,
“Historia
regum
Britanniae”,
Guanda,
Milano
2005