N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
GESÙ STORICO: INDAGINE ATTORNO A UN “PROBLEMA”
PARTE XI - L’ingresso a Gerusalemme
di Luigi Pezzella
Una
cosa
è
certa,
Gesù
entra
in
Gerusalemme
da
re.
Con
l’entrata
in
Gerusalemme
di
Gesù
e lo
stuolo
dei
suoi
seguaci,
la
rivendicazione
del
ruolo
davidico
viene
dichiarata
esplicitamente.
Gesù
entra
in
Gerusalemme
come
rappresentante
della
promessa
della
sovranità
che
ora
viene,
sul
dorso
di
un
asino.
Osserviamo
nel
dettaglio
tutto
ciò
che
oggi
ai
nostri
occhi
può
sembrare
trascurabile,
ma
per
i
contemporanei
di
Gesù
ogni
particolare
è
gravido
di
regalità.
Iniziamo
col
prendere
in
considerazione
l’uso
della
cavalcatura,
ossia
l’asino.
Esso
era
impiegato
in
origine,
secondo
la
testimonianza
biblica,
da
personaggi
autorevoli
(cf.
Gdc5,10;
10,4;
2Sam
13,29;
18,9).
Sulla
groppa
dell’asino
si
stendeva
una
coperta,
legata
attorno
al
dorso
dell’animale
in
modo
da
non
scivolare
(22.3;
Gdc
19,10;
2Sam
16,1
17,23;19,27;
2Re
4,24).
A.
Rolla
ci
fa
notare
che
il
rapporto
tra
l’uso
dell’asino
e la
regalità
è
una
specie
di
topos
dell’Antico
Testamento,
infatti
con
questo
passo
confronta
il
racconto
della
consacrazione
regale
di
Salomone
in
1Re
1,28-40;
quando
Davide,
oramai
vecchio
permette
al
figlio
di
adoperare
la
propria
mula.
Rolla:“cedendo
a
Salomone
la
propria
mula,
Davide
mostrava
a
tutti
la
volontà
di
trasmettergli
il
potere
regio”.
Per
Joseph
Ratzinger
molto
più
importante
di
1Re
1,28-40
sono
Gen
49,11
e Zc
9,9.
Gen49,11:
“Il
sovrano
che
nascerà
da
Giuda
godrà
dei
frutti
migliori
e
disponibili
in
abbondanza
avrà
la
possibilità
di
legare
a
una
vite
scelta
il
suo
asinello”.
Il
v.11
qui
in
questione,
appartiene
alla
sezione
dei
vv.8-12,
dedicata
a
Giuda,
il
quale
è
descritto
come
vincitore
dei
suoi
nemici
e
dominatore
dei
popoli.
Zc
9,9:
“Esulta
grandemente
figlia
di
Sion,
giubila
figlia
di
Gerusalemme,
ecco
a te
viene
il
tuo
re.
Egli
è
giusto
e
vittorioso
e
cavalca
un
asino,
un
puledro
figlio
di
asino”.
In
Zaccaria
è
esplicito
il
richiamo
regale
della
cavalcatura
dell’asino.
Secondo
il
nostro
modo
di
vedere,
l’ingresso
in
Gerusalemme
in
groppa
ad
un
asino
sarebbe
più
importante
della
modalità
del
reperimento
dello
stesso,
in
quanto
l’ingresso
ha
caratteristiche
solenni
vicine
anche
a
quelle
che
sono
gli
odierni
onori,
ma
Derret
ci
fa
notare
che
anche
il
reperimento
della
cavalcatura
ha
in
sé
una
chiara
rivendicazione
regale.
Derret
spiega:
“tutto
questo
ha a
che
fare
con
il
diritto
regale
dell’angheria,
consistente
nella
requisizione
di
mezzi
di
trasporto
conosciuto
anche
nella
cultura
ebraica,
come
appare
in
1Sam
12,3-5”.
Conferma
questa
tesi
anche
Ratzinger
quando
afferma
che:
“Gesù
rivendica
il
diritto
regale
della
requisizione
dei
mezzi
di
trasporto,
un
diritto
noto
in
tutta
l’antichità”.
Inoltre,
ci
sono
due
particolari
che
vanno
evidenziati.
Il
primo
è il
particolare
dei
mantelli,
che
in
Mc.11,8
si
dice:
“vengono
stesi
per
terra
sulla
via.”
Verrebbe
da
chiedersi
che
senso
abbia
stendere
i
mantelli
per
farli
calpestare
da
un
asino.
Se
Gesù
era
già
su
una
cavalcatura,
che
evocava
significati
ben
precisi,
che
valore
aveva
stendere
anche
i
mantelli
per
terra?
Di
Palma
risponde
con
un
accostamento
a
2Re
9,11-13,
spiega:
“in
questo
brano
(2Re)
Ieu
aveva
ricevuto
la
visita
di
un
discepolo
del
profeta
Eliseo
e da
costui
era
stato
unto
re.
I
suoi
colleghi
ufficiali,
sentito
quanto
Ieu
aveva
raccontato
sulla
venuta
del
profeta,
lo
acclamano
re
e,
in
segno
di
onore,
stendono
i
propri
vestiti
a
terra,
come
oggi
si
usa
stendere
tappeti
su
cui,
in
occasioni
ufficiali,
le
grandi
personalità
camminano”.
Il
secondo
particolare
è
quello
delle
fronde
tagliate
dagli
alberi
per
strada
mentre
Gesù
cammina
in
groppa
all’asino
calpestando
tappeti:“il
saluto
col
rito
dell’agitare
i
rami
di
palma
richiama
il
nazionalismo
ebraico
di
matrice
maccabaica,
in
particolare
due
episodi:
1
Mac
13,51,
quando
Simone
riconquistò
l’Acra
di
Gerusalemme
e
“fecero
ingresso
in
quel
luogo
il
ventitré
del
secondo
mese
dell’anno
171
[142
a.C.],
con
canti
di
lode
e
con
palme”;
quando
Giuda
dedicò
nuovamente
l’altare
del
Tempio
(164
a.C.)
racconta
2Mac10,7
che
“tenendo
in
mano
bastoni
ornati,
rami
verdi
e
palme,
innalzavano
inni
a
colui
che
aveva
fatto
ben
riuscire
la
purificazione
del
suo
proprio
tempio”.
Un’altra
osservazione
in
merito
la
fornisce
P.
Sacchi:
“Nel
Testamento
greco
di
Neftali
5,4,
dove
i
rami
di
palma
dati
a
Levi
sul
Monte
degli
Ulivi
simboleggiano
il
potere
conferitogli
su
tutto
Israele,
ritroviamo
la
stessa
espressione
giovannea
indicante
le
palme:
mentre
Levi
era
come
il
sole,
ecco
un
giovane
che
gli
dà
in
aggiunta
dodici
foglie
di
palma”.
In
questo
contesto
regale,
al
suo
ingresso
in
Gerusalemme,
Gesù
viene
“salutato”
con
Osanna!
Benedetta
la
basileia
del
nostro
padre
Davide
che
ora
viene.
Osanna,
stando
a
2Sam
14,14
e
2Re
6,25
significa:
“Aiuto
mio
re!”.
Stegemann
osserva:
“Il
grido
della
folla,
di
speranza
nella
basileia
di
David
che
ora
viene,
e
quindi
nell’instaurazione
della
promessa
dinastia
davidica,
non
è
ripreso
né
nel
testo
matteano
né
nel
parallelo
lucano
(Mt.21,9;
Lc.19,38).
Ciò
si
spiega
da
sé,
nel
senso
che
il
correttivo
introdotto
da
Matteo
e
Luca
porta
alla
luce
in
senso
politico
la
versione
marciana
dell’episodio
dell’ingresso”.
Pinchas
Lapide
sulla
questione:
“Il
grido
di
Osanna
nel
contesto
del
Salmo
118
relativo
alla
basileia
di
Davide
che
ora
viene,
è
un’esortazione
a
liberare
i
supplicanti,
ha
una
forte
coloritura
politica,
poiché
sarebbe
un
invito
rivolto
al
figlio
di
Davide,
Gesù,
a
cacciare
i
romani
dalla
terra
d’Israele.
Il
Nuovo
Testamento
ha
trasformato
questo
grido
di
liberazione
in
un
innocuo
ossequio
religioso.
La
folla
avrebbe
detto
nel
giorno
dell’ingresso:
“salvaci
dai
romani”,
mentre
i
Vangeli
hanno
depoliticizzato
l’espressione”.
Sanders
sostiene
che
l’episodio
dell’ingresso
in
Gerusalemme
è
direttamente
connesso
all’esecuzione
di
Gesù
come
re
dei
giudei/giudaiti.
Sanders:
“si
può
tuttavia
senz’altro
pensare
che
l’ingresso
di
Gesù
in
Gerusalemme
fosse
un
segnale
esplicito:
re,
sì,
in
un
senso
preciso,
non
conquistatore
militare”.
Infatti,
nell’attesa
biblica
e
nella
dominazione
di
Dio
in
quanto
re
compaiono
idee
bellicose
ma
non
militari.
Stegemann
a
questo
pensiero
aggiunge:
“in
realtà
la
rivendicazione
del
trono
di
David
non
dovette
mai
essere
manifestata
con
l’appoggio
delle
armi,
ma
resta
pur
sempre
una
pretesa
politica
che
la
potenza
occupante
romana
seppe
reprimere.”
Inoltre
Stegemann
ci
informa
di
un
caso
analogo
alla
pretesa
regale
gesuana
di
Simon
ben
Giora.
Egli
era
figlio
di
un
proselita
originario
di
Gerasa,
quindi
della
decapoli.
Sembra
che
all’inizio
avesse
formato
una
banda
di
rivoltosi
e
che
fece
la
sua
comparsa
nei
territori
giudaiti
di
confine
dove
alla
maniera
dei
banditi
sociali
rapinava
e
saccheggiava
le
case
dei
ricchi
(Bell.2,652).
Ma
le
circostanze
finirono,
per
così
dire,
per
politicizzarlo.
Fuggito
davanti
a un
esercito
inviatogli
da
Anania
dalla
toparchia
dell’Acrabatene,
si
unì
ai
sicari
rifugiatisi
a
Masada.
Dopo
che
gli
zeloti
e
gli
idumei
ebbero
tolto
di
mezzo
Anania,
mirò
al
potere
assoluto
a
Gerusalemme
e
avanzò
anche
rivendicazioni
politiche
promettendo
libertà
agli
schiavi.
(Bell.4,508).
Merita
osservare
che
Giuseppe
ricorda
anche
che
la
sua
non
fu
più
una
banda
di
soli
schiavi
o
banditi,
ma
anche
di
non
pochi
cittadini
che
gli
prestavano
ubbidienza
come
a un
re
(Bell.4,510).
Egli
riuscì
quindi
a
raccogliere
intorno
a sé
non
soltanto
banditi
sociali,
ma
anche
persone
in
vista
(ibid.)
e,
come
avevano
fatto
Menehem
e
prima
ancora
Giuda,
Simone
e
Atronge,
rivendicò
il
ruolo
di
anti-re.
Non
è
allora
un
caso
che
anche
Giuseppe
ricordi
il
tipico
motivo
del
capo
militare
carismatico,
la
forza
fisica
e
l’audacia
straordinarie
(Bell.
4,503).
Ma
soprattutto
vi
sono
indizi
che
per
il
suo
antiregno
(messianico)
Simone
s’ispirasse
coscientemente
al
modello
di
David.
Giuseppe
racconta
che
Simone
iniziò
col
conquistare
Hebron
in
Idumea,
ossia
la
città
di
David
quando
ancora
non
era
re
(2Sam
2,1
ss:
5,3ss.).
Singolare
è
anche
che
Giuseppe
parli
spesso
di
donne
o
della
moglie
di
Simone
che
l’accompagnava,
come
si
trattasse
del
seguito
di
una
casa
reale
(Bell.2,563;
4,505.538),
e
soprattutto
che
ne
descriva
l’ingresso
in
Gerusalemme,
dov’era
stato
chiamato
dagli
avversari
di
Giovanni
di
Giscala,
come
accoglienza
trionfale,
come
salvatore
e
protettore
(Bell.4,575).
È
probabile
che
questa
rivendicazione
salvica
messianico
davidica
si
rifletta
anche
nelle
monete
della
rivolta,
che
recano
la
scritta
“anno
4” e
“
per
la
liberazione
di
Sion”.
Come
che
sia,
Simone
non
venne
meno
alla
sua
rivendicazione
regale
sino
alla
fine,
quando
fallito
il
tentativo
di
fuga
affrontò
i
romani
in
tunica
bianca
e
mantello
di
porpora
(Bell.7,29).
Di
fatto
i
romani
lo
considerarono
il
capo
più
prestigioso
della
rivolta,
dal
momento
che
lo
condussero
a
Roma
come
vittima
sacrificale
nel
corteo
trionfale
e lo
giustiziarono
accanto
al
foro
(cf.
Bell.6,434;
7,118ss.
153
ss.).
Resta
infine
la
questione
del
rapporto
fra
l’attesa
della
basileia
tou
theou
e
l’attesa
della
“sovranità
di
David
nostro
padre”.
Chiedono
Theissen
Merz:
“si
tratta
forse
di
un
malinteso
(della
folla)
ingenerato
dalla
predicazione
della
“sovranità
regale
di
Dio?”.
Stegemann
propende
per
pensare
che
la
risposta
sia
quella
di
Ps.
Sal17,
dove
le
due
attese
coesistono.
Con
riguardo
a Ps.
Sal17,
la
prospettiva
della
restaurazione
ad
opera
del
nuovo
David
ha
il
suo
momento
culminante
nella
proclamazione
della
durata
eterna
della
sovranità
divina.
Messianismo
regale
e
regalità
davidica
possono
quindi
andare
di
pari
passo,
anche
se
non
necessariamente.
Stegemann
conclude:
“l’attesa
connessa
a
Gesù
come
futuro
re
sul
trono
di
David
interpreta
la
sua
regalità
come
rappresentanza
terrena
della
basileia
tou
theou”.
In
breve,
nel
Vangelo,
all’ingresso
di
Gesù
in
Gerusalemme
sono
connessi
tre
episodi
che,
più
o
meno,
sono
chiare
indicazioni
che
a
Gesù
era
associata
la
speranza
di
ristabilimento
della
dinastia
davidica:
guarigione
del
cieco
Bartimeo;
ingresso
regale
in
Gerusalemme;
rivendicazione
regale
del
ristabilimento
dell’ordine
del
santuario
del
tempio.
In
questo
contesto
rientra
anche
la
denominazione
di
Gesù
come
re
dei
giudaiti.
Non
stupisce
molto
che
il
tema
della
dignità
regale
di
Gesù
stia
al
centro
dell’interrogatorio
di
Pilato.
Inoltre
Di
Palma
aggiunge:
“c’è
da
dire
che
forse
le
autorità
di
Gerusalemme
capirono
più
dei
discepoli
il
significato
di
quei
gesti
e il
loro
rimprovero
sulla
proclamazione
figlio
di
Davide
potrebbe
essere
letta
anche
in
chiave
positiva,
poiché
essi
sembrerebbero
preoccuparsi
del
fatto
che
Gesù
agendo
così,
si
esponesse
ad
accuse
di
natura
politica
(sedizione
e
ribellione).
Ed è
possibile
che
in
origine,
a
livello
di
tradizione,
fosse
così,
mentre
nella
redazione
il
senso
sia
stato
cambiato,
lasciando
intendere
che
essi
si
opponevano
alla
proclamazione
della
regalità
di
Gesù”.
Questo
ci
introduce
nell’ultima
parte
della
nostra
indagine
storica
su
Gesù
di
Nazareth,
cioè
sul
processo
e
sulla
sua
condanna
a
morte.
Chi
condannò
veramente
Gesù?
Quali
procedure
giuridiche
e
quali
leggi
furono
applicate?
Soprattutto,
la
redazione
della
letteratura
post-mortem
(Paolo,
sinottici
etc.)
è
narrazione
o
interpretazione
soggettiva
dei
fatti
storici?