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filosofia & religione


N. 67 - Luglio 2013 (XCVIII)

GESÙ STORICO: INDAGINE ATTORNO A UN “PROBLEMA”

PARTE VII - IL messia atteso
di Luigi Pezzella

 

Alla figura particolare di Gesù è da sempre associata la figura di Messia. Questa, insieme a Regno di Dio, non era una novità a quei tempi, bensì un tema costante e molto diffuso che tuttavia viene attivata specie in periodi di crisi del popolo giudaita. Ma chi, o cosa aspettavano i giudaiti?

 

Le più antiche manifestazioni dell’attesa messianica, contenute nelle profezie di Isaia, Michea (VIII sec. a.C.) e Geremia (VII sec. a. C.) riguardano un futuro radioso, ancorché indeterminato in termini umani e storici, garantito da un re-messia della stirpe di David che avrebbe affrancato Israele dai pericoli esterni e assicurato giustizia e benessere.

 

Messia significa appunto unto; l’unzione era l’elemento costitutivo della regalità, secondo quanto Dio stesso aveva indicato a Samuele in occasione della consacrazione di Saul.

 

Questo tipo di aspettativa, pur assumendo aspetti diversi, restò vivo per molto tempo, esempio: verso la fine del VI sec.-V sec. a.C. veniva progressivamente meno il riferimento alla stirpe di Davide e in qualche caso persino l’immagine del Messia come re.

 

Come ci informa Firpo: “Dio garantiva un futuro felice attraverso un’osservanza scrupolosa della sua Legge, senza intermediari particolari”.

 

A partire dal IV sec. a.C. inquietudini e fermenti d’innovazione cominciarono però a incrinare certezze dottrinali e spirituali mai poste in discussione sino ad allora. Sorsero dubbi e interrogativi sconosciuti quali la domanda di Giobbe: (prima metà del IV sec. a. C.) “perché il giusto soffre e il malvagio gioisce?”, e come la meditazione di Qoelet (libro delle Ecclesiastiche, seconda metà del III sec. a. C) sull’incomprensibilità dei disegni divini.

 

La produzione letteraria ispirata alla riflessione apocalittica coprì un arco di tempo assai lungo, dal IV sec. a. C. alla prima metà del II sec. Uno dei cardini di questa visione apocalittica era rappresentata dalla divisione della storia in due parti distinte non solo cronologicamente, ma anche qualitativamente, un tempo presente e finito, caratterizzato dal prevalere del male e delle tenebre, e un tempo futuro ed eterno, quello del regno di Dio, del dominio del bene e della luce.

 

Il passaggio dalla prima alla seconda fase della storia, considerato imminente, sarebbe stato preceduto da un periodo di dolore e tribolazione culminato in uno scontro di dimensioni cosmiche, tanto da coinvolgere cielo e terra, e avrebbe avuto come esito sicuro la vittoria delle forze del bene su quelle del male. La collocazione di questi drammatici eventi alla fine del tempo presente rappresenta la connotazione escatologica (dal greco eschaton = ultimo, finale) delle concezioni apocalittiche.

 

La cospicua fioritura di testi apocalittici si ebbe con Antioco IV. Data la grave crisi esplosa in Giudea col suo avvento, questa andò di pari passo con una forte rivitalizzazione dell’attesa messianica che assunse aspetti inediti.

 

Molti ritennero che la situazione fosse oramai fuori controllo, e che le possibilità di salvezza risiedessero in un intervento urgente di Dio, direttamente o attraverso un personaggio dotato di particolari carismi e, in certi casi, di origine superumana. Questa aspettativa trovò espressione in forme diverse, in ogni caso l’intervento di Dio e/o del Messia da Lui inviato veniva posto alla fine del tempo presente, connotato dalla prevalenza del male, e sarebbe stato seguito dall’abbattimento dell’idolatria e del trionfo della giustizia, sulla terra e in cielo.

 

La più antica applicazione storiografica di questa concezione è in Daniele, composto da sezioni narrative redatte in tempi diversi.

 

Nel secondo capitolo si narra come il re babilonese Nabucodonosor avesse sognato una statua composta da quattro metalli: la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo, le gambe e i piedi di ferro e creta misti. La consistenza di quest’ultima mistura era assai precaria, sì che un sasso rotolato giù da un monte, li aveva distrutti, facendo crollare tutta la statua.

 

I sapienti di Babilonia non erano riusciti a decifrarne il messaggio, ma vi riuscì Daniele, ebreo deportato, che per ispirazione divina spiegò che le quattro parti del corpo e i rispettivi metalli corrispondevano ad altrettanti regni o imperi, il primo dei quali era quello di Nabucodonosor, a esso sarebbero succeduti altri tre, l’ultimo dei quali sarebbe stato abbattuto dal quinto, il regno messianico, rappresentato dal sasso caduto dal monte.

 

Questo capitolo fu redatto intorno alla metà del III sec. a.C. durante la tranquilla dominazione tolemaica, il pericolo dei regni ellenistici è sì ben individuato, ma, non essendovi una tensione particolare, non è avvertito come “minaccia” incombente il quinto salvifico impero.

 

I capitoli sette e otto di Daniele, furono composti immediatamente dopo la purificazione del tempio da parte di Giuda il Maccabeo avvenuta nel 164 a.C. Questi capitoli riflettono la drammaticità degli eventi che l’avevano preceduto e la forte tensione emotiva che li aveva accompagnati.

 

La riconsacrazione del tempio segnava l’inizio della disfatta degli imperi pagani, raffigurata ora da quattro bestie feroci, l’ultimo dei quali è quello seleucide e l’inaugurazione del regno di Dio sulla terra. In questo contesto storico così convulso si situa la crisi nella quale risorse una speranza messianica, non più legata però come nel passato alla prospettiva di un futuro migliore per la nazione, prospera e rispettata dai popoli pagani, costretti a riconosce re Israele e il suo Dio, e guidata da un re saggio e forte della casa di Davide ma come informa Di Palma: “la prospettiva messianica di questo periodo, che si prolunga dal punto di vista temporale verso un orizzonte indefinito, aveva piuttosto dei connotati universalistici perché il regno che viene sognato avrebbe coinvolto tutti i popoli della terra e il messia sarebbe diventato il sovrano e il giudice del mondo, in relazione alle dimensioni sempre più mondiali degli imperi in cui Israele era inserito. Questa speranza avrebbe avuto non solo risvolti universali, ma anche ricadute per il destino individuale, l’interesse per il quale si era sempre più sviluppato, facendo nascere anche l’idea della risurrezione personale ed eterna e questo preparava a una sorta di slittamento della speranza messianica nella dimensione trascendente e soprannaturale con il fallimento del messianismo politico nelle due guerre giudaiche”.

 

Una parte non irrilevante di questo messianismo politico, aveva anche a che fare con rivendicazioni popolari e di aspirazioni dei ceti contadini che volevano liberarsi da una fiscalità oppressiva dei dominatori stranieri.

 

Si trattava di un confuso sentimento desideroso di vedere realizzate delle aspettative che possono in senso lato essere definite appunto messianiche, su questo punto spiega bene il concetto Sacchi: “il messianismo è una categoria del pensiero ebraico costruita su due elementi: il primo è costituito dall’avvento, in un tempo futuro imprecisabile, di un mondo felice; il secondo elemento, strettamente collegato al primo, è il convincimento che questo mondo felice del futuro non sarà opera di forze solamente umane, ma anche di un mediatore, dotato da Dio di particolari carismi. Chiameremo messia la figura di ogni mediatore di salvezza, qualunque sia la sua natura”.

 

Nel 64 a.C. poi qualcosa d’incredibile avviene. Nel corso dell’ultima fase della terza guerra mitridatica contro Roma, Pompeo invase la Siria ponendo fine alla monarchia dei seleucidi e trasformando la regione in provincia romana.

 

Egli era così giunto ai confini settentrionali del regno di Giudea, ove era in corso la lotta per la successione della regina Alessandra (morta nel 67 a.C.) tra i figli Aristobulo e Ircano che per dirimere la questione si appellarono a Pompeo. Egli si pronunciò a favore di Ircano.

 

A seguito della reazione negativa di Aristobulo, Pompeo entrò in Giudea con l’esercito e si diresse verso Gerusalemme, occupandola e costringendo Aristobulo e i suoi seguaci ad asserragliarsi nel tempio.

 

Infine i romani irruppero nel santuario facendo strage di nemici. A commento di questo tragico evento Giuseppe Flavio afferma che l’invasione di Pompeo rappresenta per la Giudea la fine della libertà e l’inizio della sudditanza. I venticinque anni successivi furono umilianti. Non viene incorporata nello stato romano, Pompeo la rese tributaria; inoltre non concesse il titolo regio a Ircano, riservandogli oltre il sommo sacerdozio un potere politico-amministrativo limitato che lo rendeva il principale responsabile della sicurezza interna e dell’acquiescenza verso Roma.

 

Il giorno dopo la conquista del tempio di Gerusalemme, Pompeo ordinò di purificarlo e di riprendere i sacrifici come tradizione, a differenza di Antioco IV, Pompeo non si sovrappose alle tradizioni giudaite.

 

Tuttavia, il generale romano compì un atto che a sua insaputa avrebbe avuto conseguenze imprevedibili, poiché spinto dalla curiosità entrò nel tempio, dove per antica prescrizione a nessun pagano era consentito entrare, ammirò tutti gli arredi e il tesoro che ammontava a circa 2000 talenti, entrò fino alla stanza più interna detta “Santo dei Santi” cui solo il sommo sacerdote una volta l’anno poteva entrare e in occasione di particolari occasioni liturgiche. Questo sacrilegio fece riconoscere in Roma il quarto impero danielino e Pompeo nuovo Antioco IV.

 

In modo drammatico, all’improvviso Roma non mostrò più il volto amico e la sua interpretazione danielina fornì l’attesa risposta agli interrogativi che erano rimasti in sospeso quando si era capito che esso non poteva corrispondere al regno dei seleucidi.

 

Qualche tempo dopo, nel 54 a.C., Crasso, l’altro triumviro insieme a Pompeo e Cesare preparandosi verso la Mesopotamia, che avrebbe portato al disastro di Canne, si autofinanziò depredando il tempio di arredi sacri e dell’oro.

 

Questo gesto seppur più grave di quello di Pompeo destò meno scalpore, perché fu interpretato come logica conseguenza di quello di Pompeo. Da qui in poi ci fu un’intensa attività letteraria antiromana.

 

Le opinioni divergevano da come sarebbe avvenuto il “riscatto”. L’autore di una raccolta che va sotto il nome di Salmi di Salomone (ca. metà del I sec. a. C.) torna, dopo molto tempo, a invocare l’avvento di un re-messia della stirpe di David, capace di liberare Israele dai pericoli esterni e dai nemici interni dei pii e dei giusti, e di restituirgli la potenza.

 

Maggiormente caratterizzata da tensione e urgenza apocalittica è la produzione letteraria essena riferibile al periodo successivo la conquista romana.

 

Nel Rotolo di guerra la descrizione della guerra escatologica, considerata imminente, fra Dio, gli angeli e i figli della luce da una parte, Belial, i demoni e i figli delle tenebre dall’altra, raggiunge i più alti livelli di tensione e esaltazione.

 

Le certezze apocalittiche di questa natura, unite all’attesa sempre più viva di un capo messianico guerriero, ebbero indubbiamente gran parte nella resistenza antiromana e nelle ricorrenti tragedie che la caratterizzarono: in effetti, furono in molti a presentarsi o a lasciarsi accreditare come precursori o addirittura iniziatori dello scontro escatologico con l’impero romano. In questo contesto poi, “intervenne” nella storia Gesù di Nazareth a proclamare il Regno di Dio, e in questo contesto andremo a indagare cosa intendesse “l’uomo giudeo” Gesù di Nazareth.



 

 

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