N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
gESÙ STORICO: INDAGINE ATTORNO A UN “PROBLEMA”
PARTE XIII - LA MORTE DI GESÙ
di Luigi Pezzella
I
Vangeli
sono
i
soli
a
raccontare
quel
seguito
di
azioni
ed
eventi
della
morte
e a
dare
perciò
solo
un’idea
di
quanto
accadde
nel
contesto
dell’esecuzione
di
Gesù.
Le
tendenze
che
si
manifestano
in
tutti
e
quattro
i
Vangeli
si
ripercuotono
sulla
esposizione
degli
eventi,
rendendo
difficile
risalire
direttamente
dai
testi
neotestamentari
ai
fatti
storici.
La
storia
delle
interpretazioni
mostra
inoltre
come
i
tentativi
di
trarre
dai
Vangeli
conclusioni
su
storia
sociale,
diritto,
relativamente
alle
circostanze
storiche
della
crocifissione
si
scontrano
con
gravi
problemi
e
conducano,
a
risultati
differenti.
Come
abbiamo
precedentemente
detto
la
Terza
ricerca
fa
un
uso
prevalente
della
plausibilità
storica.
G.
Theissen
sostiene
che:
“in
esso
si
esige
il
contrario
di
ciò
che
richiedeva
il
precedente
criterio
della
differenza
e
cioè
quello
che
non
può
essere
derivato
dal
giudaismo
del
tempo,
verosimilmente
non
è
storico.
In
altre
parole:
Gesù
può
aver
detto
e
fatto
soltanto
quello
che
un
carismatico
giudeo
del
I
sec.
avrebbe
potuto
dire
e
fare.
Stegemann,
tenendo
conto
di
ulteriori
dati
storici,
capovolge
il
procedimento
inferenziale
tradizionale
che
dai
testi
neotestamentari
risale
alla
situazione
storica.
Ma
partendo
dal
quadro
generale
fornito
dalla
storia
del
diritto
e
della
società,
si
chiede
quale
sia
stato
il
percorso
plausibile
preso
dagli
eventi
nella
vicenda
dell’esecuzione
di
Gesù,
trattando
casi
analoghi,
e
passando
in
rassegna
i
possibili
svolgimenti
dei
fatti.
Come
caso
analogo
alla
sorte
di
Gesù
di
Nazaret
non
di
rado
si
porta
un
racconto
di
Giuseppe
nel
suo
scritto
sulla
guerra
giudaita
(Bell.6,300-309).
Giuseppe
narra
di
tale
Gesù
ben
Anania,
presentato
come
bifolco
proveniente
dalla
campagna.
Questo
Gesù
era
venuto
a
Gerusalemme
alla
festa
dei
tabernacoli
e
nell’area
del
tempio
e
per
le
strade
di
Gerusalemme
si
era
messo
a
gridare
senza
sosta
minacce
di
disgrazia
su
Gerusalemme
e il
tempio.
Alcuni
cittadini
influenti
lo
fecero
prendere
e
fustigare.
Ma
il
profeta
ripeteva
il
suo
grido
di
minaccia:
una
voce
da
oriente,
una
voce
da
occidente,
una
voce
dai
quattro
venti,
una
voce
contro
Gerusalemme
e il
tempio,
una
voce
contro
sposi
e
spose,
una
voce
contro
il
popolo
tutto!
(Bell.6,301).
Il
profeta
dunque
predice
la
fine
di
Gerusalemme
e la
distruzione
del
tempio,
addirittura
la
catastrofe
giudaita.
L’élite
dirigente,
consegna
il
personaggio
al
governatore
romano,
non
senza
averlo
prima
sottoposto
a
interrogatorio(Bell.6,303).
Ci
si
sarebbe
potuti
aspettare
che
l’élite
dirigente
riconoscesse
l’innocuità
di
questo
profeta
e lo
lasciasse
andare.
Essi,
invece,
giudicano
il
suo
comportamento
come
un’escalation
e lo
interpretano
come
forma
di
ribellione
antiromana,
per
questo
lo
conducono
davanti
al
procuratore.
I
membri
dell’élite
non
sanno
se
questo
Gesù
ben
Anania
sia
uno
di
quei
“profeti
di
segni”,
ossia
quei
demagoghi
profeticamente
ispirati
che
sono
causa
di
disordini,
come
Teuda
negli
Atti
degli
Apostoli,
ma
la
loro
comparsa
poteva
essere
interpretata
dalla
potenza
romana
come
inizio
della
rivolta.
I
profeti
di
segni
avevano
un
seguito,
anche
armato,
e
questo
poteva
essere
interpretato
come
sedizioso.
Gesù
ben
Anania
fu
portato
dai
membri
dell’
élite
davanti
al
procuratore
romano,
fu
torturato
brutalmente
(Bell.6,304).
È da
notare
che
Gesù
ben
Anania
non
aveva
alcun
seguito.
Per
Stegemann:‹‹questo
esempio
è
per
molti
aspetti
istruttivo
riguardo
alle
vicende
di
Gesù
di
Nazaret.
Spiega
plausibilmente
com’egli
sia
potuto
facilmente
risultare
sospetto
ai
romani.
A
confronto
con
Gesù
di
Nazaret,
i
motivi
di
sospetto
riguardanti
Gesù
ben
Anania
paiono
relativamente
innocenti.
Se
infatti
si
può
partire
dalla
premessa
che
Gesù
di
Nazaret
1.
raccolse
dietro
di
sé
un
gruppo
di
seguaci;
2.
proclamò,
l’instaurazione
imminente
della
sovranità
di
Dio;
3.operò
segni;
4.fece
un
ingresso
regale
a
Gerusalemme
e da
re
davidico
venne
salutato;
5.compiendo
il
gesto
del
tempio,
come
re
di
giudea
avanza
il
diritto
sul
tempio;
6.fu
catturato
come
agitatore
(lestes);
7.
venne
condannato
alla
crocifissione
dal
procuratore
romano;
8.
fu
giustiziato
con
altri
agitatori
come
re
dei
giudaiti.
Vi è
qui
una
serie
di
indizi
che
fanno
apparire
non
assurda,
dal
punto
di
vista
delle
autorità,
la
supposizione
di
una
rivolta
antiromana.
L’ipotesi
di
Stegemann
è
dunque
che
Gesù
di
Nazaret
fu
sospettato
di
sedizione
antiromana
e
che
in
particolare
fu
collegato
a
una
rivendicazione
del
trono
giudaita.
Il
cosiddetto
incidente
del
tempio
(Mc.
11,15-19)
par.)
fu
forse
il
momento
all’origine
della
sua
cattura
e
delle
conseguenze
che
ne
nacquero.
Un’interessante
prospettiva
sull’argomento
la
fornisce
Giorgio
Jossa:
“il
motivo
del
contrasto
con
i
governanti
del
tempo
non
sta
infatti
nella
mancata
osservanza
della
Legge
mosaica
(come
abbiamo
già
visto)
da
parte
di
Gesù,
ma
nella
critica
al
sistema
del
tempio,
tale
critica
colpiva
direttamente
le
autorità
sacerdotali
giudaiche,
ma
indirettamente
infastidiva
anche
l’autorità
politica
romana.
L’elemento
decisivo
che
ha
causato
la
sua
condanna
a
morte
è
l’episodio
della
purificazione
del
tempio,
accompagnato
dalla
previsione
minacciosa
della
distruzione.
La
condanna
a
morte
di
Gesù
scaturisce
dalla
collusione
dei
sommi
sacerdoti
col
prefetto
romano”.
Spesso
vi è
l’obiezione
alla
condanna
politica
di
Gesù
motivata
dal
fatto
che
per
essere
una
minaccia
politica
Gesù
e il
suo
movimento
avrebbe
già
dovuto
avere
una
fisionomia
militare
e
che
qui
vi è
il
carattere
profetico
della
protesta.
Molto
laconico,
deciso
ed
esaustivo
a
riguardo
è
Sanders:
“un
uomo
che
parlava
di
regno,
che
parlava
contro
il
tempio
e
che
aveva
seguaci,
era
destinato
ad
essere
giustiziato”.
Stegemann
dice
molto
di
più:
“chiedersi
se
Gesù
e il
suo
movimento
siano
stati
una
reale
minaccia
per
i
romani
sia
una
questione
che
dal
punto
di
vista
loro
abbia
dimensioni
diverse
da
quelle
che
immaginiamo
noi
oggi.
Quando
si
discute
se
Gesù
sia
stato
realmente
un
rivoltoso
antiromano
o se
venne
giustiziato
solo
perché
così
lo
si
considerava,
si
deve
senz’altro
distinguere
tra
il
nostro
modo
di
vedere
e
quello
di
chi
fu
storicamente
presente.
Quello
che
la
potenza
occupante
romana
e la
dirigenza
locale
a
essa
soggetta
considerarono
un
primo
passo
verso
la
rivolta
è da
pensare
che
sia
considerevolmente
diverso
dalla
nostra
prospettiva
(o
interpretazione)
posteriore”.
Ma
vediamo
la
ripartizione
plausibile
delle
competenze
fra
l’amministrazione
romana
e
quella
locale.
Hengel
afferma:
“il
potere
di
Roma
in
Giudea
sottopose
Gesù
a un
breve
processo
e lo
condannò
a
morte.
La
crocifissione
era
la
pena
capitale
che
Roma
aveva
previsto
per
i
ceti
inferiori
e
nelle
province
per
i
nemici
reali
o
apparenti.
Nei
territori
colonizzati
colpiva
rivoltosi
veri
o
presunti
appartenenti
alla
gente
comune,
e
per
i
malfattori
significava
una
fine
non
soltanto
straziante
ma
anche
estremamente
infamante
(mors
turpissima
crucis)”.
Come
abbiamo
visto
da
casi
analoghi
è
senz’altro
possibile
che
l’élite
del
paese
partecipasse
ad
imporre
la
disciplina
alla
propria
popolazione,
secondo
Stegemann:
“nel
senso
di
funzione
di
polizia
coercitiva
agivano
per
il
potere
romano.
Entro
certi
limiti
essi
erano
anche
autonomi
nell’esercizio
della
giustizia,
soprattutto
per
le
controversie
che
oggi
si
definirebbero
di
diritto
privato”.
Stegemann:
“anche
le
competenze
precise
del
sinedrio
non
sono
chiare.
La
dipendenza
del
sommo
sacerdote
da
Roma
risulta
chiara
soprattutto
dal
suo
insediamento
e
dalla
sua
deposizione
ad
opera
di
Roma;
addirittura
la
veste
del
sommo
sacerdote
era
conservata
dai
romani
e
veniva
da
loro
messa
a
disposizione
soltanto
nei
giorni
di
festa”.
Nei
dibattiti
fra
gli
storici
si è
frattanto
imposta
la
convinzione
che
anche
per
i
governatori
posteriori
valga
quanto
afferma
Giuseppe
per
Caponio,
primo
governatore
della
giudea
romana,
secondo
cui
questi
avrebbe
riccevuto
il
potere
dall’imperatore,
anche
quello
di
mettere
a
morte
(Bell.
2,117).
che
per
conto
né
al
sommo
sacerdote
né
al
sinedrio
era
consentito
ciò,
e lo
conferma
l’esecuzione
di
Giacomo
fratello
del
Signore
su
ordine
di
Anano
in
periodo
di
sede
romana
vacante,
al
quale
costò
la
deposizione
dalla
carica.
La
vicenda
mostra
anche
che
la
stessa
convocazione
del
sinedrio
necessitava
dell’approvazione
del
governatore
romano
(Ant.
20,200-203).
Stegemann
sulla
base
dell’attribuzione
delineate
delle
competenze
conclude
in
tre
punti:
1.
La
delibera
della
crocifissione
di
Gesù
fu
totalmente
in
mano
al
potere
romano.
In
quanto
non
cittadino
romano,
non
aveva
diritto
a un
regolare
processo
giudiziario,
si
deve
pensare
che
Gesù
sia
stato
condannato
alla
crocifissione
dal
prefetto
con
un
procedimento
poliziesco
militare
(coercitio)
che
era
adottato
in
particolari
casi
di
mantenimento
quiete
e
ordine
e
quando
non
ostavano
i
diritti
personali
individuali
degli
accusati,
come
sarebbe
stato
se
Gesù
fosse
stato
romano.
Ma
anche
se
vi
fosse
stato
un
regolare
processo
per
la
responsabilità
della
crocifissione
non
cambia
nulla,
e
questo
procedimento
fa
pensare
a
ragioni
che
presuppongono
una
qualche
forma
di
sedizione
antiromana.
2.
In
generale
è
possibile
che
a
Gerusalemme
Gesù
sia
stato
catturato
nel
corso
di
un
tumulto
da
soldati
romani,
condotto
immediatamente
davanti
al
comandante
romano
senza
istanze
dell’amministrazione
giudaita,
condannato
a
morte
e
crocifisso
con
altri
ribelli/banditi
(lestai).
Un
esempio
vivido
di
questo
genere
è
descritto
negli
Atti
degli
apostoli
(Atti
21,27
ss.).
A
causa
di
Paolo
scoppia
nel
tempio
un
tumulto,
le
truppe
catturano
Paolo,
ma
egli
si
fa
riconoscere
come
cittadino
romano,
col
che
ha
inizio
un
lungo
procedimento
giudiziario
al
termine
del
quale
Paolo
viene
inviato
a
Roma.
Si
tratti
o
non
di
un
racconto
veritiero
di
quanto
storicamente
accadde
a
Paolo,
l’esempio
dà
per
scontato
che
nessuna
istanza
dell’amministrazione
autonoma
del
paese
sia
fatta
intervenire.
3.
La
partecipazione
di
istanze
giudaite
è
possibile
ma
si
deve
escludere
un
vero
processo
del
sinedrio.
Già
la
riunione
di
quest’organo
avrebbe
avuto
richiesto
il
permesso
e
dei
superiori
funzionari
e in
nessun
caso
avrebbe
potuto
essere
un
procedimento
capitale.
Per
aver
senso,
l’intenzione
di
mettere
a
morte
Gesù
che
i
Vangeli
attribuiscono
all’élite
giudaita,
se
quello
davanti
al
sinedrio
fu
un
procedimento
legale
avrebbe
dovuto
esplicarsi
direttamente
nella
denuncia
o
nel
rinvio
di
Gesù
davanti
al
prefetto
romano.
A
questo
scopo
sarebbe
stato
sufficiente
un
interrogatorio
preventivo
ad
opera
del
sinedrio
come
nel
caso
di
Gesù
ben
Anania.
In
ogni
caso
è
anche
plausibile
una
partecipazione
dell’élite
nel
quadro
di
una
cattura
in
vista
di
una
misura
coercitiva
subordinata,
in
conformità
e
circoscritta
alla
loro
competenza
locale
e
non
nell’ambito
capitale
e di
misure
giudiziarie.
Su
questa
base,
non
è
escluso
che
nel
caso
di
Gesù
di
Nazaret,
il
sinedrio,
proprio
per
evitare
a
Gesù
ulteriori
conseguenze
abbia
preso
misure
riguardanti
la
sua
competenza
e
solo
dopo
il
fallimento
di
queste
lo
abbia
inviato
al
governatore”.
La
conclusione
di
Stegemann
è
esemplare
per
chiarire
la
complessità
sia
di
tutto
“il
problema
Gesù
storico”sia
della
questione
in
particolare.
Egli
dopo
aver
argomentato
termina:
“che
cosa
poi
nell’ambito
di
tutte
queste
possibilità
realmente
sia
accaduto
a
Gerusalemme,
non
lo
si
saprà
mai”.
Questo
riporta
a
galla
un’altra
problematica
già
affrontata
in
articoli
precedenti
e
cioè
quella
del
confronto
tra
la
“realtà
delle
cose”
e la
“realtà
documentaria”.
Come
si
sa,
la
storia
non
si
fa
coi
fatti
ma
coi
documenti
e
spesse
volte
quest’ultimi
sono
non
proprio
la
realtà
ma
l’interpretazione
della
stessa.
Ne
vedremo
un
breve
esempio
nel
prossimo
articolo.